Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Laureato in Lettere e Storia. Redattore presso Dissipatio.it. Ha scritto per«L'Intellettuale dissidente» e«Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».

Recensione a: F. Marchesi, Ritorno ai princìpi: concezioni della storia da Machiavelli alla Rivoluzione francese, Carocci, Roma 2022, pag. 220, € 25,00.

Il saggio di Francesco Marchesi ha l’obiettivo di collocare lo sviluppo del pensiero politico all’interno del corso storico. Fin dall’introduzione del saggio, l’Autore pone a mettere in chiaro che fin dall’antichità vi sono state due concezioni sullo sviluppo della filosofia storia, in antitesi tra di loro: da un lato, vi è la concezione della circolarità dell’idea di stampo polibiano dell’eterno ritorno; dall’altro, il processo di evoluzione della storia secondo un andamento lineare. La storia, quindi, non ha un andamento univoco, né circolare, né lineare, bensì un continuo alternarsi tra «rottura e permanenze, periodi di permanenze e discontinuità, periodi di stabilità e momenti di rottura» (p. 10).

Il ciclo dell’eterno ritorno storico di stampo polibiano, in verità dei fatti, non è stata la concezione predominante nella classicità, sia in ambito storiografico che filosofico. Per addurre tale tesi, sin dalle prime pagine dell’introduzione, Marchesi chiama in causa Santo Mazzarino, dove nelle sue ricerche dimostrò che vi era una differenza sostanziale tra il ritorno cosmologico e quello storico. La stessa ciclicità veniva presa a modello solamente per alcuni «elementi di continuità» (p.10), mentre per altre congiunture venivano fatte analisi completamente diverse rispetto agli eventi trascorsi nel passato.

La scienza medica era stata un paradigma fondamentale per la determinazione delle forme culturali del pensiero  politico. Sin dall’antichità era stato fatto un ampio uso del lessico derivante dal campo medico per determinare il mutamento delle idee politiche nel corso storico. Lo stesso ritorno ai princìpi originari era stato interpretato come una stato di salute ritrovato all’interno dello Stato. Vita dell’uomo intesa, quindi, come bios, che a livello analogico andava ad inglobare anche la vita politica. Secondo l’analisi di Marchesi, questi strumenti concettuali erano già presenti nel Timeo di Platone, dove l’uomo veniva interpretato come un microcosmo e di conseguenza sottoposto all’influenza di diversi fattori: «dalle stagioni dell’anno alle qualità primarie, dagli elementi del corpo agli umori». (p. 20)

Il corpo biologico e quello politico si trovavano in perfetta osmosi, in cui l’assioma di ordine della natura e quello del corpo andavano ad assumere lo stesso significato: «L’assunzione di una naturale politicità, o socievolezza, dell’uomo, che da Aristotele giunge a Cicerone e a Seneca, contribuisce a far sì che le fonti del pensiero politico muovono spesso metafore e analogie con la natura e la sua struttura organica» (p. 24). Corpo naturale e corpo politico che però erano accomunati anche dalla malattia, che nel campo politico equivaleva al fenomeno della corruzione. Quest’ultimo lemma era entrato nel lessico della politica sempre grazie a Platone, in cui la corruzione era la causa del lento decadimento delle forme costituzionali. Successivamente Aristotele delineò lo sviluppo lineare della corruzione nella forma politica in maniera più articolata. Per lo Stagirita gli ordinamenti politici esistenti quali monarchia, aristocrazia e politeia (ordinamento misto dove i pochi e i molti governavano insieme), sotto l’influsso della corruzione potevano assumere le forme degenerate della «tirannia, oligarchia e democrazia» (p. 27).

Proprio da Aristotele, lo storico Polibio sviluppò la teoria della ciclicità delle costituzioni, incrociandola con la cosmologia di Empedocle. L’asse portante dell’Anakyklosis polibiana venne fondata su un ciclo di rivoluzioni di stampo prettamente politico, in cui le istituzioni statuali erano destinate a mutare, senza soluzione di continuità, fino a deperire, per poi tornare al loro punto di partenza e riprendere il loro ciclo. Secondo lo storico greco un giusto governo doveva essere un ordinamento che racchiudesse la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. Questo tipo di ordinamento statuale veniva identificato con la Roma repubblicana. Un elemento fondamentale, che garantiva questo equilibrio, era la magistratura del Tribunato della plebe. Grazie a questo organo si aveva un bilanciamento tra i poteri costituzionali, il cui esito era un punto di equilibrio tra le magistrature. Il venir meno del ruolo del Tribunato, attraverso la cooptazione dei suoi elementi nelle altre classi senatoriali, causava il mutamento, in senso prettamente degenerativo, dalla repubblica all’impero. Questa cooptazione, come scrisse Polibio, andava cercata nel quadro semantico del termine greco phtorà, tradotto in latino corruptus in cui il termine indicava l’interesse individuale su quello comune.

Come sostiene Marchesi, Cicerone fu il primo autore a dare l’interpretazione del termine di corruzione come comportamento egoistico. In seguito la patristica, in modo particolare Agostino da Ippona, prese a modello da Cicerone il termine corruptus, interpretato come effetto del peccato originale in cui l’unico modo per ottenere il riscatto dei peccati era il perseguimento del bene comune. Tommaso d’Aquino associò la colpa personale al decadimento di tipo politico tramite l’elaborazione del pensiero aristotelico, che di fatto produsse una nuova concezione semantica del termine della virtus. Un altro autore medievale Giovanni di Salisbury, in addendum alla concezione di corruzione di Tommaso d’Aquino, sosteneva che il comportamento individuale del peccato di avarizia causava il deperimento dello sviluppo economico. In età rinascimentale la corruzione venne interpretata secondo un paradigma esclusivamente politico, corrispondente alla somma dell’interpretazione classica e cristiana:

non c’è accordo se in questo panorama prevalga quello che è stata definita una politica della virtù, ossia una tendenza prossima alla scolastica per cui il buon governo non corrotto deriverebbe dalla buona educazione umanistica delle élites, al netto dell’assetto costituzionale adottato, o se invece non emerga una reintroduzione dei valori greci e romani […]. O se, annovera, non venga alla luce con lo sviluppo economico, culturale e politico, una nozione di corruzione collegata all’avarizia e alla volontà individuale di accrescimento della ricchezza, come tale in grado di comprendere la prosperità attraverso la diffusione del grado civile nei pubblici uffici (p. 32).

L’Autore, nella sua esposizione, inserisce anche l’interpretazione che diede Petrarca nello studio del classici latini, giudicati imprescindibili per svolgere l’attività politica. Anche umanisti del calibro di Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini sostenevano che lo studio delle humanae litterae doveva servire a modello per costituire un governo di tipo repubblicano, che doveva essere fondato sul principio fondamentale della libertà. Governo repubblicano che avrebbe automaticamente annullato, sin dal suo principio, il fenomeno della corruzione.

Marchesi, con mirabile ricerca erudita, alla categoria “corruzione” associa anche le opere di due umanisti veneziani, Aurelio Lippo Brandolini e Gasparo Contarini. I due intellettuali nelle loro opere misero in evidenza il carattere sistemico della corruzione all’interno della Repubblica di Venezia. Corruzione che aveva la sua genesi dalla lotta tra le famiglie aristocratiche per l’assegnazione delle cariche pubbliche.

Solamente con Niccolò Machiavelli si avrà un superamento di questa categoria concettuale di corruzione: «l’opera di Niccolò Machiavelli rappresenta una sorta di rottura: la sua nozione di ritorno ai principi deriva da un concetto di corruzione che rinnova l’interpretazione sistemica» (p. 33). Il testo chiave del quondam fiorentino, come giustamente sottolineato da Marchesi, è il libro III dei Discorsi sulla prima decade di Tito Livio. In modo particolare, nel libro III viene data un’interpretazione sulla ciclicità della storia e «una visione naturalistica della corruzione dei governi» (p. 34). Per Machiavelli il conflitto, all’interno della polis, era positivo a patto che fosse ben strutturato tramite la creazione di una figura istituzionale di garanzia, che poteva essere benissimo rappresentata dal principe o dal capitano del popolo. Il rapporto dialettico tra il popolo e il principe/capitano del popolo, poteva essere vincente per il bene comune. Questo, a detta di Machiavelli, si verificava quando vi era una dialettica sana e costruttiva. Di contro, se l’attività del principe/capitano del popolo non era accompagnata dal consenso del popolo causava la corruzione all’interno delle strutture portanti dello Stato, ed al successivo assoggettamento da parte delle famiglie oligarchiche.

Il ritorno ai princìpi lo si ritrova nelle opere di Spinoza, in modo particolare nel Trattato Politico, in cui la corruzione del corpo politico era interpretata secondo la filosofia razionalistica di matrice cartesiana, ma che risentì anche delle scoperta della circolazione sanguigna di Harvey e degli studi, in ambito medico, di Bartholin e Stenone. Circolazione sanguigna e scienza medica che servirono a Spinoza per elaborare il fondamento dell’equilibrio inteso come punto focale nel campo politico, che aveva la funzione  per creare  stabilità all’interno del corpo politico.

Anche il libro VIII dell’Esprit des Lois di Montesquieu è incentrato sulla nozione di corruzione. Questa non venne più interpretata come fattore rigenerante di un corpo politico, bensì per descrivere il comportamento individuale, «interni al potere pubblico e ai suoi abusi» (p. 102). Il concetto di corruzione venne ripreso da Montesquieu anche in un’altra sua opera importante, le Lettere persiane. Interpretata come una continua alterazione di un tipo di ordinamento politico in un altro. Proprio quest’ultima opera, secondo Marchesi, sarà determinante per autori del calibro di Gibbon e Ferguson in cui, nei loro rispettivi studi, misero in stretta correlazione storia, decadenza e corruzione.

In piena Rivoluzione francese i Giacobini ripresero il concetto di “ritorno al principio” (p. 156) come elemento imprescindibile per rifondare una nuova società. Saint-Just, l’ultimo pensatore politico passato in rassegna da Marchesi, massimo esponente insieme a Robespierre del club dei Giacobini, fu il teorizzatore del ritorno ai princìpi della classicità come rifondazione di una nuova società. In due opere (l’Organt, poema scritto in venti canti tra il 1788 e il 1789 e il De la natura, de l’état civil, de la cité ou les règles de l’indépendance du gouvernement, quest’ultima rimasta incompiuta) Saint-Just sosteneva che la natura, nella sua ciclicità, era un paradigma su come bisognava giudicare il presente e poi ricostruire, ex novo, una nuova forma di convivenza tra gli esseri umani. Saint-Just sosteneva la tesi, secondo cui fin dalla sua genesi la vita comunitaria era fondata secondo un principio di eguaglianza e successivamente, con la creazione delle istituzioni, si entrava nella fase dell’età politica, etat politique, caratterizzata dalla creazione della gerarchia, dall’ordine, «pensata secondo il modello del contratto tra individui» (p. 158). Il passaggio dall’etat social all’etat politique implicava l’inesorabile cancellazione dell’eguaglianza a scapito dell’ordine gerarchico. In questa seconda fase il governo politico assumeva le sembianze di un organismo autonomo, autoreferenziale e non un istituto di rappresentanza della polis.

Per trovare un rimedio a ciò, era necessario l’utilizzo della politica del terrore, che nella sua fattispecie serviva a costruire la Repubblica. Non di secondaria importanza era la considerazione che Saint-Just aveva del ruolo del sovrano. Quest’ultimo, in qualità di esponente verticistico, veniva interpretato come un nemico “esterno proiettato verso l’interno” (p. 161). Lo stesso atto del cesaricidio, nei confronti del deposto sovrano francese Luigi XVI, andava attuato secondo una modalità di ritorno ai princìpi. Il 13 novembre del 1792 Saint Just tenne il famoso discorso davanti alla Convenzione, in cui veniva dibattuto se sottoporre a processo Luigi XIV oppure condannarlo direttamente a morte. Quest’ultima tesi era sostenuta proprio dai Giacobini. Per Saint-Just l’omicido politico era un atto di rottura imprescindibile per instaurare la Repubblica in cui il sovrano doveva essere giudicato come un nemico straniero e non come il rappresentante del popolo francese.

In conclusione, si può desumere che secondo Marchesi il ritorno ai princìpi è una filosofia della storia direttamente connessa a quella del corpo politico, anche se contrassegnato dalla perenne conflittualità tra i suoi elementi costitutivi.

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