Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Laureato in Lettere e Storia. Redattore presso Dissipatio.it. Ha scritto per«L'Intellettuale dissidente» e«Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».

Nel 1968 Paolo Prodi tenne un corso monografico sullo sviluppo dell’assolutismo nello Stato pontificio presso la facoltà di Magistero di Bologna, che si concluse con un percorso monografico dieci anni dopo con la pubblicazione del volume, The papal monarchy in the early Modern Age: Two Souls and one Body, per Colloquium Paper, volume presentato il 28 giugno del 1979 presso il W. Wilson Center a Washington DC. Il saggio venne poi pubblicato  in Italia nel 1982 per il Mulino con il titolo Il Sovrano Pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna.

Prodi utilizzò fonti narrative che per la maggior parte furono sintesi storiografiche, come la monografia di John Neville Figgis, Political thought from Gerson to Grotius 1414-1625  e di Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, oltre alla Storia dei papi di Leopold Von Ranke. Le domande che si pose Prodi per determinare le sue tesi, in merito alla formazione dello Stato della Chiesa nel XV secolo, ruotavano intorno al nesso  che legava la trasformazione da dominio spirituale universale in principato ecclesiastico temporale. Potere spirituale che però è stato un mezzo fondamentale per la costruzione stessa dello Stato pontificio. Proprio sulla scia della tesi di Kantorowicz, Prodi ha teorizzato che lo Stato della Chiesa, nel periodo post-conciliare, sia stato «il prototipo dello Stato moderno». Archetipo dello Stato moderno che avvenne, per l’appunto,  grazie alla doppia funzione del pontefice di guida spirituale e di sovrano territoriale. Tesi questa sostenuta anche seguendo l’evoluzione della costruzione delle strutture amministrative e giudiziarie all’interno dello Stato della Chiesa, dove la stato della Chiesa «ha indotto nell’Occidente la prima gerarchia dei tribunali con leggi positive scritte e procedure uniformi; ha per prima razionalizzato il sistema di imposizione e riscossione delle tasse e iniziato la pratica di anticipare le entrate con la vendita degli uffici, ha avuto il primo ministero degli esteri, il primo corpo diplomatico, il primo esercito mercenario stabile».

State-building papale che si palesò tramite l’azione politica di papa Eugenio IV (Eugenio Condulmer, 1431-1447),  che grazie alla politica dei concordati tra papato e Stati europei, aveva contribuito ad estendere gli affari del papa sugli affari ecclesiastici interni degli  Stati sovrani europei. Il precedente pontefice, Martino V (Oddone Colonna, 1417-1431), aveva perseguito l’obiettivo di arginare solamente le spinte autonomiste, conciliariste e separatiste dell’est Europa e degli Stati tedeschi. Concordati, che dal punto di vista della curia romana, comportò delle rinunce gravose in ambito fiscale, soprattutto in materia di diritti fiscali delle entrate della sede apostolica, che per la maggior parte delle volte vennero lasciate sotto la tutela delle autorità curiali locali.

Esempi di concordati, che per lo sviluppo della Chiesa sono stati fondamentali, possono essere considerati quelli con l’Impero, in modo particolare quello del 1443, stipulato con Federico III d’Asburgo il quale si dichiarò favorevole al papa di Roma. Accordo che si concluse grazie al lavoro diplomatico di Enea Silvio Piccolomini, futuro Pio II. Nel 1447 Eugenio IV regolò i prìncipi territoriali tedeschi che vennero riportati alla soggezione della Chiesa di Roma. In cambio questi ricevettero un ampio condono per la massimizzazione di beni e delle cariche ecclesiastiche. Nel 1448, Niccolò V (1447-1455) stipulò un altro concordato diretto con l’imperatore, stipula che avvenne a Vienna nel febbraio del 1448 in cui il papa concedeva all’imperatore il diritto di nominare i vescovi all’interno dei suoi domini. Tale trattato rimase in vigore fino al 1806. Con il regno di Francia venne attuata una tattica diversa: il primo dei concordati venne stipulato nel 1436, quando il sovrano francese Carlo VII prese le distanze definitivamente dal movimento conciliare di Basilea. Dopo molti alti e bassi, il concordato definitivo tra Stato della Chiesa e regno di Francia venne suggellato nel 1516 a Bologna tra Leone X e Francesco I. In chiave strategica per lo Stato della Chiesa il concordato aveva l’obiettivo di far assorbire le materie ecclesiologiche nella giurisdizione dell’autorità civile dei diversi Stati, quest’ultimi in cambio ottenevano dal papa degli atti di autodeterminazione sui loro diritti sovrani. Ma, sottolinea Prodi, solamente con il papato di Niccolò V (Tommaso Parentucelli, 1447-1455) si avrà un delineamento di quello che sarà lo sviluppo del sovrano-monarca all’interno di uno Stato ben definito, tramite l’attuazione di diverse politiche che si possono riassumere secondo i seguenti punti: consolidamento interno dello Stato; intervento nelle questioni interne degli affari degli Stati nella penisola italiana, che si manifestò tramite la stipula della Lega italica; sviluppo della figura del nunzio apostolico, in qualità di ambasciatore della Stato della Chiesa presso le corti europee e italiane. Scrive Prodi che il papa «si presenta ormai più come uno dei membri del sistema politico italiano ed europeo che un’autorità al dì sopra degli Stati, utilizzando tutti gli strumenti offerti dalle nuove tecniche politiche, dalle diplomazie allo sviluppo della burocrazia amministrativa e fiscale».

La caratteristica dello Stato della Chiesa era che fondava la sua sovranità grazie alla concentrazione del potere spirituale e temporale del pontefice-sovrano. Per corroborare tale tesi, Prodi cita il capitolo XLII del Leviatano di Hobbes in cui veniva riportato che era una caratteristica del potere del principe in età moderna di assommare poteri ideologici e giuridici. Lo stesso Hobbes però sostenne nel capitolo XLVII che il papato, nel suo potere spirituale, oramai diventato anacronistico e veniva paragonato al fantasma vivente dell’impero romano, che aveva la pretesa di porsi a potenza spirituale rispetto a quello civile: «Ciò rappresenta uno squarcio che si potrebbe quasi dire profetico verso una nuova epoca di cui a i giorni nostri cogliamo solo alcuni contraddittori e scombussolati segnali».

Secondo Prodi, uno dei fattori di modernità ante litteram dello Stato nella Chiesa consisteva anche nello sviluppo dell’esercito. Papato che fu il primo ad avere un’armata permanente che ruotava intorno agli 8.000/10.000 uomini. Questa riforma avvenne subito dopo il trattato di Lodi in cui il sistema della condotta venne superato dal sistema dell’esercito permanente. Tutto questo si confaceva anche all’assegnazione della figura di comandante in capo dell’esercito al nipote del pontefice, consuetudine che ebbe inizio con Callisto III (1455-1458). Organizzazione militare che paleserà successivamente la sua debolezza nel sacco di Roma del 1527, dove il primo fattore di tale inferiorità fu un degrado di carattere politico più che militare. In quel frangente lo Stato della Chiesa fu incapace di inquadrare le contingenze politico-militare in una «logica nazionale» al contrario degli altri Stati europei.

Da tale argomentazione emergono in modo chiaro le fonti  a cui Prodi ha attinto per dedurre le sue tesi. Queste sono le edizioni a stampa di Piero Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana e un altro testo classico dello storico francese Michael Mallett, Signori e mercenari. La guerra nell’Italia del rinascimento. Collegate a  queste tesi Prodi svilupperà anche le sue deduzioni personali, dove sosteneva che l’esercito papalino ha avuto un suo vulnus nel non saper  integrare la piccola nobiltà e la classe borghese all’interno delle cariche militari come quelle di capitano generale e gonfaloniere, facendo così scaturire un meccanismo in cui tali cariche furono ad esclusivo appannaggio delle famiglie aristocratiche che le utilizzavano solamente a scopo carrierista all’interno della corte papale

La fine della spinta propulsiva ad archetipo dello Stato moderno, vedrà il suo avvio a seguito del processo riformistico. In modo particolare, scrive lo storico, questo si verificò quando emerse il problema nella ricerca delle immunità clericali all’interno degli altri Stati rimasti in seno alla chiesa di Roma. Proprio quel neo-universalismo andava in contraddizione con i presupposti della sovranità territoriale dello Stato pontificio, rendendolo di fatto anacronistico nei confronti nei moderni Stati europei e dei suoi nuovi aspetti istituzionali. Gli assunti di Prodi, esposti nel saggio, hanno avuto un ampio eco nella definizione che ha dato Marco Pellegrini nel saggio, Il papato nel Rinascimento, in merito allo sviluppo istituzionale che ha avuto il papato nel XV secolo, utilizzando il  sintagma di «pontefice monarca». Tale terminologia viene desunta per teorizzare la monarchia assolutista del papato e che «rappresenta la trasposizione in ambito ecclesiologico di un termine desunto dalla politologo cristiana». Anche la storica Alice Blythe Raviola, in un testo di sintesi, L’Europa dei piccoli Stati. Dalla prima età moderna al declino dell’Antico Regime, nel dare una definizione in sette punti delle caratteristiche che doveva possedere uno Stato interregionale italiano nel XVI secolo per definirsi tale, si richiama all’opera di Prodi. I punti in questione esposti dalla Raviola sono i seguenti: lo Stato preunitario italiano doveva avere una dimensione territoriale sovraregionale, essere strutturato al suo interno con un potere centrale che avesse avuto la facoltà di saper intessere rapporti con gli altri poteri interni allo Stato; possedere un apparato burocratico stabile in grado di far funzionare lo Stato; avere dei ceti organizzati secondo un’organizzazione gerarchica ad appannaggio dell’aristocrazia e del clero; l’apparato centrale statuale doveva stabilire dei rapporti regolari con gli organi periferici che erano le famiglie feudali e le città sottoposte al dominio di quella dominante; inoltre era imprescindibile l’esistenza di una corte principesca.

Per quanto concerne la politica internazionale dello Stato della Chiesa, anche Anna Maria Visceglia, nei suoi studi sulla politica internazionale del papato in età moderna, come ha esposto nel saggio che raccoglie i suoi numerosi articoli sulla materia,  La Roma dei papi. La corte e la politica internazionale (secoli XV-XVII), in cui sostiene che Il sovrano Pontefice di Prodi tratta alcuni punti che ancora oggi sono fondamentali e che sono dirimenti anche se si vuole seguire l’approccio metodologico della global history. Proprio dagli assunti di Prodi, la storica sviluppa la sua tesi mettendo in stretto legame la costruzione dello stato territoriale e l’ideologia di carattere monarchia-autoritaria, che si concretizzò nel XV secolo fino alla fine dell’Ottocento in cui il fermento di carattere politico dei papati post conciliaristi si aggiunse l’attività intellettuale di giuristi e religiosi spagnoli, come Juan de Torquemada, stretto consigliere di Eugenio IV, autore della Summa de Ecclesia del 1453 oppure il castigliano Rodrigo Sanchez de Arevàlo, redattore del trattato De Monarchia Orbis (1467).

A questo fermento di carattere politico e religioso, il binomio Spagna-Stato della Chiesa andava considerato nella costruzione contemporanea dei due Stati. Il regno di Spagna si  costruiva tramite la conclusione di una guerra civile e poi da una successiva guerra di conquista contro gli arabi. Per quanto riguarda lo Stato della Chiesa, l’effettiva preminenza  del potere del papa sull’elemento conciliarista avvenne grazie all’utilizzo di elementi messianici e centralizzanti dello Stato. Subito dopo l’uscita del saggio di Prodi, vi furono anche delle aspre critiche. In modo particolare fu quella di Alberto Caracciolo che confuta la tesi di Prodi sulla genesi dello Stato moderno derivante da quello della chiesa. Caracciolo sosteneva che per argomentare ciò Prodi avesse utilizzato «un circoscritto ventaglio di temi politico-istituzionali dove resta poca attenzione ad altri fenomeni» e che di fatto le strutture degli Stati moderni europei non avevano mai avuto una corrispondenza con lo Stato della Chiesa. Questi fattori erano deducibili dalla mancanza di unità nazionale di tipo culturale; economico, dovuto da un non sviluppo commerciale di tipo marittimo.

A conclusione di questo breve contributo, si può solo affermare che rimane fondamentale lo studio del Sovrano Pontefice sia per gli specialisti, che per chiunque voglia approcciarsi alla storia dell’età rinascimentale degli Stati preunitari italiani.

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