Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
R. Scruton, Del buon uso del pessimismo (e il pericolo delle false speranze)
Lindau, Torino 2011, pp. 230, €23,00.
Conservatore eclettico, irriverente e anticonformista, l’inglese Roger Scruton (scomparso nel gennaio di quest’anno) è autore di decine di libri spesso divisivi ma sempre stimolanti, anche per coloro che avversano le tesi e l’impostazione di fondo di questo filosofo-scrittore. Tale, tra gli altri, è il saggio Del buon uso del pessimismo, pubblicato nel 2011 ma ancora attualissimo proprio perché pensato come inattuale. Non un testo di filosofia e neppure di morale bensì di critica politica (condotta con garbata verve polemica), giacché il pessimismo di cui Scruton tratta ha poco a che vedere con la filosofia esistenziale-pessimistica di Schopenhauer o di Leopardi e molto, invece, col pessimismo pratico («pacato») dei politici conservatori, soprattutto di ambito anglosassone.
Il pessimismo di Scruton potrebbe più efficacemente tradursi, nel contesto italiano, con “realismo” e sobrietà contrapposto non tanto all’ottimismo in sé quanto all’idea progressista nella sua triplice articolazione di riformismo socialista, marxismo rivoluzionario, illuminismo utopista. È il realismo dei saggi, di coloro che, radicati nella storia, nel territorio, nelle comunità, nelle tradizioni, riconoscono serenamente «limiti e vincoli, confini che non possiamo oltrepassare» (p. 22). Nel mondo d’oggi si avverte un terribile bisogno di questo sobrio pessimismo, di questa “benedizione della finitezza” quale antidoto all’ineliminabile ottimismo prometeico dei costruttori di futuro, dei pianificatori, rivoluzionari e utopisti d’ogni risma. Se la fede ultraterrena senza la speranza è un non-senso, la speranza senza la fede e senza l’ancoramento al reale è foriera di terribili errori, illusioni e tragedie, come la storia degli ultimi secoli ha ampiamente dimostrato.
Il volume si articola in dodici capitoli e oscilla tra specificazioni pratiche del pessimismo (il suo “buon uso”, come recita il titolo; il suo corretto dosaggio) e le argomentate denunce dei disastri cui un ottimismo senza legami, antidoti e contrappesi ha condotto e ancora potrebbe condurre l’umanità. A tale riguardo Scruton parla di “fallacie”: errori, dalle conseguenze sempre negative e a volte tragiche, concepiti dottrinalmente e attuati da uomini completamente dominati dalla prospettiva ottimistica. Egli ne individua sette: la fallacia della migliore delle ipotesi (ossia l’impostazione delle proprie deliberazioni escludendo a priori, ottimisticamente, l’avverarsi di condizioni avverse); la fallacia del nascere liberi (attacco diretto, ma condotto con accattivante levità, all’antropologia illuminista di ieri e di oggi); la fallacia utopica (con interessanti riflessioni sulla particolare forma mentis di chi accetta le assurdità utopistiche); la fallacia della somma zero (il socialismo classista secondo cui all’arricchimento degli uni deve necessariamente corrispondere l’impoverimento degli altri, col conseguente ottimistico, ma fallace, rimedio dell’egualitarismo imposto per legge); la fallacia della pianificazione; la fallacia dello spirito del tempo (dove l’imputato è lo Zeitgeist di Hegel – un pensatore peraltro apprezzato da Scruton – e l’uso che storicamente ne ha fatto la sinistra hegeliana); la fallacia dell’aggregazione (l’ottimistica combinazione di libertà e uguaglianza proposta dal pensiero liberal nordamericano).
La trattazione proposta da Scruton di ciascuna fallacia è agile e penetrante e merita una lettura diretta. Qui spendiamo qualche parola in più su una di esse, la fallacia della pianificazione (cap. 6), per i suoi appigli di forte attualità. Scruton prende di petto la persistente ambizione dei “geometri da tavolino” di orientare le condotte economiche degli uomini fissandone in anticipo i risultati. Non sono stati sufficienti secoli di smentite storiche per togliere charme all’illusione della pianificazione economica, produttiva e degli scambi. I fallimenti dei prezzi calmierati – dalle esperienze dell’antichità alle economie sociali di mercato, passando per il maximum di Robespierre e i piani quinquennali dell’URSS – ci ricordano quanto sia illusoria e artificiosa l’imposizione dall’alto del controvalore di merci e servizi. Il prezzo, lasciato alla spontanea combinazione della domanda con l’offerta, fornisce indici veritieri, ancorati alla realtà, della scarsità o abbondanza delle risorse; quando i dottrinari ottimisti dell’economia pianificata convincono i reggitori della res publica a introdurre i quantitativi di produzione e il relativo controvalore, viene calpestata scientemente la libera attività di innumerevoli operatori economici. Ne risulta un modo a un tempo più povero e più asservito. E tuttavia Scruton, proprio perché sobrio pessimista, si tiene alla larga dall’ottimismo opposto dei fautori dell’illimitata e astratta libertà dell’homo oeconomicus. Egli sa fin troppo bene che la teoria della invisible hand – che pure apprezza – non esaurisce il pensiero di Adam Smith perché il grande illuminista scozzese la integra col valore morale della libertà. La libertà, soprattutto la libertà economica, è essa stessa morale e trova limiti, liberi e spontanei, appunto nella morale consensuale della comunità, incarnata nelle mentalità, nel decoro, nelle consuetudini e tradizioni sedimentate nel “noi” comunitario. Il mercato ben regolato dal sobrio pessimismo non ha nulla a che fare col capitalismo aggressivo, amorale, iperindividualistico dei “pescicani” perché quel mercato presuppone una società moralmente sana, impregnata di valori tradizionali condivisi. Dal XVIII secolo in avanti il conservatorismo britannico, a differenza del liberalismo progressista (o liberalismo degli ottimisti) dà peso sostanziale alla cautela pessimista frutto dell’esperienza e della storia. Esso difende sì il libero mercato dalle follie dei pianificatori ma al contempo non ripudia la visione tradizionale dell’ordine sociale e sa che il miglior limite al mercato è quello spontaneo posto dal «consenso morale della società». Un consenso che però «forse oggi sta venendo meno» (p. 130) proprio a causa delle incessanti, artificiose e perniciose politiche pianificatrici degli Stati e degli economisti liberal.
Un esempio illuminante di pianificazione fallace è dato dall’Unione Europea e dai suoi meccanismi di funzionamento. Qui si coglie tutto l’euroscetticismo dell’Autore, difficilmente confutabile nei particolari descrittivi. Secondo Scruton l’UE del Trattato di Maastricht ha ribaltato il principio di sussidiarietà (di origini cattoliche e ripreso da importanti autori come il Röpke) capace di porre «un freno decisivo al potere centralizzatore consentendone il coinvolgimento solo su richiesta» (p. 109). Con la sussidiarietà le competenze di governo più elevate intervengono solo quando i livelli più bassi, di prossimità al territorio, non sono in grado di agire efficacemente e richiedono essi stessi l’intervento dall’alto. Invece l’Unione di Maastricht ribalta il concetto ed è essa stessa «a decidere dove iniziano e dove finiscono i poteri di sussidiarietà» (p. 110). In tal modo le istituzioni comunitarie (e coloro che tali istituzioni controllano) sono libere di pianificare, con crescente intensità dal 1992, una Unione “sempre più stretta” e in nome di questo obiettivo (continuamente proiettato nel futuro) impongono un profluvio di leggi e regolamenti sui settori più disparati. Sorretti da una logica autoreferenziale e mai chiamati a rispondere del proprio operato, comitati ristretti (il Consiglio e soprattutto la Commissione) adottano decisioni di massima, tradotte in leggi e regolamenti (circa quarantamila atti per oltre duecentomila pagine di legislazione) da una pletora ben remunerata di burocrati altrettanto autoreferenziali («il loro compito è di regolamentare; ma semmai si decidesse che non c’è più bisogno di regolamentazione, non ci sarebbe più bisogno nemmeno di loro», p. 118). La macchina, posta in moto dai pianificatori, continua a funzionare per proprio conto in nome del progetto (l’unione “sempre più stretta”) e a prescindere dalle reali esigenze dei territori e delle popolazioni del Continente e con l’aggravante che la legislazione comunitaria è irreversibile (nel senso che la si potrebbe annullare e rinnegare solo denunciando i trattati internazionali: impresa difficile ma non impossibile, come dimostra la recentissima storia del Regno Unito).
Alcune delle conclusioni cui perviene Scruton possono stupire. Ci si aspetterebbe da un conservatore una reiterata insistenza sull’artificiosità delle fallacie ottimistiche contrapposta alla “naturalezza” e regolarità, ancorché imperfette, delle società storicamente date. Invece Scruton individua nella psicologia dell’uomo tribale dello stato di natura, nel cacciatore-raccoglitore del Pleistocene («la mia descrizione della comunità primitiva è congetturale ma credo sia veritiera», p. 201) tutte le fallacie dell’ottimismo, a un livello certamente ancora primordiale ma nella loro essenza già complete. Ed ecco che le follie dell’ottimismo contemporaneo assumono il contorno di residui di mentalità ataviche, dalle quali gli uomini si sono liberati soltanto parzialmente e precariamente e rischiano di ricadervi di continuo. E fu la civiltà degli insediamenti stanziali, con le sue leggi, consuetudini, accordi quotidiani taciti e espliciti, compromessi e mezze misure, a realizzare storicamente una «nuova forma di ragionevolezza» sociale e di libertà, prosaica e imperfetta quanto si vuole, ma vera.