Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.
Recensione a
P. Eltsov, The Long Telegram 2.0. A Neo-Kennanite Approach to Russia
Lexington Books, Lanham 2019, pp. 198 (ed. Kindle: € 25,44).
Nel febbraio del 1946, George Kennan, incaricato d’affari americano a Mosca, inviò a Washington il celebre Long Telegram in cui spiegava la Russia sovietica e proponeva indicazioni su come agire con essa. Peter Eltsov, professore alla National Defense University di Washington, ritiene che, alla luce del risorgente imperialismo russo, sia oggi necessario un lavoro simile, al quale il libro intende contribuire: una nuova approfondita comprensione della Russia e come l’Occidente dovrebbe procedere con Putin e i suoi successori.
Eltsov dichiara sin dalla prefazione la sua tesi:
La Russia è condannata all’autocrazia, poiché soltanto un dittatore nazionalista può risolvere la profonda mancanza di un’identità unificata che ha sempre afflitto questo vasto impero euroasiatico. […] Tuttavia, un tale sistema politico contiene i germi della propria disgregazione. Gli impulsi separatisti al suo interno sono troppo forti, prima o poi giungerà al potere un leader incapace di conservare l’impero.
Verso la Russia occorre una politica «neo-kennanite», cioè una versione aggiornata del containment suggerito da Kennan, che ha guidato la politica Usa in tutta la guerra fredda: una paziente strategia di attesa, non passiva, ma neanche “isterica”, pronta a reagire, con un’ampia gamma di misure senza scontro diretto, per tenere nei limiti l’avversario, lasciando maturare le sue debolezze e contraddizioni interne sino al crollo finale.
La Guerra Fredda – scrive Eltsov – non è stata vinta grazie alle sanzioni, ma perché i Russi stessi, inclusi alcuni individui ai più alti livelli del governo sovietico, persero la fede nell’ideologia comunista e volsero le loro aspirazioni verso l’Occidente.
In sostanza, una vittoria “culturale”, di sistema, da cercare anche oggi con la conquista dell’opinione pubblica russa o di una sua parte significativa: «Alla fine, a un certo punto, il nuovo-vecchio Impero Russo cesserà di esistere».
Tuttavia, Eltsov raccomanda un self-containment anche agli Usa, consigliati a misurare l’impopolare «interventismo umanitario» post-Guerra Fredda e risolvere i propri problemi interni per offrire agli occhi del mondo la stabilità e l’efficienza del proprio sistema e la saldezza delle proprie alleanze. La velleità di imporre la democrazia è controproducente, nel caso della Russia ogni pressione esterna finisce per rafforzare l’autocrazia.
Eltsov dichiara di non essere un essenzialista, consapevole che popoli, nazioni, stati, sono costruzioni storiche e non determinati da essenze ultime e caratteri perenni. Tuttavia, il fatto che ideologie, credenze e culture siano costruite socialmente non rende meno chiari strutture e modelli interpretativi, «in particolare quando esse vengono usate come motivi per andare in guerra». Non ne esce l’ennesimo libro su Putin, ma sulla Russia in una prospettiva storica e culturale, che sfugge alla disputa tra coloro che personalizzano l’attuale confronto Russia-Usa sulla leadership di Putin e coloro che lo attribuiscono all’espansione della Nato a Est e alle interferenze Usa nelle repubbliche ex sovietiche, come l’Ucraina. Il libro evita questa schematizzazione: Putin non ha creato la Russia odierna, bensì reinterpreta le sue attitudini storiche, mentre l’insicurezza russa deriva dalla struttura secolare di quel paese.
L’attenzione ai fattori culturali consente a Eltsov di leggere la Russia con la formula del conte Uvarov, ministro dello zar Nicola I, risalente al 1833: autocrazia, fede ortodossa, nazionalità. Se autocrazia, incarnata nella persona dello zar, e cristianità ortodossa, incarnata in una Chiesa parte integrante dello Stato, non hanno bisogno di spiegazioni, nazionalità richiede una precisazione. In russo narodnost’ (nazionalità) ha la stessa radice di narod (popolo): “nazionalità” è intesa come spirito di un popolo, insieme condiviso di lingua, valori, tradizioni, storia. Per Uvarov, lo spirito della nazionalità russa era il fondamento dell’impero e la russificazione delle altre nazionalità ed etnie l’unica garanzia della sua coesione.
L’unità di Stato, Chiesa, nazione-popolo, realizza una concezione organicista alternativa all’individualismo liberale occidentale. La triade di Uvarov si contrapponeva a quella della Rivoluzione francese (liberté, egalité, fraternité). Essa attraversa la storia russa, non esclusa l’esperienza sovietica, quando la religione ortodossa fu sostituita dal marxismo-leninismo, lo zar dal segretario del partito e la russificazione ripresa nel nuovo impero sovietico. Oggi torna con un presidente-autocrate, una Chiesa il cui prestigio sostiene lo Stato e con la nuova ideologia del “Mondo Russo”.
Eltsov aggiunge ai tre principi di Uvarov altre cinque caratteristiche di lungo corso. Eccezionalismo: la rivendicazione di un destino speciale e un ruolo messianico di salvezza del mondo assegnato alla Russia, dal mito della Terza Roma, alla slavofilia, al socialismo, all’attuale eurasianism (eurasiatismo). Espansionismo: la ricerca di un impero la cui profondità territoriale garantisca la sicurezza, i cui confini sono pericolosamente indefiniti e che oggi punta a disunire Ue e Nato, ridurre nel mondo l’influenza Usa e sostenere regimi autoritari in funzione antiliberale e antiglobalista. Primordialismo storico: la convinzione di caratteristiche originarie proprie e non derivate dell’identità russa, sintesi originale di tradizioni antiche, dall’impero Scita all’impero bizantino e alla Russia di Kiev. Culto del militare: il mito di una Russia guerriera che ha salvato l’intera umanità dai Mongoli, da Napoleone, dal nazismo, vittorie che hanno scritto il libro della storia militare russa. Glorificazione della sofferenza: fatalismo e capacità di sacrificio hanno consentito al popolo russo di superare tornanti di sofferenza (e spiegano la sua remissiva accettazione del sistema autocratico).
Eltsov rintraccia i precedenti di questi motivi e le loro riemersioni nella storia russa, dal sostenitore di zarismo e imperialismo, lo scrittore Dostoevskij, a filosofi come il teorico dell’assolutismo zarista-ortodosso Kostantin Leontiev e il nazionalista antibolscevico Ivan Ilyin, all’«eccezionalista russo» Solgenitsin, a intellettuali contemporanei, come Alexsandr Dugin e il regista Nikita Mikhalkov. Il filo dell’identità russa tesse la narrazione pubblica del regime, rintracciata in programmi della tv di Stato, discorsi ufficiali di Putin, viatici della Chiesa, discorsi alla Duma. Il filo lega anche una società tradizionalista e conservatrice nella morale e nella politica, intrisa di un nazionalismo che garantisce un ampio consenso al regime putiniano. Le indagini demoscopiche del Levada Center confermano che i fattori culturali elencati non appartengono solo alle élites ma anche al popolo. Su di essi poggia il tentativo putiniano di compattare l’identità del “Mondo Russo”.
La Federazione Russa è un conglomerato di etnie organizzato in 22 repubbliche autonome e altre unità amministrative con diversificato grado di autonomia. Altre etnie prive di autonomia amministrativa conservano identità linguistiche, storiche e religiose resistenti alla russificazione cui sono state sottoposte nei secoli. Non resta che rimandare al capitolo 8 del libro (Mother Russia, Noah’s Ark) per un’ampia rassegna di questa realtà: la polveriera del Caucaso settentrionale, diviso in dieci repubbliche, popolate da differenti etnie, alcune con intersezioni generatrici di conflitti (Cecenia, Ossezia, Dagestan, Abkhazia, Inguscezia), mentre altre reclamano un’autonomia non ancora riconosciuta, come Avari e Lesgini; l’Asia centrale e la Russia del Nord, «il cuore della terra russa», diviso in nove repubbliche, dove persistono nazionalismi organizzati, specie nel Tatarstan e nel Bashkortostan, colpiti dalla repressione dell’Fsb che non ha impedito la diffusione di idee panturche; la Siberia, le cui tendenze separatiste sono la minaccia maggiore all’integrità russa e hanno una storia antica (in appendice Eltsov pubblica una bozza di proclamazione di indipendenza della Siberia scoperta dalla polizia zarista nel 1865); altri fermenti separatisti hanno attraversato la regione degli Urali e quella cosacca del Kuban. La riforma di Putin che ha introdotto gli okrug federali, unità regionali comprendenti più unità autonome, guidati da un governatore nominato dallo stesso presidente russo, non ha sradicato le tendenze separatiste.
Secondo Eltsov, l’integrità territoriale della Russia può essere mantenuta solo con la forza dell’autocrazia: «Non appena lo zar rilascerà il pugno, il suo regno crollerà». Putin ne è ben conscio: ha definito questa realtà, ereditata dalla struttura federale sovietica, una «bomba a orologeria» sotto la Russia. Ma nonostante il suo sforzo di riaffermare l’identità russa sotto un nuovo «ombrello ideologico» che riprende la triade di Uvarov, l’attuale “nuovo-vecchio” impero russo, secondo Eltsov, è condannato.
In Russia, al crollo di un impero è sempre seguita la disgregazione. Dopo la caduta dello zarismo nel 1917, nelle turbolenze della guerra rivoluzionaria e civile si formarono diversi stati indipendenti, ricondotti poi dalla forza bolscevica in una nuova unità imperiale, quella sovietica. Alla dissoluzione di questa nel 1990-91 sono sorti nuovi stati indipendenti, soggetti oggi alle “attenzioni” del risorto imperialismo russo. La Russia è rimasto il paese «nevrotico e insicuro» descritto da Kennan, affetto dal timore dell’accerchiamento, cui reagisce con un imperialismo che non distingue tra offesa e difesa, ma non è forte come appare, ancor meno che nel ’46, e non ha veri alleati. India e Cina non rischieranno i propri legami politici ed economici con Usa ed Europa per un’alleanza forte e a lungo termine con la Russia: «Se un paese dovesse invadere la Russia, sarebbe la Cina. La Siberia e l’Estremo Oriente russo sono già diventati obiettivi dell’immigrazione cinese».
Conclude Eltsov: «L’attuale miglior politica degli Stati Uniti verso la Russia è una combinazione di pazienza strategica e realismo offensivo che riconosca la semplice verità: la Russia, per come è attualmente costituita, non diventerà una democrazia. A meno che e finché non si disintegri, manterrà la sua identità autocratica ed espansionista». Da qui la proposta di rivisitare e aggiornare l’approccio «sobrio e pragmatico» a suo tempo suggerito da Kennan verso l’Urss: contenere con determinazione la Russia, mantenendo tuttavia linee di comunicazione aperte e dirette con le sue élites, ma lasciarla alle prese con i problemi che segnano il suo destino.
Eltsov elenca cinque fattori di una prossima dissoluzione della Russia. L’indefinita modalità di successione al potere, che lo rende imprevedibile e instabile; la debolezza istituzionale, che concentra il potere su un uomo, oggi Putin, e accresce i rischi di una selezione inadeguata dei leader; l’assenza di un’ideologia che possa compattare la nazione-popolo, come furono lo zarismo e il marxismo-leninismo; la debolezza di economia, istruzione e scienza, che sono oggi in uno stato «catastroficamente povero»; infine, la più importante, «la già citata incapacità dello stato russo – zarista, sovietico o post-sovietico – di produrre un’identità nazionale che abbracci l’intera popolazione».
L’Autore ammette che questa prospettiva possa spaventare, poiché la dissoluzione di un grande Stato dotato di un ingente arsenale non convenzionale genera il rischio di una proliferazione nucleare tra gli stati successori, uno scenario da Armageddon. Se i nuovi stati post-russi replicassero le repubbliche etniche create dai bolscevichi sarebbe probabile uno scenario di feroci guerre etniche e nazionaliste per l’eredità dell’Impero russo. Tuttavia, «se la Russia si disintegrasse lungo confini regionali, o prevalentemente regionali piuttosto che etnici, il risultato potrebbe essere vantaggioso per tutti i soggetti coinvolti». Eltsov vede nella Siberia e nell’area storica di San Pietroburgo i due nuclei di questo secondo scenario. La Siberia, con le sue ricchezze naturali e ampiezza di territorio potrebbe assicurarsi uno sviluppo economico capace di ospitare l’esuberanza demografica di altri paesi e «cambiare l’intero sistema geopolitico ed economico del pianeta». La regione di San Pietroburgo sarebbe quella Russia europea che, svincolata dal «pantano» euroasiatico, potrebbe inserirsi nel blocco delle democrazie europee (Ue).
Credo tuttavia che la dissoluzione della Russia possa sortire anche altri esiti da tenere presenti, oltre all’opportunità di uno sviluppo democratico. Verrebbe meno una potenza capace di svolgere anch’essa un ruolo di containment potenzialmente funzionale agli interessi occidentali, verso la Cina, l’Iran, il mondo islamico. Inoltre, i nuovi stati post-russi sarebbero ancor più esposti all’esercizio egemonico di potenze maggiori, si pensi alla Cina. Peraltro, proprio la realpolitik del realismo offensivo richiamato da Eltsov rammenta che gli stati cercano comunque la sicurezza tramite la potenza egemonica.
In chiusura, l’Autore non nasconde la sua convinzione-auspicio:
Contrariamente a quanto il regime di Putin dice al popolo russo – che l’Occidente vuole dividere la Russia allo scopo di prendere il controllo delle sue risorse naturali e sfruttare il suo popolo – la disintegrazione del paese più grande del mondo potrebbe rilanciare la vita economica, culturale e politica di tutti i suoi cittadini.