Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Ancora nel 2022 manca un’edizione completa delle opere di Enrico Pea. Questa affermazione, presa così com’è, certo non suscita lo scandalo che dovrebbe, data la scarsa fama di cui questo autore gode dentro i circoli dei lettori di media cultura. Eppure Pea è uno dei più grandi scrittori del nostro Novecento, che ebbe ammiratori del calibro di Italo Svevo, Giacomo Puccini, Giuseppe Ungaretti – del quale era anche amico – Italo Calvino, Eugenio Montale e Mario Luzi. Ezra Pound, addirittura, vide nei suoi romanzi il miglior prodotto della letteratura italiana del suo tempo. Per poter indagare meglio questa anomalia editoriale, sarà bene svolgere una breve ricognizione sulla biografia e sulle maggiori opere di questo autore.

Tra suggestioni anarchiche e necessità di riscoperte religiose, la vita di Enrico Pea è tutt’altro che banale. Nato a Seravezza, in provincia di Lucca, nel 1881, in una famiglia di estrazione più che modesta, Enrico perde il padre a soli quattro anni. Per questo la sua infanzia rimane segnata dal suo rapporto con il nonno materno, Luigi, che si prese cura di lui e del resto della famiglia. Nonno Luigi è una figura d’impatto, che ha una forte influenza sulla vita dello scrittore. Questi aveva avuto un passato turbolento, segnato da una estrema gelosia per la moglie Cleofe e dall’internamento nel manicomio di Frigionaja, a seguito del suo tentativo di suicidio. I fatti sono narrati proprio in Moscardino, romanzo in cui la figura del nonno è al tempo stesso terribile e malinconica, mitologica e reale. Oltre a offrire al nipote una vita raminga, il nonno non manca di raccontargli storie tra l’allucinato e il drammatico, legate ai suoi anni in manicomio, stimolando così il gusto onirico e teatrale del giovane Enrico. Le favorite, sono quelle legate ai pazzi di gelosia, che il loro estremo fanatismo ha portato a far male a sé stessi o all’amata, come il caso di questo “giovanotto”, raccontato in Moscardino:

O scatti generosi, impazienti, di quel giovinetto biondo tutt’occhi e tutto nervatura d’acciaio, ingrovigliato nella camicia di forza presso al letto di mio nonno nei primi giorni: vicino al finestrone.
Lui la vedeva, si alzava di scatto per andarle incontro, ed era trattenuto dalle cinghie di cuoio.
La salutava con la mano: ed ella è sempre voltata dalla parte dei mirti, e non lo vede.
E non lo vede il suo amore incatenato, dall’altro, dal rivale, che vuole rubarla…
Ma non potrà, perché egli adesso ha scritto alla regina: e verrà col cocchio, li scudieri e le ancelle, a liberarlo…
Ma intanto lei è voltata dalla parte dei mirti, e non sa questo: Che verrà la regina ad appianare ogni cosa.
Si annotta, ed ella è sempre là, ferma, voltata dalla parte dei mirti.
Forse è incatenata e non ode, e non vede il suo amore che dietro la vetrata inferriata spasima e grida e ammicca: ma non può chiamarla per nome, perché il nome di lei è composto con lettere fuggite dall’alfabeto.

Fino ai 15 anni, dunque, Enrico fa una vita praticamente nomade insieme a suo nonno. Alla morte di questo, si trova a dover badare a sé stesso. In un primo momento è preso sotto l’ala protettrice di un prete di campagna, don Raffaele Galleni, che gli insegna i rudimenti della scrittura e cerca di avviarlo, senza successo, verso il sacerdozio. Molto giovane e in uno stato di semi-analfabetismo, Enrico Pea deve arrangiarsi lavorando qua e là, accettando lavori umili e pratici. Proprio questo peregrinare in cerca di lavoro lo porta ad Alessandria d’Egitto,come tanti italiani del tempo. La costruzione del canale di Suez, infatti, aveva fatto rifiorire commercialmente la città egiziana, che era tornata ad essere, dopo millenni, un centro molto importante. Il periodo ad Alessandria è fondamentale per Pea; ne lascia calde testimonianze nel testo autobiografico Vita in Egitto. È proprio qui, infatti, che incontra e stringe amicizia con Giuseppe Ungaretti, suo conterraneo toscano, che lo inizia ai piaceri della letteratura. È sempre ad Alessandria, poi, che Pea entra in possesso della traduzione della bibbia di Diodati, testo fondamentale per la sua formazione linguistica, stilistica e religiosa. Ungaretti lo aiuta ad alfabetizzarsi; il seravezzino scrive le sue prime poesie e le sue prime opere teatrali.

Nel 1914 Enrico torna definitivamente in Italia, per la precisione a Viareggio, la sua attività letteraria è indirizzata principalmente al teatro. Chiamato per la leva, nel 1915, viene poi scartato a causa di una vecchia ferita all’occhio. Nel 1918 porta sul teatro della Versiliana la rappresentazione del suo Giuda, che scandalizza il pubblico per il tema ai limiti del blasfemo. Successivamente, l’autore ripudierà questa opera.

Il vero e proprio successo di Enrico Pea e la sua piena maturazione artistica si concretizzano nel ventennio che va dagli anni Venti agli anni Quaranta; escono i romanzi del suo ciclo più celebre: Moscardino (1922), Il volto santo (1924), Il servitore del diavolo (1929), Magoometto (1942). Oltre a questo, si contino anche diversi drammi si ispirazione religiosa, romanzi come La figlioccia (1935) o Il forestiero (1937), La maremmana (1938), dove la narrazione caotica che distingue i primi lavori tende lasciar spazio a una strutturazione più ordinata e consapevole.

Nel 1941 pure Ezra Pound si accorge di lui, e in una puntata della sua trasmissione radiofonica, trasmessa il 26 ottobre, elogia apertamente lo stile “lirico” dei romanzi di Enrico Pea; azzarda pure una traduzione di Moscardino. I due si erano già incontrati a settembre di quello stesso anno, e si incontreranno ancora due volte nel 1942. Gli anni successivi sono caratterizzati dalla pubblicazione di qualche romanzo di riflessione sulla guerra (Lisetta, Malaria di guerra), da una collaborazione con riviste e giornali per motivi strettamente economici e dalla cura per alcune rappresentazioni sacre. Istituì, con alcuni amici, il Premio “Lerici”, tra il 1952 e il 1954, che dopo la sua morte, avvenuta nel 1958, diventa Premio “Lerici-Pea”.

Ora, già dagli anni successivi alla sua morte, l’opera di Enrico Pea ha stentato sempre più a trovare degli editori. Solo alla fine degli anni settanta, su pressione di Italo Calvino, l’editore Einaudi azzarda una ripubblicazione del Romanzo di Moscardino, privo però di Magoometto. Ancora oggi solo questa serie di romanzi è salvata dall’oblio, grazie alle ristampe prima del 2008, poi del 2016, da parte della casa editrice Elliot. Tutto il resto del lavoro dello scrittore seravezzino risiede in edizioni vintage, nel migliore dei casi risalenti agli anni Ottanta. Ancora più curioso il fatto che, se dal punto di vista editoriale Enrico Pea latita, dal punto di vista degli studi critici ed accademici il suo stile e la sua poetica ancora oggi suscitano accesi dibattiti. Basti pensare che proprio l’anno scorso, Carocci ha pubblicato Nostalgia dell’abisso. I romanzi di Enrico Pea negli anni Trenta, di Giona Tuccini. Si arriva così a un paradosso degno di uno scherzo surrealista: si pubblicano gli studi critici, ma non l’opera.

Non rimane, quindi, che interrogarci sul perché di questa reticenza, che col passare del tempo diventa sempre più tragicomica. Escluderei a prescindere discorsi riguardanti la vendibilità, poiché con lo stesso criterio metà dei volumi che affollano le librerie non dovrebbero godere di stampa. Allo stesso modo, non può essere un problema l’attrattiva del personaggio in sé. In questi tempi malati di biografismo, si dovrebbe anzi fare a gara per ripubblicare un Enrico Pea, la cui vita sembra ritagliata ad hoc su quella di un Martin Eden. Forse potrebbero aver influito, per un certo periodo di tempo, gli apprezzamenti di Ezra Pound, autore tutt’oggi considerato politicamente scomodo, che aveva scritto di lui pure nel suo proibitissimo pamphlet Carta da visita. D’altronde la mano tesagli da Italo Calvino avrebbe dovuto rompere qualsiasi tipo di tabù politico nei suoi confronti – per quanto aprioristicamente insensato. Come mai nemmeno questo autorevole lasciapassare è riuscito a giovare? Forse, la risposta è da ricercarsi proprio all’interno dell’opera in sé.

Come si è detto, Pea era quasi analfabeta fino ai 15 anni, dopodiché ebbe una formazione molto frammentaria e disordinata, certamente fuori dai canoni accademici. Per questo, lo stile da lui sviluppato, soprattutto nei primi lavori, è a dir poco particolare: molti sono i neologismi e i regionalismi usati per mancanza di lessico letterario – in questo campo, molto interessanti sono gli studi di Contini sui “lucchesismi” usati da Pea. I richiami ipertestuali, poi, sono quasi assenti. L’opera di Pea è un magnifico atto sovversivo nei confronti della letteratura, che dalle sue pagine ne esce contemporaneamente esaltata e messa in discussione. In questo, si possono trovare delle analogie con Dino Campana: pure lui, nella sua opera, esce fuori dai canoni formali ed eruditi della poesia, e parimenti si contano miriadi di ristampe dei Canti orfici – certo editi oralmente più appetibile delle opere di Pea – ma nessuna edizione che ne raccolga tutti gli scritti. In entrambi i casi, infine, è impossibile “incasellare” le  rispettive produzioni letterarie in correnti letterarie studiate a tavolino o temperie politico-culturali specifiche. Sia questa loro natura altamente irregolare, letterariamente sfuggente, a spaventare gli eventuali editori?

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