Sarah Dierna (1997) è attualmente dottoranda di ricerca in Scienze dell'Interpretazione - XL Ciclo, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Scrive su varie riviste scientifiche - «Discipline Filosofiche»; «Vita pensata»; «il Pequod»; «Gente di Fotografia»; «Dialoghi Mediterranei».

Recensione a: A. Andronico, Protect Me From What I Want. Cinque lezioni sul carteggio tra Einstein e Freud, Libreria Editrice Torre Sas, Catania 2023, pp. 128, € 15,00.

Stimolato dallo scoppio della guerra in Ucraina e mosso dall’esigenza di comprendere e di far comprendere un fenomeno universale nella storia dell’uomo, la guerra, Alberto Andronico ripercorre e analizza il carteggio tra Einstein e Freud del 1932, intrapreso a seguito della richiesta – rivolta all’Istituto Internazionale per la cooperazione intellettuale da parte del Comitato permanente delle lettere e delle arti della Società delle Nazioni – di «promuovere uno scambio epistolare, su temi di interesse generale, tra esponenti di spicco della cultura dell’epoca» (p. 28). L’autore ne trae cinque lezioni vivaci ma anche efficaci con l’obiettivo di capire un tema centrale e originario della grande letteratura – basti pensare all’Iliade – come quello della guerra.

È un carteggio curioso perché un fisico e un medico si trovano a dialogare su un ambito che non appartiene in modo diretto né all’uno né all’altro: il diritto, la giustizia, il potere e la guerra che rispetto al primo è il mezzo, la fonte, l’oggetto come ha avuto modo di dire Bobbio.

L’interrogativo di Einstein è semplice, così come la risposta di Freud: «C’è un modo di liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?»; risposta: no. Freud adduce in verità anche una diversa conclusione meno negativa ma l’analisi dell’umano che la sua disciplina gli ha permesso di studiare giunge a una chiusa inequivocabile: la guerra appartiene all’umano perché all’umano appartiene un impulso di morte.

Se per i giusnaturalisti esisterebbe infatti un diritto fondato sulla natura, è assai più vero riconoscere che la storia ci insegna che agli esseri umani appartiene invece in modo naturale il conflitto del quale anche il diritto è in qualche modo una forma. Nel rispondere a Einstein, Freud ammette infatti che il diritto altro non è che il passaggio da una violenza del singolo a una violenza dei molti e quindi «il diritto resta pur sempre (ontologicamente, direi) una forma di violenza, conservandola e riproducendola al suo interno» (p. 56). D’altronde la sua sussistenza non è possibile senza il potere che è un’espressione regolata della forza.

Che il diritto emerga dunque dalla violenza e rimanga nel suo affermarsi una forma di violenza, suggerisce silenziosamente che alla violenza si risponde con una violenza che sarà pure diversa, ma sempre una forma di violenza è. E che dunque all’umano appartiene in modo naturale un’indole distruttiva. Indole che Einstein ha ben espresso prendendo atto del fatto che

se ancora non siamo riusciti, nonostante tutti gli sforzi a risolvere il problema della guerra, eliminandola dal nostro mondo, forse è perché non lo vogliamo risolvere. Detto altrimenti: forse è perché per noi la guerra, a dispetto delle apparenze e di ciò che andiamo dicendo in giro, in fondo, non è un problema. Diciamo di volere la pace, insomma, ma in realtà non è così. Perché proviamo un piacere nell’odio e nella distruzione (p. 40).

Un piacere che Freud ha ricondotto alle nostre pulsioni e che dunque ci appartiene come ci appartengono gli arti o i polmoni: «Tendiamo a creare e tendiamo a distruggere. Tendiamo a unirci e tendiamo a dividerci. Tendiamo a vivere con gli altri e tendiamo a ucciderli» (p. 87). Questa è l’indole naturale di Homo Sapiens che nella guerra si interseca con gli ideali, le ragioni e le speranze ma che è destinata a permanere finché vi saranno umani sul nostro pianeta. E la guerra è soltanto una delle occorrenze in cui la pulsione di morte si manifesta, ma non l’unica. Nella pulsione di morte sembra ritornare ciò a cui qualche decennio prima Philipp Mäinlander si era riferito parlando di volontà di morire insita in tutte le cose.

La nascita del diritto è anche la nascita della civiltà e della giustizia, sovrastrutture – per dirla con Marx – la cui presenza comporta la rinuncia al soddisfacimento delle proprie pulsioni. Ecco perché «il prezzo imposto dalla civiltà, in cambio di un po’ di sicurezza, altro non è se non la rinuncia a una parte della felicità, vale a dire una restrizione dei nostri moti pulsionali» (p. 100). Per proteggersi da ciò che desidera l’umano deve dunque rinunciare alla soddisfazione dei propri piaceri benché il rischio di questa ‘restrizione’ sia una restrizione anche della pulsione di Eros la quale comporta ciò che Freud, sempre rispondendo a Einstein, ha esposto come una preoccupazione per la fine del genere umano: «Forse esso porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione si moltiplicano più rapidamente dei ceti sociali di elevata cultura» (p. 100).

Il binomio tra cultura ed estinzione non è nuovo nella storia della filosofia. Ne La filosofia dell’inconscio (1869) Eduard von Hartmann aveva già posto la questione in termini molto simili a Freud benché non con preoccupazione bensì con auspicio. L’idea che il filosofo tedesco sosteneva era una concezione evoluzionistica della storia in cui l’umano, progredendo in scienza e coscienza, avrebbe difeso e dunque perseguito in modo consapevole la causa estinzionista che pochi decenni dopo avrebbe invece preoccupato Freud. L’assenza di civiltà, tuttavia, si distenderebbe nella ricerca di soddisfazione delle proprie pulsioni, di Eros ma anche di Tanathos; l’esito non inibito di tale pulsione non è soltanto creativo/costruttivo bensì anche distruttivo e fatale. L’esito insomma sembrerebbe in realtà il medesimo, raggiunto però intraprendendo direzioni assai diverse. In questo modo, secondo Andronico, mentre Aristotele e il pensiero occidentale avevano individuato nell’umano un animale che persegue il proprio bene, la verità è che l’umano persegue il proprio male: «Desideriamo morire, appunto, seppur a modo nostro. […] C’è qualcos’altro, in noi, rispetto alla pura e semplice pulsione di vita» ed è «una tendenza al ritorno all’inorganico, propria peraltro di ogni organismo vivente, una pulsione che blocca la vita nella dinamica della ripetizione» (pp. 85-86), da cui l’efficace affermazione di Jenny Holzer scelta come titolo di questo libro: Protect me From What I Want.

E se in questo consista invece il bene, visto che nell’una – la civilizzazione – o nell’altra direzione – la pulsione di Thanatos – il risultato sarebbe sempre ‘fatale’? Mäinlander nella volontà di morire ha scorto una forma di ‘redenzione’. Detto altrimenti, «se è vero, infatti, che la pulsione di morte ci appartiene e che non c’è modo di evitare che prenda le forme della guerra, perché non ci rassegniamo a prenderla semplicemente come una delle molte penose calamità della vita?» (p. 99); una delle modalità con la quale ritornare al nulla di partenza anziché sforzarsi di contrastarlo.

Insomma, «la lezione sulla guerra che Freud ci consegna è tutt’altro che rassicurante: le guerre ci sono, ci sono sempre state e sempre ci saranno, almeno nel prossimo futuro» (p. 103), almeno finché ci saremo. Nessuna sorpresa, dunque, nemmeno stavolta, nemmeno all’alba di un altro conflitto. La risposta alla domanda di Einstein: «C’è un modo di liberare gli umani dalla fatalità della guerra?», assai più drastica e certamente meno conciliante di quella di Freud, dovrebbe essere: sì, quando la guerra sarà definitivamente fatale.

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