Nato a Reggio Calabria nel 1996, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche presso l’Università della Calabria UNICAL, proseguendo la propria formazione con una laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma La Sapienza. Da sempre un appassionato di confronti su temi di natura sociale e culturale, attualmente ha all’attivo la partecipazione ad un Master in Organizzazione e Sviluppo delle Risorse Umane presso la GEMA Business School.
Recensione a
P. Blom, Il gran teatro del mondo. Sul potere dell’immaginazione nell’epoca del caos
Marsilio, Venezia 2021, pp. 144, €16.00.
Hans Joachim Schellnhuber, esperto di climatologia, utilizza la metafora della «trappola dell’omega» per descrivere una condizione in cui un sistema in fase di crisi non riesce ad immaginare un futuro qualitativamente alternativo al presente, accanendosi nell’utilizzare le strategie di sempre per far fronte a difficoltà inedite. È questa, secondo Philipp Blom, la caratteristica connaturata alla nostra contemporaneità: la nostra incapacità di formulare l’immagine mentale di un ‘dopo’ anche radicalmente differente rispetto al ‘prima’.
Nel saggio Il gran teatro del mondo. Sul potere dell’immaginazione nell’epoca del caos, Blom intende suggerire una risposta all’urgenza di riformulare un’idea del futuro, alla luce delle emergenze che interessano il nostro tempo – dai disastri climatici, al depauperamento della politica, della società, del concetto di collettività, alla disparità economica – e, soprattutto, dell’impoverimento della capacità immaginifica che sembra interessare le società odierne. E lo fa con uno spirito anacronistico, che piuttosto che speculare sul futuro vuole interrogare il passato, per rinvenire in esso una serie di significati e di letture intimamente umane.
Philipp Blom, giornalista e storico tedesco, già collaboratore presso riviste e quotidiani europei e americani come il “Financial Times”, “The Independent” e “The Guardian”, riconosce nella «guerra contro il futuro» che stiamo oggi combattendo la più insolita e ostica delle sfide: costruire un avvenire a partire da una narrazione dello stesso che sia diversa da quelle sinora sperimentate. La piccola èra glaciale che investì l’Europa dalla seconda metà del XIV secolo a quella del XIX secolo è per Blom un utile punto di partenza per sviscerare la sua tesi. Con uno sguardo rivolto al passato, l’autore mostra che la capacità dell’uomo di reagire alle circostanze che si erano prodotte in quella fase particolarmente ostile per l’umanità era determinata dalle interpretazioni che i saperi del tempo erano capaci di fornire: religione, astrologia, la società stessa si spiegavano quanto accadeva nel mondo sulla base di una serie di letture simboliche o superstiziose che sarebbero state sostituite, solo più tardi, dallo spirito empirico e razionalmente fondato dell’Illuminismo. E quindi, per molto tempo, durante la piccola era glaciale, quell’evento veniva percepito come un castigo divino, e messe espiatorie, roghi di streghe e processioni di flagellanti si ponevano come sacrifici per allontanare il male imperversante. Le società del tempo attingevano ad un repertorio di immagini che permettevano loro di orientarsi nella realtà e trovare delle risposte. Ma le criticità di quegli anni richiedevano ben altre tipologie di soluzioni.
Per reagire concretamente, difatti, gli esseri umani hanno dovuto prendere le distanze dal vecchio repertorio di immagini attraverso le quali gli eventi divenivano comprensibili e a cui si faceva ricorso per progettare e affrontare il futuro. Hanno dovuto raccontarsi storie nuove sul modo di intendere le cose, sulla scorta, e questo è un dato imprescindibile, della nascita di saperi nuovi, di nuove forme di mercato e di economia, delle università, dei processi di inurbamento. Blom riesuma così il filo sottile, quasi invisibile ma essenziale, che rende mutualmente dipendenti la capacità immaginifica dei singoli e quella della società tutta, in virtù del fatto che «le parole, le rappresentazioni e le immagini che le persone hanno in testa determinano il modo in cui i pensieri e i sentimenti di una società si rispecchiano negli individui, nelle loro strutture mentali, nelle cose che riescono a pensare o a immaginarsi». La realtà, insomma, si costruisce a partire dalle idee, e le idee dall’immaginazione: non si può riprogrammare il presente senza mettere in discussione le immagini passate. La stessa democrazia è un’intuizione, un punto di vista, il frutto di un accordo tra menti che hanno partorito idee diverse da quelle caratterizzanti l’ordine precedente.
Tra tutti i fenomeni intellettuali, l’Illuminismo è stato particolarmente significativo in termini di mutamento del pensiero, promuovendo un modo di studiare e comprendere il reale e il potenziale che rigettava le false credenze o le discussioni non supportate dal vaglio della dimostrazione. Ma, secondo Blom, nonostante si sia trattato di un’onda capace di travolgere schemi apparentemente inveterati, di battezzare prerogative e diritti sino ad allora mai rivendicati, l’Illuminismo si è rivelato ingenuo nella misura in cui «i pensatori di quella scuola sono prigionieri di un’idea di sviluppo irreversibile delle società». La storia dà purtroppo ragione a questa conclusione, in quanto certe conquiste che spesso abbiamo celebrato, gravide di promesse di uguaglianza e pace, si sono viste infrante da battute d’arresto e derive in grado di dimostrare, per esempio, che anche la democrazia può involvere – e il XX secolo è largamente eloquente a tal proposito.
Il tempo ha rivelato che le società e il progresso non avanzano secondo uno sviluppo rettilineo e non accidentato; che il cammino verso il futuro è molte volte tortuoso ed erto, si fa più contorto proprio laddove sembrava spianato e spiccatamente ottimistico. L’Illuminismo, sotto questo punto di vista, si è rivelato una grande illusione, e le sue promesse sono ancora meno credibili oggi – nonostante possiamo considerarci figli delle sue conclusioni –, in un mondo liquido in cui tutto ciò che nasce si disfa in tempi inopinabili.
Il punto principale, sottolinea Blom, è che l’Illuminismo riponeva una fiducia sregolata nella narrazione dell’infallibilità della ragione umana, considerando la stessa una guida indefettibile per l’uomo e le società. Solo gli anni di là da venire avrebbero dimostrato che l’uomo «non può aspirare a vivere sempre secondo principi razionali», smentendo quel presupposto che invogliava gli illuministi al perseguimento di obiettivi di lungo termine; primi fra tutti, il miglioramento della società e la convivenza civile. Ecco dunque che i tropi del pensiero illuministico accordavano «conoscenze empiriche verificabili con finzioni necessarie».
I totem narrativi che gli esseri umani hanno sempre costruito, fin dalle epoche più lontane, per agire e modificare la realtà hanno pedissequamente catalizzato le scelte e gli orientamenti dei gruppi, permettendo la convivenza di collettività grandi e differenti e la reciproca decifrazione tra gli individui. Il mondo, spiega Blom, non è affatto diverso da un «grande teatro» fatto di simulazioni e finzioni, in assenza delle quali il consorzio societario non potrebbe sussistere.
Sta di fatto, tuttavia, che in questo tempo della storia manchiamo di una visione del futuro, e la sostanza delle cose finisce per essere soppiantata dall’iridescenza della superficie. E certi fenomeni inquietanti – paure fomentate, propagande nazionaliste, limitazioni dei diritti civili – sembrano mettere in mostra i limiti di certe narrazioni che abbiamo a lungo considerato inscalfibili. Sul piano della sostenibilità ambientale, per di più, è ormai palese che «per garantire a tutti gli esseri umani una vita conforme agli odierni standard occidentali occorrerebbero le risorse di tre o quattro pianeti simili al nostro». Da dove partire per dare un volto nuovo al futuro, dunque?
La soluzione prospettata da Blom è quella di un ‘nuovo Illuminismo’, di un modo di pensare la prosecuzione del nostro cammino che rimetta al centro l’idea di un uomo radicato in una dimensione di terrestrità e non ergentesi al di sopra di essa; e ancora, l’idea di una Terra intesa non come «suolo inerte da squarciare, cementare, perforare, bruciare, dissodare, avvelenare», ma come «dea e attrice», come un agente animato da interessi ed energie proprie – un concetto, questo, debitore nei confronti delle riflessioni di Bruno Latour, Lynn Margulis e James Lovelock. Il rilancio dell’Illuminismo si realizzerebbe così alla luce di un nuovo senso attribuito alla realtà di cui siamo ospiti, non padroni, e l’emergenza climatica potrebbe concretamente costituire un serio pretesto per lo sviluppo e la socializzazione ad una nuova storia comune. Sebbene le nostre siano effettivamente società pluraliste, esse si dimostrano scarsamente capaci di integrare le identità e le scelte personali all’interno di un’identità e di modelli di agire collettivi e ottimamente performanti. Sono società in cui «gli esseri umani si raccontano storie diverse […]; hanno in testa immagini diverse e pensano in modi incompatibili se stessi e il mondo circostante».
Non abbiamo storie innovative che ci facciano da bussola, e il disorientamento derivante, tra le altre cose, è sovente una ghiotta occasione per molti leader populisti che puntano a rivitalizzare certe narrazioni che consideravamo tramontate. Per gestire un futuro di possibilità infinite e il fardello di responsabilità che reca con sé, per rompere con schemi di pensiero che immaginano proprio quel futuro sulla base di modelli destinati a condannarci ad un pantano di errori che si ripetono, «il palcoscenico del dibattito sociale ha bisogno di nuovi personaggi, di nuovi copioni». Dobbiamo dunque imparare a recitare una parte diversa, rispolverando quell’ideale romantico secondo il quale, come ricorda il filosofo statunitense Richard Rorty, «la ragione può soltanto percorrere i sentieri che l’immaginazione ha aperto».