Nato a Reggio Calabria nel 1996, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche presso l’Università della Calabria UNICAL, proseguendo la propria formazione con una laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma La Sapienza. Da sempre un appassionato di confronti su temi di natura sociale e culturale, attualmente ha all’attivo la partecipazione ad un Master in Organizzazione e Sviluppo delle Risorse Umane presso la GEMA Business School.

Recensione a
G. Mammarella, L’eccezione americana. La politica estera statunitense    dall’Indipendenza alla guerra in Iraq
Carocci, Roma 2005, pp. 259, €20.90.

Uno dei temi che da sempre caratterizza la storia della politica estera statunitense è quello «di una missione americana nel mondo». Il concetto di Manifest Destiny costituisce il pivot attorno al quale Giuseppe Mammarella ricostruisce le tappe principali che hanno condotto l’America a divenire una potenza di prim’ordine all’interno del panorama internazionale.

Nel suo L’eccezione americana. La politica estera statunitense dall’Indipendenza alla guerra in Iraq, Mammarella parte dal presupposto di considerare la teoria del “destino manifesto” come una vera e propria «filosofia nazionale», che è stata capace di esprimersi in forme e misure diverse nel corso della storia degli Stati Uniti. La chiave di lettura che viene fornita dall’autore individua proprio nel Manifest Destiny, insieme ai temi del progresso economico, individuale e civile il «cemento» della società americana in sé e per sé.

Dopo la fase dell’indipendenza, a seguito della quale il paese «continua ad avvantaggiarsi dell’Europa traendo profitto dalle sue difficoltà», gli americani si troveranno ad avere campo libero nel proprio continente. La forma che la politica estera statunitense assumerà a partire dal 1823 è quella della cosiddetta “Dottrina Monroe”, con cui l’America affermava di avere “un emisfero per sé stessa” e che permetterà al paese, forte del ruolo giocato dalla flotta inglese e dei conflitti che laceravano il Vecchio Mondo, di mettere in atto una propria politica imperiale, focalizzando molti sforzi sul “tesoro” dell’oceano Pacifico, un teatro essenziale nella definizione degli equilibri durante il XX secolo e da cui gli USA non vorranno essere esclusi. Nasce così un impero che affermerà la propria presenza in aree come Cuba, le Filippine, Guam, Portorico, la Repubblica Dominicana – solo per citarne alcune – e che si gioverà di una politica “della porta aperta” che, «precisava il governo americano, prevedeva l’integrità territoriale del paese ma, insieme ad essa, anche la libertà commerciale».

I giochi cambiano radicalmente con l’avvicendarsi del nuovo secolo e del primo, grande conflitto su scala mondiale. Le politiche di dichiarato intervento, che fino ad allora erano state osteggiate dalla leadership americana, vengono riconsiderate in virtù della minaccia all’equilibrio europeo che si profilava all’orizzonte. L’America comprende in questo momento che «non poteva chiamarsi fuori da una guerra che veniva combattuta per la supremazia in Europa e nel mondo». Woodrow Wilson, figura emblematica di questo periodo e destinata ad esercitare un’enorme influenza per molto tempo – persino nei tempi più recenti – si farà promotore di uno sforzo propagandistico per imprimere un radicale cambio di passo nella psicologia della politica e dell’opinione pubblica statunitensi. Gli obiettivi che l’America si prefiggeva, grazie al ruolo che avrebbe giocato nel conflitto, erano «una pace definitiva per il mondo, la liberazione dei popoli, compreso il popolo tedesco, la difesa dei diritti delle nazioni grandi e piccole e del diritto degli individui di scegliere i loro valori e il loro sistema di vita».

Insomma, volendo riassumere, il punto era creare un mondo «made sure for democracy», in cui la pax americana avrebbe potuto garantire, tra le altre cose, i vantaggi derivanti da un regime di commercio internazionale. Il revival patriottico che animava gli Stati Uniti alla vigilia della prima guerra mondiale aveva trasformato quel paese da un baluardo della cautela, da un vigile guardiano, a un vero e proprio alfiere investito di una missione. Se il progetto bellico di Wilson ebbe successo, lo stesso non si può dire per la sua visione politica, giudicata troppo astratta e ispirata ad un idealismo che mancava di concretezza. Va in questa direzione il fallimento del progetto dei 14 punti e, insieme, di quello della Società delle Nazioni.

La visione che l’America darà di sé subirà un altro, profondo mutamento con la trasformazione del paese in “arsenale della democrazia”. In occasione della seconda guerra mondiale, infatti, la classe dirigente statunitense decise che l’enorme mole di aiuti messa a disposizione per eradicare la minaccia del totalitarismo e del fascismo sarebbe stata concessa, oltre che all’Inghilterra, partner irrinunciabile all’interno dello storico asse strategico esistente tra il Nuovo Mondo e l’Europa, anche «a tutti i paesi che, aggrediti dalle potenze dell’Asse, avessero fatto appello agli Stati Uniti».

All’indomani dell’imposizione dell’embargo quasi totale riguardante le esportazioni americane al Giappone, gli Stati Uniti decideranno nuovamente di scendere in campo in maniera diretta: il disastro di Pearl Harbor vincolava ancora una volta il paese ad una guerra su scala globale. La vittoria riportata dagli Alleati su diversi fronti, la liberazione dell’Europa e la presa di Berlino tracceranno, nel giro di cinque anni, le premesse al nuovo ordine mondiale che di lì a poco avrebbe cominciato a prendere forma. In realtà, Mammarella spiega che «le idee e le istituzioni che governeranno il mondo dopo il 1945 nascono dagli studi, gli incontri, le conferenze che si svolgono negli anni della guerra e sono essenzialmente idee americane e soprattutto wilsoniane». Le idee di Wilson mantengono la loro sostanza, dunque, ma stavolta si vedono organizzate sistematicamente all’interno di uno schema ragionato, versatile e funzionale di ordine mondiale, e soprattutto tradotte in istituzioni definite. Sono i presupposti, questi, su cui si regge quella pax americana che secondo Mammarella s’ispira a due caratteristiche: «la prima è la libertà di commercio come principale garanzia di pace di sviluppo; l’altra è la soluzione pacifica delle controversie tra gli Stati nel quadro di un’organizzazione internazionale aperta alla partecipazione di tutti». I «four policemen» componenti il nucleo a guida delle Nazioni Unite avrebbero dovuto improntare la loro azione ad uno spirito di collaborazione, finalizzato a sciogliere ogni rischio di conflitto e ad assicurare la pace. Tuttavia due di questi membri, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si trasformeranno presto nelle matrici di un’ostilità destinata a prolungarsi per più di quarant’anni: la Guerra fredda.

Una delle prime risposte che la politica estera americana fornirà alla minaccia sovietica, sulla scorta dei moniti e dei suggerimenti di George Kennan, sarà il containment. Kennan suggeriva all’amministrazione statunitense di mantenere la politica estera del paese entro gli schemi di un equilibrio «sufficiente a conservare la pace». A conti fatti, e la storia dà ragione a Mammarella, la Guerra fredda si è vista spropositatamente – e forse anche inutilmente – alimentata da una serie di malintesi sia da parte americana che sovietica. Sono esempi di ciò la “sindrome dell’accerchiamento capitalista” da cui era affetta Mosca, la paura americana di un’invasione del Vecchio Continente, una politica del terrore che, pur basandosi su linee d’azione che volevano essere considerate applicabili, difficilmente si sarebbero potute tradurre in una guerra di tipo nucleare – pena l’incenerimento del mondo per come lo si conosceva.

In questo periodo, segnato, tra le altre cose, dall’atroce e spregiudicata ferita del Vietnam, la politica estera americana non presterà comunque attenzione esclusivamente alle minacce del Cremlino; essa, difatti, porgerà entrambe le orecchie al progetto di integrazione europea che veniva intanto posto in essere. Come ricorda l’autore del saggio, «Fin dall’inizio del processo d’integrazione, gli americani individueranno nell’obiettivo dell’unità europea la fonte di una spinta […] da contrapporre al comunismo». Senza contare che quello stesso progetto era vera e propria linfa vitale per un programma di estesa liberalizzazione dell’economia così caro al Nuovo Mondo, e che diverrà uno dei motori trainanti della globalizzazione che s’imporrà dopo il crollo del Muro di Berlino.

Già a partire dalla dottrina Reagan prenderà piede un modo d’intendere l’ordine internazionale, da parte degli Stati Uniti, condizionato al rispetto delle regole democratiche da parte di tutti i paesi. Alla luce di ciò, «i governi che fossero arrivati al potere con la violenza, in violazione del processo democratico, sarebbero stati considerati illegittimi». Questo sarebbe stato sufficiente affinché gli Stati Uniti potessero legittimare ogni forma di intervento che si sarebbe resa necessaria, come dimostreranno in diverse occasioni – dalla Guerra del Golfo all’intervento in Afghanistan e Iraq dopo gli eventi dell’11 settembre. Guardando ai tempi più recenti, conclude Mammarella, sebbene oggi non si possa più parlare propriamente di Manifest Destiny, un’espressione «legata a valori di altri tempi» e soprattutto non più confacentesi «a un mondo sempre più impermeabile ai miti e alle predestinazioni», quel concetto conserva un’essenza rimasta intatta e attuale per la politica estera americana: il compito «della proiezione su scala mondiale dei valori dell’esperienza storica americana considerata come modello per il resto dell’umanità». Non a caso, ogni tentativo di “esportazione della democrazia” si è sempre fondato e si fonda tuttora su tale spirito.

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