Nato a Reggio Calabria nel 1996, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche presso l’Università della Calabria UNICAL, proseguendo la propria formazione con una laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma La Sapienza. Da sempre un appassionato di confronti su temi di natura sociale e culturale, attualmente ha all’attivo la partecipazione ad un Master in Organizzazione e Sviluppo delle Risorse Umane presso la GEMA Business School.

Recensione a
A. Finkielkraut, L’incontemporaneo. Péguy, lettore del mondo moderno
Edizioni Lindau, Torino 2012, pp. 160, €19.00.

«Le nostre conoscenze sono niente di fronte alla realtà conoscibile, e a maggior ragione, forse, rispetto alla realtà inconoscibile». Con queste parole Charles Péguy, scrittore, poeta e saggista vissuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ha gettato un ponte tra le ambizioni e i limiti della modernità e quelli della postmodernità. Il saggio di Alain Finkielkraut ha il merito di riabilitare il pensiero di un intellettuale ansioso e dissidente, articolando un itinerario attraverso il ‘Péguy uomo’ e il ‘Péguy socialista’, il Péguy ‘guardiano del futuro’ e insieme ‘custode del passato’. Filkielkraut s’impegna così a rendere chiari i riverberi di una riflessione che non cessa di svelarsi incredibilmente attuale, incentrata sulla nuda realtà, riverente nei confronti dei limiti di un ordine che l’uomo, modellatore di una «materia senza dignità», ha creduto e crede di poter domare illimitatamente.

Péguy si fa lettore dei tempi moderni e del nuovo ruolo che l’essere umano ha conquistato, spiega Finkielkraut, a cominciare da considerazioni che riguardano il mondo propriamente fisico. Lo scrittore francese muove, cioè, da una riflessione sulla differenza tra la lavorazione del ferro, resa possibile dai progressi introdotti dalla rivoluzione industriale, e quella della pietra e del legno. Se questi ultimi due materiali imponevano all’uomo un certo tipo di rispetto e rigore, un’ottemperanza verso limiti di dominio e malleabilità che era tenuto ad osservare, di modo che era come se la forma finale fosse «implicata nella materia», il ferro ha cambiato le carte sul tavolo: si è dimostrato essere un materiale al servizio dell’uomo, delle sue ambizioni imbrigliate e della sua volontà. Materiale la cui modellabilità ha condotto il genere umano a svincolarsi dall’ordine dato delle cose. In una parola, un materiale «prostituzionale». Il ferro è, secondo Péguy, ciò che ha reso possibile il «trionfo della volontà», lo strumento tramite il quale l’uomo ha rivendicato il ruolo di creatore e dominatore. E così, «la natura non è più dunque accolta o ascoltata, come lo erano, nell’antico lavoro, la pietra o il legno: essa è costretta, come il ferro, a rispondere alle esigenze dell’uomo e a modellarsi sulle norme del suo intelletto». Il ‘metodo umano’ di piegare la realtà alle necessità e alla progettualità, alla «calcolabilità totale», pur non potendo pretendere di identificare le proprie regole con l’essenza della realtà, ha paradossalmente fatto sì che l’età positiva, che si professa atea, non lo sia realmente: Dio è sopravvissuto nel momento in cui l’uomo si è «letteralmente trasformato nel suo stesso Dio».

Come spiega Finkielkraut, però, per Péguy il compimento della natura umana non coincide con l’esercizio di una libertà illimitata. Péguy, dopotutto, è un socialista ‘cauto’ quando si dimostra scettico nei confronti dell’idea stessa di una marcia inarrestabile verso un futuro promesso, che possa condurre l’umanità a incontrare la perfetta e assoluta realizzazione – lato sensu, Dio in persona. Esercitare per davvero la natura umana significa, semmai, «da predatori divenire guardiani», formula che si spiega bene alla luce della posizione assunta da Péguy nei confronti dell’Affaire Dreyfus. Lo scrittore francese riteneva che, se una qualunque ingiustizia fosse stata perpetrata in quell’occasione, ciò avrebbe inevitabilmente inflitto un terribile colpo all’eredità che i francesi erano chiamati a custodire: «Quanto più passato abbiamo dietro di noi, tanto più (giustamente) bisogna difenderlo così, mantenerlo puro». Non vi è però da rintracciare alcuna storpiatura razzista nelle parole di Péguy, rimarca Finkielkraut; in esse, piuttosto, si rinviene una responsabilità nei confronti di una tradizione, di un patrimonio di idee – e di idee morali – che va preservato. Ciò che è ‘impuro’ diventa pertanto l’atteggiamento dell’esclusione, la caccia a ciò che è straniero e ‘diverso’ e anche l’usura di certi princìpi da salvaguardare – primo fra tutti, guardando alla Francia, quello di una «grande nazione ospitale».

Péguy è baudelairiano quando è recalcitrante all’idea di una superiorità del presente, del moderno, sull’antico; anzi, di fronte a raccapriccianti eventi come il massacro degli armeni e la devastante guerra russo-giapponese, che tanto lo avevano turbato, egli sconfessa la religione del progresso, e reputa che «la barbarie non è la preistoria dell’umanità, ma l’ombra fedele che accompagna ciascuno dei suoi passi». Barbarie che diverrà ancor più eclatante in occasione della prima guerra mondiale, cui pure Péguy aderirà perché ostaggio dell’euforia patriottica. Il dato importante che rimane, tuttavia, è che secondo il pensatore francese «il progresso non migliora i costumi, […] il sapere che accresce il potere non fa necessariamente crescere la giustizia o la socievolezza». Al contrario, secondo Péguy, il progresso – e la modernità – si sostituiscono allo scrupolo e al rispetto, definiscono l’‘essere’ delle cose sulla base della loro inedita plasticità, e ogni forma di resistenza viene soppiantata dal regno di una «villania illimitata». È questa l’idea di fondo che soggiace al concetto di panvillania di Péguy: un’umanità violenta e primitiva, un potere «specificamente moderno di fare qualunque cosa di ogni cosa».

Lo spirito controcorrente di Péguy si manifesta anche quando questi si pronuncia in merito al concetto di rivoluzione, entrando in conflitto con una serie di voci componenti il panorama dell’ideologia socialista dell’epoca – tra cui quelle di Jaurès e Renan. Il rivoluzionario di Péguy, afferma Finkielkraut, è un uomo che fa i conti con la precarietà dell’esistenza, con la paura della finitezza, che non si lascia ingannare dalla promessa di un «avvenire radioso» conquistato a partire dai mali e dal fallimento della società borghese. Pur ritenendo necessaria la liberazione dal bisogno squisitamente economico, Péguy rifiuta di leggere nel futuro la certezza di una perfezione. Tuttavia, si spinge oltre le previsioni originarie del socialismo, o di quell’immagine, debitrice nei confronti di Pascal e tipicamente socialista, che «percepisce gli uomini come un uomo in continuo progredire». Proprio in questo cammino verso l’avvenire Péguy rintraccerà il «peccato originale della modernità», con parole che però suonano tremendamente attuali. Quasi profetiche sono le righe dello scrittore quando anticipa, ad esempio, che l’umanità «inventerà sempre delle grafie e delle scopie e delle fonie, e le une non saranno meno “tele” delle altre, e si potrà fare il giro della terra in meno di niente». Sarà un’umanità certamente più progredita quella che avrà superato i limiti che ne ingabbiavano il potenziale in passato; sarà, allo stesso tempo, un’umanità che non è capace, citando Claude Lefort, di «dare forma e senso all’esperienza umana».

È uno sguardo quasi distopico quello di Péguy, che tuttavia vede nel progetto di una «città armoniosa» una utopia che vale la pena di inseguire: un’umanità che non è «come un solo uomo che invecchia», bensì come una pluralità di voci dialoganti tra di loro, una condivisione aperta di culture e filosofie, talvolta concordi e talvolta in dissonanza. È un’umanità che prende le distanze dall’atteggiamento di Jean Coste, descritto da Péguy nel suo cahier come un uomo che «non ha altra preoccupazione, altro orizzonte che sé stesso». Tale è la condizione della miseria umana, secondo il pensatore francese, per affrontare la quale si rende necessario un socialismo che renda liberi dalle catene del bisogno e accessibile a tutti un dialogo culturale e di conoscenze; che tenga conto, in altre parole, «del vero necessario, del pane e del libro».

Il più grande contributo di Péguy, ad ogni modo, si sarebbe rivelato solo molti anni dopo la sua scomparsa, quando nel 1989 uno spot pubblicitario del gruppo chimico e farmaceutico Rhône-Poulenc celebrava una nuova umanità, una Terra «sottomessa, dominata, […] un ambiente spogliato di ogni mistero e come svuotato della sua esteriorità, un mondo, in una parola, in cui ciò che era altro dall’uomo è adesso non soltanto sottomesso al suo potere, ma frutto della sua volontà». Le premesse di Péguy sull’epoca moderna si sono rivelate veritiere anche per i nostri tempi, e si sono spinte oltre, ai confini di una «fluidità senza intoppi, degli esseri e delle cose». Ciò che è programmato prende il posto dell’esperienza della scoperta, il segreto non stupisce più, la panvillania ora non concepisce il presente come un campo di battaglia fra la ‘vecchia materia’ e la ‘nuova materia’. Quella fase, di cui Péguy è stato vigile e mirabile testimone, è ormai stata abbondantemente superata. Adesso è il tempo di un presente «senza preferenze» nei confronti di tutte le possibili combinazioni, in cui una scelta precisa e delimitata non è più essenziale ma ‘scelta’ tra le innumerevoli opzioni, la libertà da ogni radicamento è il più grande dei privilegi, e le vecchie antinomie sono superate dai principi della disponibilità, dell’interscambiabilità e dell’equivalenza. La ‘città armoniosa’ è ora quella in cui vige una sola regola: «Anything goes: tutto va bene, qualunque cosa può andare, la neutralità è la forma del mondo».

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