Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Ricordo quanto mi colpì nel profondo la lettura delle encicliche di Papa Giovanni Paolo II. Leggere quei testi mi diede sicuro e caldo conforto, in un momento di difficoltà. Furono tre brevi pensieri, in particolare e tra i tantissimi altri, che mi rimasero impressi. Il primo contenuto a cui mi voglio riferire si trova nella Laborem Exercens (1981), al paragrafo 20, allorché il Papa ammoniva dall’idolatrare la politica, da intendersi, invece, come «prudente sollecitudine per il bene comune».
Il secondo pensiero, poi, rinvia al ruolo attivo che la persona ha nella società, alla sua capacità potenziale di influenzarla positivamente, senza però mai, si badi, mirare a stravolgere l’esistente, pena, di nuovo, cadere nell’idolatria terrena: al paragrafo 1 della Sollicitudo Rei Socialis (1987) Giovanni Paolo II invitava le persone, piuttosto, «a rispondere (…) alla loro vocazione di costruttori responsabili della società terrena».
Infine, un passo della Centesimus Annus (1991), al paragrafo 49, quando il Santo Padre ricordava come gli individui, prima che essere consumatori o produttori, sono persone ovvero fini in sé che non possono essere schiacciati su questa o quella dimensione dell’esistenza, giacché l’uomo è un tutto che non può essere frazionato e parcellizzato: «L’individuo – si legge nel passo – oggi è spesso soffocato tra i due poli dello Stato e del mercato. Sembra, infatti, talvolta che egli esista soltanto come produttore e consumatore di merci, oppure come oggetto dell’amministrazione dello Stato, mentre si dimentica che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato né allo Stato, poiché possiede in se stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire. L’uomo è, prima di tutto, un essere che cerca la verità e si sforza di viverla e di approfondirla in un dialogo che coinvolge le generazioni passate e future».
Ora, perché questi tre passi? Perché leggendo l’esortazione apostolica di Papa Francesco, sui cambiamenti climatici mi chiedo cosa ne sia, rispettivamente, del considerare la politica – ma, insieme, di tutte le attività umane, in quanto tali, come l’uomo stesso, fallibili e imperfette, scienza compresa – come «prudente sollecitudine per il bene comune»; del ritenere le persone «costruttori responsabili della società terrena»; e, in ultimo, del concepire come l’uomo non debba servire padroni terreni, ma solo la verità: il che è un altro modo di dire, dopo tutto, di rifiutare l’ideologia – qualunque essa sia – in quanto semplificazione della realtà e tradimento del binomio fede-ragione.
A leggere il documento dell’attuale Pontefice sembra di avere di fronte uno scritto che potrebbe essere uscito dalla penna di un qualunque leader politico, piuttosto che un testo critico misurato e ponderato, di carattere religioso. Certamente, esso si inserisce nell’alveo della stessa biografia del Papa, ostile com’è alla modernità, al progresso in quanto tale, al liberalismo. E, dopo tutto, è sufficiente leggere quanto ha scritto in merito uno storico dell’America Latina come Loris Zanatta ne Il populismo gesuita (Laterza 2020). Per Bergoglio, in fondo, la modernità occidentale altro non è che un errore della storia. Di più, un’aberrazione che andrebbe cancellata per riscoprire l’arcadia pura e redenta di un presunto passato mitico.
Ma l’uomo, come abbiamo ricordato all’inizio, deve rimanere, sulla scorta di quanto pertinentemente scritto da Papa Giovanni Paolo II, un costruttore responsabile del suo mondo: e non un radicale che desidera rifare l’esistente sulla base di non si sa quale piano (ammesso, appunto, che ne esista uno). E, di conseguenza, gli strumenti che ha a disposizione per migliorare, sebbene imperfettamente, il mondo che abita, non possono che essere usati con prudenza e discernimento: e non, invece, come assoluti che indicano la via (ritenuta) eletta. Dopo tutto, ha scritto in un bellissimo passo il diretto predecessore di Bergoglio, Benedetto XVI, si chiede troppo alla scienza allorché la si utilizza alla stregua di un fine in sé, una divinità terrena: «La scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa» (Spe Salvi, 2007, n. 25). Papa Francesco, in altre parole, si abbatte contro quello che chiama “paradigma tecnocratico”, ma vi ricade in pieno adottando una prospettiva ideologicamente scientista: si avvale di dati come se fossero scolpiti su una pietra di fattura divina.
Papa Francesco, inoltre, invita correttamente a ripensare i limiti del potere umano. Analogamente, insiste sul rivedere la dedizione umana nei confronti del consumare risorse e sfruttare l’ambiente – ma perché, anziché usare quest’asettica parola (che peraltro rinvia a un’idea utilitaristica dello stesso: una contraddizione in termini, confrontandola con la visione bergogliana), non impiega natura (o magari ambiente naturale), questa sì, parola che rinvia a una creazione di Dio? E, tuttavia, ancora una volta cade nell’ideologia. Egli vede nel mercato e nel consumismo delle reificazioni: quando, piuttosto, il primo è uno strumento emerso dall’interazione delle persone, mentre il secondo è un concetto che indica una tendenza delle persone. E, allora, forse occorrerebbe riflettere sulla morale guasta di taluni, piuttosto che colpire (invano) cose intangibili e inesistenti che servono, per l’appunto, gli uomini e le donne in carne e ossa.
Infine, una nota positiva, anche se solo parzialmente. Papa Francesco osserva come non ci si possa rivolgere a un’autorità mondiale unica, una cabina di comando monistica che regoli tutto su scala planetaria. Da tale premessa, tuttavia, non deriva ciò che altri prima di lui hanno detto. Benedetto XVI, ad esempio, invitava nella Caritas in Veritate (2009), paragrafo 57, alla gestione di tipo sussidiario della globalizzazione e, di conseguenza, di tutti problemi di scala mondiale (come ha osservato Flavio Felice, in realtà, nella traduzione italiana si è erroneamente inserito il termine “governo”: esso, però, essendo di tipo monistico e accentrato, non rispetta l’originale latino “moderamen”, che è meglio tradurre con governance, di tipo poliarchico e sussidiario). Ciò che va rifiutato è il paternalismo – implicito in chi anela al governo mondiale di questo o quel problema – dal momento che non rispetta la dignità e la responsabilità della persona. La sussidiarietà, per contro, è il principio cardine che non solo la rispetta, ma incentiva l’esercizio responsabile della libertà di ognuno.
Il direttore della rivista “Tempi”, Emanuele Boffi, ha osservato come quella di Papa Francesco, attraverso la Laudate Deum, possa definirsi tutt’al più un’«ecologia parziale». Forse, ancora meglio sarebbe dire che siamo nel campo dell’ambientalismo ideologico. Ciò che serve, allora, è una vera e autentica “ecologia integrale per l’uomo” in modo che siano le persone poste al centro in qualità di «costruttori responsabili della società terrena». Scriveva Benedetto XVI che «il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’“ecologia umana” è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l’indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura» (Caritas in Veritate, n. 51; corsivo nel testo). Insomma, per provare a curare i problemi, anziché andare in cerca di colpevoli reificati o elaborare panacee inesistenti, forse è meglio ripartire dalla persona e dalla sua tenuta morale, in chiave sussidiaria.

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