Recensione a: V. Horia, Dio è nato in esilio, Castelvecchi, Roma 2019, pp. 235, € 18,50.
Vintilă Horia, apolide ed esule al pari di Ovidio. Il filo sottile che lega i destini del celebre scrittore rumeno con quello del poeta latino risiede inevitabilmente nella figura dell’emarginato. Horia, cattolico e anticomunista, vagò senza metà per anni, tra Europa e Sud-America perché ripudiato dal governo romeno del secondo dopoguerra. Sorte simile toccò a Ovidio, accusato dall’imperatore romano Augusto di corrompere gli animi dei più giovani tramite scritti che raccontavano di piaceri edonistici.
Il filo che li lega sembrerebbe assumere i colori di una denuncia politica: verso il regime comunista romeno per Horia, l’Impero romano per Ovidio. Senza dubbio Horia, scrivendo nella veste del poeta latino, volle testimoniare le ingiustizie politiche e sociali di cui, in forme diverse, il regime romeno e l’impero romano furono responsabili nel corso della storia. Tuttavia risulta semplicistico incasellare questo romanzo all’interno della bolla della denuncia politica.
Con uno stile leggero e al contempo avvincente, Horia riesce nell’intento di parlare all’uomo, alla sua complessità e inevitabile sofferenza, non solo all’esule in quanto tale. Grazie alla figura dell’Ovidio esiliato Horia mette a nudo molte delle questioni irrisolte che affliggono non solo l’animo del popolo romano, ma anche dell’uomo contemporaneo.
Senza dubbio l’esilio nella barbara Tomi, città situata nell’attuale Romania, è all’inizio per Ovidio perdita di senso da tutto ciò che Roma aveva rappresentato per il poeta. Una vita all’insegna della ricerca del piacere sfrenato aveva, nonostante tutto, generato nel poeta appartenenza allo spirito di Roma, un senso nel non-senso. Gli appigli edonistici sono però destinati, scorrendo le pagine del romanzo, a subire costanti rappresaglie. Ovidio, contro ogni previsione iniziale, si vede catapultato in un flusso di coscienza in divenire. La malinconia del protagonista dapprima passa per i ricordi di Roma, delle amicizie e innumerevoli amori, per gli attimi di ciò che era stato ma che ora non più. Ma dopo una serie di eventi, la nostalgia di Roma lascia il posto al sentimento che è tipico dell’ultima età dell’uomo: il rimpianto per ciò che poteva essere ma che non è stato. Ma quale forza favorisce questo cambio di rotta nell’animo di Ovidio? La caducità della vita? Non proprio.
Ovidio rimane abbagliato dal modo con cui i Geti, popolo barbaro che visse nell’attuale Romania, di intendere la vita e ancora di più la morte. Lui che aveva innalzato a idolo il piacere terreno, che fuggiva dall’ineluttabilità della sofferenza, si trova di fronte ad un popolo che non considera la morte come un’incognita, come un salto nel vuoto. Per i Geti la morte è l’atto conclusivo di una vita sofferta e sofferente e come tale possiede un carattere liberatorio. Il dolore della vita così non diventa privazione, bensì mezzo legittimante per la liberazione dell’uomo dalle ingiustizie del mondo. Ovidio così, come mai prima d’ora, conferisce una verità al suo esilio, coglie il senso del suo soffrire, di ciò che non era riuscito a fare durante la giovinezza.
Perché allora prossimo alla morte Ovidio rimpiange la vita vissuta? Perché, fuggendo dal dolore, non era riuscito a cogliere il progetto divino che sta dietro al peregrinare di ogni uomo. Progetto che però il poeta ha la percezione di sfiorare, come in un sogno da lui descritto che lo avvolge in una luce celestiale, quando viene a conoscenza della venuta del Messia in Terra durante il suo esilio a Tomi. Anche il figlio di Dio, come lui, è nato in esilio, a Betlemme.
Ovidio morirà da uomo pensante, non più governato dal caos del sentimento, liberato da una ragione che salvifica e porta ordine. Per citare Noberto Bobbio, «la differenza rilevante per me non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti». Tuttavia lascio al lettore scoprire se Ovidio sia riuscito o meno nell’impresa di incontrare Dio in punto di morte.
È un romanzo senza tempo quello di Horia, un vero e proprio classico. La vita di Ovidio sembra infatti parlare all’uomo contemporaneo. In particolare è nella relazione con il dolore provata dal protagonista che, personalmente grandi contiguità e punti di contatto con la contemporaneità in cui viviamo. Sembra un paradosso, ma effettivamente, nonostante siamo oggi permeati dal dolore nelle sue diverse forme, siamo comunque al contempo dominati, per non dire anestetizzati, dall’ideologia del think positive. Sorridenti, performanti, e soprattutto come obbligati all’affannosa ricerca di emozioni forti e fugaci in grado di sopperire al peso sofferente della ragione.
Chiaro è che la sofferenza non strizza l’occhio ad una società proiettata alla produttività incessante. Il dolore è di per sé antiproduttivo. Ma è anche profondamente spirituale, perché è nel dolore che l’uomo può prendere coscienza del proprio sé e del proprio non-sé. Non diventiamo forse consapevoli del nostro corpo solo e solamente quando ci feriamo? Non sono forse le anime più sofferenti ad aver trovato la fede più forte in Dio? L’opera di Horia va letta e riletta. Ancora di più oggi.