Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Recensione a
M. Houellebecq, Serotonina
La nave di Teseo, Milano 2019, pp. 332, €19,00.
Con la sua produzione, Michel Houellebecq si è affermato come uno degli scrittori più iconici del nostro tempo. Il protagonista del suo ultimo lavoro, dal titolo Serotonina (Nave di Teseo, Milano 2019, pp. 332, € 19), è Florent-Claude, un funzionario del ministero dell’Agricoltura francese, con una vita sentimentale disastrosa e con nessun particolare interesse per il suo lavoro. La depressione lo porta ad assumere il Captorix, uno psicofarmaco, contenente serotonina, che permette ai pazienti «di affrontare con inedita spigliatezza i principali riti di una vita normale in seno a una società evoluta» (p. 10).
Il protagonista narra il suo tentativo di abbandonare tutto e tutti e di ritirarsi in una vita isolata, lontano da quella rete di doveri pubblici e privati che irretiscono l’esistenza di ogni adulto appartenente alla società civile. Nonostante la ricerca di solitudine, Florent è preso da uno strano impulso di rivedere le persone che hanno avuto una certa importanza nella sua vita. Questo lo porta a viaggiare per la Francia alla loro ricerca; i luoghi principali del viaggio sono tre: Parigi, Canville-la-Rocque e Falaise, entrambi in Normandia. In ciascuno di questi il protagonista farà un incontro significativo; il primo si svolge proprio a Parigi, e riguarda una vecchia fiamma di Florent, Claire. Il nome della ragazza spunta fuori dal niente, riaffiora nei ricordi del protagonista senza una motivazione precisa. Successivamente, Florent racconta la storia della ragazza, le sue speranze giovanili e la loro relazione: nei suoi ricordi Claire è viva e vitale, con in mente grandi progetti. Florent fissa con lei un appuntamento, ma l’incontro sarà tragico: la vita di Claire si rivela un fallimento totale, i suoi sogni e i suoi progetti sono stati completamente disattesi, le sue aspettative tradite. Non c’è più traccia in lei della vitalità di un tempo, è poco più che un fantasma.
Il secondo incontro veramente significativo è invece con un vecchio amico dell’università, Aymeric, e si svolge nella campagna normanna. Al contrario di Florent, Aymeric si presenta come una persona abile e capace, con un grande senso del dovere e una vocazione sincera per la sua professione. Nonostante le offerte della Danone, Aymeric decide di prendersi cura dei possedimenti della sua famiglia, di origini aristocratiche. Florent non comprende questa scelta dell’amico, poiché fuori dall’ottica utilitaristica, così come non condividerà altre sue decisioni successive.
Quando il protagonista rivede Aymeric, lo trova con una vita devastata: il matrimonio è un fallimento, gli affari vanno malissimo a causa delle scellerate politiche agricole del governo francese. Florent consiglia all’amico di vendere tutto e di passare il resto della sua vita a godersi la somma incassata; di tutta risposta Aymeric diventa capo di una rivolta di agricoltori. Durante una manifestazione, in un momento di alta tensione tra gli agricoltori e le forze dell’ordine, Aymeric decide di suicidarsi sotto gli occhi stupefatti dei poliziotti e di Florent. Tale mossa, dettata dalla disperazione, ha l’effetto di far salire la rivolta degli agricoltori alla ribalta nelle cronache nazionali. Aymeric, sentendo probabilmente il richiamo del sangue, trova il suo posto nel mondo tra i territori di famiglia, e vede la sua missione nel combattere fino alla fine per preservarli. È uno sconfitto solamente perché calato all’interno di un periodo storico avverso; lui stesso ne è consapevole, e in uno sfogo di rabbia, parlando di suo padre, afferma:
La cosa terribile è che parliamo di un uomo che in pratica non ha mai fatto niente di utile in tutta la sua vita – si è limitato ad andare a matrimoni e funerali, a qualche battuta di caccia, ogni tanto un bicchierino al Jockey Club, credo che abbia avuto anche qualche amante, comunque niente di eccessivo – e ha lasciato intatto il patrimonio degli Harcourt. Io invece cerco di metter su qualcosa, mi ammazzo di lavoro, mi alzo ogni giorno alle cinque, passo le mie serate a fare conti – e il risultato, alla fin fine, è che impoverisco la famiglia… (pp. 211-212).
Il suicidio finale è un atto estremo e disperato di eroismo e altruismo, la ribellione contro il caos che ha inglobato la sua vita, stravolgendola.
Il terzo incontro ha connotati diversi dagli altri due. Esso riguarda uno dei più grandi rimpianti amorosi di Florent: la sua ex fidanzata Camille. Il suo nome è evocato sin dall’inizio del romanzo, ma è soltanto nella parte finale del libro che il narratore trova il coraggio di parlare di lei. Nei suoi appare come una donna solare, capace di far uscir fuori il lato migliore del protagonista, di cui è perdutamente innamorata. Florent ne tradisce però la fiducia, facendosi scoprire in compagnia di un’amante. Dopo quell’episodio, Camille scompare senza lasciare traccia. Florent, dopo sette anni che non la vede, decide di andarla a cercare nella sua città natale. Qua riesce a vederla in lontananza; la segue, mantenendo le distanze fino a casa, dove vive sola con un bambino. Questo fa presagire a Florent che pure lei non ha avuto un’esistenza facile: probabilmente, il padre del bambino deve aver abbandonato la famiglia, lasciando a Camille l’onere di crescerlo.
Grazie al mirino di un fucile di precisione regalatogli da Aymeric, Florent spia l’interno dell’abitazione di Camille: ciò che vede al suo interno è una strana serenità, una tranquillità data da una quotidianità ordinata, per quanto certamente scomoda e difficile. Florent, addirittura, si apposta in un edificio abbandonato nei pressi della casa e resta a spiare per mesi il suo “Paradiso perduto”, arrivando ad affermare: «per la prima volta da mesi – o meglio, da anni – mi sentivo esattamente nel posto dove dovevo essere, e per dirla con semplicità ero felice». (p. 277)
Per comprendere meglio quali sensazioni impediscano a Florent di raggiungere la casa dell’amata, è necessario chiarire la struttura narrativa del testo. Aymeric e Camille vengono presentati al lettore allo stesso modo con cui viene introdotta Claire. Questo ricorda molto gli incontri di Dante con le anime dei defunti all’interno della Commedia: l’anima si manifesta al poeta, si ha il racconto della sua vita terrena e infine viene descritta e motivata la sua pena.
Il primo personaggio, Claire, appare come un’anima totalmente sperduta all’interno dell’inferno di Parigi: cerca di affermarsi professionalmente come attrice, pur non avendone le capacità; invece di reagire agli insuccessi, si cala in un circolo vizioso di autodistruzione, conformandosi quindi al caos della metropoli. Aymeric è invece il rappresentante aristocratico di una terra dove ancora sembra vivo il ricordo delle antiche radici feudali, e per questo si ribella al disordine culturale e politico della società francese ed europea contemporanea. Il motore della Storia, però, è difficile da contrastare, e chi lo affronta non può che rimanere sconfitto. Aymeric soccombe, ma la sua è un’anima redenta dalla lotta. Ecco che la Normandia sembra prendere i connotati di un Purgatorio. Sempre in Normandia, come fosse la cima del monte sacro, si trova pure l’Eden, ovvero la casa di Camille, che pare prendere le sembianze di una terrena Beatrice. Florent, però, non è Dante, ed il paradiso gli è precluso. Anch’egli, infatti, è un’anima dannata, anche se non è collocabile in nessuna delle tre cantiche. Infatti, lui stesso, rinunciando alla vita, se ne tira fuori, anche grazie all’uso del Captorix. Florient presenta i tratti caratteristici dell’ignavo: si fa guidare dagli eventi, vede le ingiustizie e decide di non agire; si fa trascinare nel caos, diventandone inconsciamente un agente. Al contrario di Aymeric, a Florent si presenta l’occasione della felicità, ma non riesce a riconoscerla. Vittima del suo individualismo, della sua effimera ricerca di piacere, Florent è simbolo di un’umanità persa nel caos, incapace di riconoscere un’opportunità di ordine e felicità, quand’essa si manifesta.
Questo, infine, sembra essere il punto fondamentale dell’ultima fatica di Houellebecq; in un periodo storico privo di una qualsiasi forma di ordine sociale, pure l’uomo comune può farsi agente del caos, non facendo altro che ricercare il suo piacere individuale tenendosi “lontano dai guai”. È proprio questo atteggiamento a tenere lontano il protagonista da ciò che tanto ricerca, ovvero la felicità, e a privarne anche altre persone. Si potrebbe scusare questo atteggiamento, chiamandolo “spirito del tempo”, ma Houellebecq, seguendo la morale di Tacito, include nel suo romanzo personaggi che a questo “spirito” si ribellano apertamente, divenendo martiri della Storia, esattamente come Cristo. Florent se ne rende conto: la colpa non è del Tempo, la colpa è dell’uomo; non è Dio ad aver abbandonato l’umanità, ma viceversa. A schiacciare Aymeric sono stati uomini passivi come lui. Ad abbandonare Claire e Camille è stato lui. Così, il romanzo si chiude con queste parole:
Avrei potuto rendere felice una donna. Anzi, due; ho già detto quali. Tutto era chiaro, estremamente chiaro, sin dall’inizio; ma non ne abbiamo tenuto conto. Abbiamo forse ceduto a illusioni di libertà individuale, di vita aperta, di infinità dei possibili? È probabile, quelle idee erano nello spirito del tempo; non le abbiamo formalizzate, ce ne mancava l’inclinazione; ci siamo limitati a conformarci a esse, a lasciarcene distruggere; e poi, per molto tempo, soffrirne.
E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito?
Parrebbe di sì (p. 332).