Antonio Panico (1985). Laureato in Antropologia Filosofica con una tesi su Agostino D'Ippona. È docente di Filosofia e Storia nei Licei. Ha insegnato in Piemonte, Sardegna e ora in Campania, presso il liceo statale "Enrico Medi" di Cicciano (Na). È stato premiato da "Asso Eccellenze Nazionali" come Docente dell'anno under 50 (fascia 40-50) nella categoria licei per nell'anno scolastico 2023/2024 e sarà insignito al Senato della Repubblica.

«The cure can be worse than the disease when dealing with complex systems», avvertiva Jay  Forrester, padre della dinamica dei sistemi (e del profetico The Limits to Growth, 1972, che presagiva il silenzioso ma incombente cortocircuito socioambientale). Credo che si possa partire da qui per ragionare intorno alla scuola italiana, un sistema stratificato e intricato, tuttavia spesso trattato come un dispositivo guasto da riparare con soluzioni rapide e slogan rassicuranti. Ogni stagione, in effetti, porta con sé la sua panacea: riforme lampo, ricette semplificate, prescrizioni universali, amplificate da un dibattito pubblico sempre più superficiale e frammentato dalla socializzazione digitale.

Popolo di santi, navigatori e pedagogisti: dietro la sovrabbondanza di istruzioni per l’uso spesso si nasconde il presupposto, tanto ingenuo quanto pericoloso, che la scuola sia un meccanismo lineare, governabile con pochi accorgimenti (che non vengano dagli insegnanti, però: ironia della sorte, quelli non se li fila nessuno). Evidentemente la realtà, almeno a parere di chi scrive, non è così. Francesco Bacone metteva in guardia contro i pregiudizi della mente – li chiamava idoli, non a caso – e certo anche oggi sarebbe opportuno liberarsi da bias e scorciatoie concettuali per affrontare un universo così multicentrico con prudenza e lucidità. Evitare di alimentare distorsioni e accettare i tempi lenti di incubazione sarebbe già un buon punto di partenza.

Senza la pretesa di produrre strumenti correttivi – del resto non si fa parte di alcun trust di cervelli – chi scrive desidera ragionare, partendo da modesti appunti di cronaca diretta e indiretta, per offrire qualche considerazione generale su criticità e natura dell’insegnamento, nella convinzione che un’analisi seria non debba trascurare le testimonianze di chi la scuola la vive quotidianamente: in primissimo luogo, ma non solo, alunni e docenti.

Nei miei primi quattordici anni alle superiori tra Piemonte, Sardegna e Campania, mi è sembrato – percezione mai attenuata – che la scuola, nelle sue mille cose buone, meno buone o persino ottime, abbia progressivamente assunto una struttura elefantiaca (oppure, come ripeteva un compianto collega, una forma che continua a crescere senza solida struttura interna, senza lievito). Come se mancasse un arché nel pieno senso preplatonico del termine: non causa temporale, ma principio permanente che dà coerenza e direzione all’evoluzione di ciò di cui è sostanza. Questa condizione ha molteplici concause, e varrà sempre la pena indugiare, per un istante, sul noto fenomeno della iperburocratizzazione: ad oggi, qualsiasi attività scolastica viene accompagnata da un fardello amministrativo spropositato: registri elettronici con infinite sezioni mai del tutto esplorate, report di rendicontazioni e monitoraggi perfino sulla frequenza delle uscite dall’aula degli alunni, schede di valutazione e di recupero, modulistica per ogni passaggio intermedio assorbono una incalcolabile quantità di tempo ed energia. La burocrazia, sviluppatasi in età illuminista come strumento di efficienza –  ma anche di controllo razionale, non a caso – si è trasformata spesso in apparato autoreferenziale divenendo, talvolta, fine piuttosto che strumento. Hannah Arendt, ne La banalità del male, segnalava come il formalismo burocratico rappresentasse un ostacolo alla capacità critica dell’individuo: prendendo a prestito il concetto in sé – null’altro –, nella scuola di oggi si assiste forse a qualcosa di simile, giacché gli adempimenti soffocano, per dirla con Fichte, quella spontaneità dello spirito che dovrebbe nutrire il lavoro didattico.

È certamente possibile che brevi incursioni lavorative nel mondo HR tra società di comunicazione e società di consulenza mi abbiano suggestionato, ma mi pare che, da una certa angolazione, non sia scandaloso ripensare la scuola con una sua dimensione aziendalista. Parola, questa, da maneggiare con cura, spesso foriera di ire funeste tra numerosi docenti: qui la si usa in senso debole, senza implicare mercificazione dell’istruzione o attacchi alla libertà d’insegnamento, piuttosto che illumini sulla gestione dei flussi, la cura dei processi, l’allocazione razionale delle risorse. Già Peter Drucker, economista che non si è occupato di istituzioni educative in senso stretto, segnalava quarant’anni fa che l’efficienza non risiede nella moltiplicazione delle regole, ma nell’aristotelico giusto mezzo, nella capacità di individuare il superfluo per concentrare le risorse primarie sulle attività essenziali, così che l’efficienza sostenga l’efficacia. Michael Fullan, esperto lui sì di riformismo scolastico, sottolinea ancora oggi come il cambiamento efficace nelle istituzioni educative debba basarsi su un’organizzazione flessibile e sulla valorizzazione delle risorse umane, piuttosto che su un eccesso di regolamentazione (eccesso, si sottolinea. Mi permetto di nutrire forti perplessità sulle deregolamentazioni selvagge, siano esse alla Milei oppure alla Trump/Musk, per richiamare quelle contemporanee). Pare si sia andati in un’altra direzione, creando un ulteriore ostacolo di cui, in verità, il personale scolastico non avvertiva il bisogno.

Eppure, la scuola riflette, in qualche modo, le articolazioni della società in cui è posta. Ne deriva un oggettivo e forse necessario moltiplicarsi di mansioni, cui, però, non è mai corrisposto un aumento del personale e del corpo docente in particolare – eccezion fatta per la Buona Scuola renziana, che attraverso l’organico dell’autonomia ha introdotto il celebre “docente di potenziamento”, figura non certo priva di ambiguità. La criticità risiede non tanto e non solo nella carenza di organico in classe, ma nell’assenza di figure dedicate specificamente alla gestione di compiti e attività ormai indispensabili. Oggi, strano ma vero (strano per chi la scuola non la vive), un insegnante non solo insegna: coordina una classe, cura una funzione strumentale specifica, è referente di uno o più progetti, è tutor di alunni o colleghi, è membro di un qualche team di prevenzione o monitoraggio, è coinvolto nell’orientamento in entrata o in uscita. Si aggiungano altre cause abbracciate non per dovere collaborativo o ex inductu, ma motu proprio. E dunque: poiché è impossibile essere e non essere la stessa cosa nello stesso momento, bisognerebbe riconoscere che un docente non può, nella stessa finestra temporale, curare l’insegnamento in senso stretto e occuparsi di tutto il resto senza compromettere la qualità di ciò che fa. Il problema è reale e non lo si aggira con altre logiche polivalenti. Se queste permettono di gestire situazioni sfumate e di assegnare gradi di appartenenza intermedi (per la fuzzy logic, un ventilatore può essere “abbastanza acceso” e non solo “acceso o spento”), non esiste una condizione intermedia tra il “preparare una lezione” e il “redigere l’ennesimo documento di monitoraggio”. Un docente non può essere al 40% concentrato su un testo da analizzare, al 40% in riunione, al 20% impegnato a rendicontare un’ attività preparata nello stesso arco di tempo. E’ una dimensione non solo quantitativa ma qualitativa: operazioni diverse richiedono livelli di attenzione e concentrazione che non possono essere sfumati o suddivisi in percentuali. Sfortunatamente, mi pare che il lavoro spirituale – che rimane l’attributo più consistente della figura docente – sia diventato lavoro intellettuale e venga dunque pensato per quello che non è – un insieme di competenze amministrative e gestionali –, quando non come un processo meccanico e in fondo ripetitivo che si può interrompere e riprendere senza perdere qualità.

Forse si potrebbe gettare la maschera, dichiarare nudo il re e dire l’indicibile. Dichiarare una buona volta che in una scuola-trincea il pragmatismo (Dewey perdonaci) impone di dare priorità – e dunque verità – ad urgenze di carattere tecnico. Che è necessario essere connessi con l’esterno mentre si sta in classe – diversamente, si verrà raggiunti comunque –, che è normale essere interrotti sei volte all’ora durante l’attività in aula, che ritrovarsi finalmente in un consiglio di classe per parlare dei problemi dei ragazzi è senz’altro importante, ma un po’ meno della preparazione di un calendario delle attività che devono iniziare il giorno dopo. Chi scrive, tuttavia, si ostina a pensarla diversamente. Combattere le contingenze è importante, ma affrontarle conservando un sguardo verso il futuro – curare autenticamente l’ora di lezione, richiamando in parte il senso del testo di Massimo Recalcati – è una scelta coraggiosa cui non bisognerebbe sottrarsi.

Burocratizzazione inefficiente e disintegrazione del ruolo docente, dunque. Accanto a queste, una tendenza più insidiosa e non priva di conseguenze: in una società governata da infocrazia a buon mercato e nella quale la scuola ha patito la perdita di centralità educativa – le responsabilità vanno distribuite, qui non si vuole ragionare in merito –, mi sembra che l’inevitabile disorientamento abbia prodotto una reazione scomposta, un’offerta formativa che si potrebbe definire bulimica. L’istituzione scolastica si è riproposta non solo come sede educativa indispensabile, ma come unico luogo realmente formativo, assorbendo in sé ogni esperienza possibile: corsi di preparazione per certificazioni linguistiche e informatiche, incontri con autori e università, progetti di motricità fine, teatro, coding, mindfulness, gestione dello stress. Anche qui, è utile intendersi: non si vuole giudicare la bontà di queste iniziative, né si intende negarne il valore nella loro singolarità. Spesso, tuttavia, vengono proposte tutte insieme, e non di rado gli studenti si trovano a partecipare, eterodiretti, a più di una di esse.

Certamente vi sono cause estrinseche: i fondi strutturali europei, disponibili con l’integrazione italiana nel mercato unico, e ancor più quelli del PNRR, hanno dato, negli ultimi vent’anni, possibilità di intercettare cospicui finanziamenti con i quali arricchire l’offerta formativa. Tuttavia, mi pare che le risorse economiche non siano altro che strumento col quale una scuola disorientata ha colto l’occasione per trasformare il proprio conatus sese conservandi, istinto di autoconservazione, in volontà di potenza, ampliando senza sosta i suoi orizzonti per affermarsi come luogo assoluto della formazione.

Questo accentramento formativo ipertrofico comporta un grave pericolo: sottrarre progressivamente ai ragazzi la libertà di gestire il proprio tempo e il proprio spazio privato. Nella quotidianità di ogni docente accade non di rado di accogliere l’infiacchita malinconia di studenti, tristi di non poter far visita ai nonni come vorrebbero, non aver tempo di suonare uno strumento o non poter trascorrere gran parte della giornata in qualsiasi altro luogo che non sia un’aula scolastica. La questione mi pare seria: dietro l’accentramento gestionale si cela una diffusa sfiducia nei giovani, come se, lasciati liberi, questi si perdessero inevitabilmente per le vie del mondo – consumandosi il pollice sui social, scorrazzando con disinvolte compagnie, dedicandosi a campi di battaglia virtuali–. Tale presunzione di irresponsabilità contraddice però non solo il fine ultimo dell’educazione – rendere gli studenti capaci di valutare e scegliere autonomamente – ma anche i mezzi con i quali tendere al nobile obiettivo: alla libertà e alla responsabilità si giunge solo assaporandole, disponendo gradualmente di tempo e ruoli per discernere, ponderare, sbagliare. Per un insegnante, un educatore, un familiare è certamente faticoso sottrarsi alla tentazione del potere sulle anime, di cui parlava Luigi Giussani: decidere per l’altro, imporre il desiderio di ciò che riteniamo essere il meglio per lui. Occorrerebbe tuttavia sostenere la libertà: riconoscere, nel cammino adolescenziale, un perimetro di progressiva autodeterminazione e approfondire, con serietà, il rispetto delle decisioni. Non ci può essere felicità e realizzazione se non attraverso scelte libere: pochi contesti esistenziali sono così ardui da gestire come vivere un destino non riconosciuto e accettato.

Libertà relativa, ma condivisa. Espressione individuale che trova spazio all’interno di una cornice di riferimento. Equilibrio fragile tra rispetto delle strutture e interazione con l’altro. Da modesto musicista, vedo nella musica, e in particolare nel jazz, una metafora per raccontare qualcosa sulla scuola, sulla figura del docente e sul rapporto con gli studenti.

Nel jazz, il musicista deve possedere una solidissima base tecnica e teorica. L’improvvisazione, suo elemento pulsante, non è un atto casuale ma il frutto di anni di studio, conoscenze affinate ed esercizi incessanti. Del resto, spesso si sviluppa all’interno di una struttura prestabilita, come una progressione armonica (ad esempio, il giro di accordi di un blues) o una forma musicale. Allo stesso modo, la figura dell’insegnante non può prescindere da un dominio profondo della propria disciplina. La competenza, oggi, sembra troppo spesso essere relegata a piano interrato, soppiantata da pratiche applicative vuote o, peggio, dall’idea che la passione – concetto vicino a quello più classico di “vocazione”, tanto nell’etimologia quanto nel significato – possa in fondo compensare una preparazione poco accurata. Tuttavia l’insegnante che si affida soltanto alla buona volontà e all’improvvisazione pedagogica, senza una preparazione solida e rigorosa, costantemente alimentata dalla ricerca, rischia di perdere il ritmo del processo educativo. Improvvisare, dunque, ma sostenuti da solida preparazione e da profonda conoscenza del proprio strumento.

Nella sua forma più rigida (mi scuso con i cultori della materia per le semplificazioni), il jazz ruota attorno a un solista che conduce i membri del gruppo, i quali lo accompagnano nella creazione del contesto ritmico e armonico. In una versione più sperimentale i ruoli diventano fluidi, l’improvvisazione si sviluppa in modo collettivo, in cui ogni strumento può emergere e guidare temporaneamente il discorso musicale. Nella sua forma più equilibrata e in un certo senso essenziale, non vi è leadership assoluta né sostanziale parità, ma un equilibrio tra direzione e interazione. Il musicista principale guida e, a tratti, arretra, lasciando spazio agli altri strumenti che a loro volta prendono l’iniziativa: il pianista può introdurre variazioni armoniche che ispirano il solista, il batterista può inserire accenti ritmici che spingono la musica in nuove direzioni, talvolta incerte, ma che trovano la propria coerenza nel dialogo continuo tra i componenti del gruppo.

Analogamente, il percorso e gli stimoli che l’insegnante propone non possono essere unidirezionali. Senza dismettere il proprio ruolo, è necessario accordarsi con gli studenti: comprendere quando guidare in senso forte, quando seguire le riflessioni degli allievi al punto da rimodellare in corso d’opera struttura e temi della lezione, quando prevedere un’improvvisazione estrema, creando il contesto perché ogni studente possa compartecipare a un lavoro condiviso, suonando il proprio strumento.

Libertà, dunque, non come assenza di regole, ma come delicato e fluido equilibrio tra una struttura e la possibilità di deviare dalla traccia prestabilita. Per un insegnante significa tollerare – quando non favorire – deviazioni rispetto alla norma, e saperle valorizzare affinché diventino parte integrante del percorso formativo: né un’introduzione forzata di tecniche innovative, né un ancorarsi disperato a modelli educativi precostituiti, ma capacità di cogliere la specificità di ogni contesto nel quale si è immersi. Riconoscere le spontanee differenze tra classi, istituti, indirizzi, luoghi diversi. L’atto del riconoscimento è senz’altro una questione decisiva: è il momento nel quale l’uomo della fenomenologia hegeliana esce fuori di sé, incontrando sul piano pratico, quello delle relazioni umane, l’altro da sé. Un incontro costitutivamente conflittuale, nel quale la medesima esigenza di due soggettività, parimenti libere, di essere riconosciute, produce un rapporto di asservimento di una verso l’altra.

Nella relazione educativa, in particolare con adolescenti che spesso vivono le contraddizioni della loro età – il travaglio del negativo, prendendo ancora in prestito l’Hegel della Fenomenologia – il riconoscimento è certo momento cruciale ma, azzardo con infinita prudenza, in un modo diverso da quello immaginato da Hegel. I giovani chiedono di essere visti, ascoltati, considerati, e non necessariamente ciò si traduce, attraverso la lotta, in un asservimento (dell’una o dell’altra parte). La loro richiesta è quella di un’attenzione autentica, di un riconoscimento che non si gioca sul terreno del dominio, ma su quello della presenza e della comprensione. I molti docenti che non hanno emotivamente abbandonato la trincea potrebbero forse cercare di ridurre gli spazi di fisiologica conflittualità, talvolta – va detto – alimentati da fragili esigenze di conferma e continue richieste di legittimazione–. L’esistenza è un labirinto dagli equilibri delicati, ma l’adulto, si riconoscerà, non dovrebbe trovarsi in una fase “acuta” di costruzione del proprio io. Tale consapevolezza apre alla possibilità di una dialettica educativa differente, dove la necessità di affermazione personale – che a volte spinge a confondersi con gli studenti, adottandone linguaggi e posture nel tentativo di conquistarne il favore: leggasi “adultescenza” – cede il passo al riconoscimento delle esigenze esistenziali e formative degli studenti.

La rinegoziazione del rapporto educativo assume così un ruolo fondamentale: la relazione fra docente e studente diventa un processo definito ma più fluido, in cui le strutture del sapere e dell’insegnamento si adattano alle esperienze vissute, alle riflessioni e alle intuizioni degli allievi, creando uno spazio in cui l’apprendimento si trasforma in un’esperienza comune, non in un atto unilaterale. Dewey lo sosteneva già negli anni trenta del secolo scorso: un suggerimento che, a distanza di quasi novant’anni, resta attuale e ancora largamente incompreso.

Eppure, se il cuore della scuola risiede nel dialogo fra strutture e libertà, fra metodo e creatività, fra regole e deviazioni, allora esiste forse un’immagine più fedele del rapporto educativo rispetto alla dialettica servo-padrone: quella del jazz. La sua peculiare dialettica fra ordine e improvvisazione non è solo una metafora efficace, ma anche un modello da approfondire per una scuola che voglia ripensarsi davvero nelle sue dinamiche fondanti. Curiosamente, mentre scrivo, apprendo di uno studio che evidenzia come, nella musica moderna, le strutture armoniche si stiano progressivamente semplificando, mentre il jazz rappresenta un punto di resistenza, conservando una complessità strutturale e creativa che lo rende ancora oggi un esempio di profondità e riflessione, in contrasto con la superficialità di molti altri generi musicali. Questa sua capacità, pur evolvendosi, di resistere alla banalizzazione di una certa cultura e tecnologia, lo rende simbolo, strumento concettuale di una scuola che scommette nella potenza della creatività dentro strutture solide e nella libertà che non si dissolve in caos indistinto, notte in cui tutte le vacche sono nere.

Ma tra un report, una scheda di monitoraggio e un corso di problem solving emotivo, chi ci pensa più?

Loading