Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a
G. Falanga, Laboratorio Stasi. Vite prigioniere negli archivi della Germania Est
Feltrinelli, Milano 2021, pp. 416, €22.00.

Il 21 giugno 2021 Angela Merkel ha inaugurato a Berlino il Dokumentationszentrum Flucht, Verteibung, Versöhnung dedicato alla documentazione storica dell’espulsione di quattordici milioni di tedeschi nel 1945-49 dalle marche orientali dell’ex Terzo Reich e, più in generale, delle forzate migrazioni di massa (India, Vietnam, Birmania) avvenute nel Novecento. Singolarmente, il nuovo Dokumentationszentrum si occupa ben poco di quei profughi che per motivi eminentemente politici furono costretti ad abbandonare la Repubblica Democratica Tedesca. La ragione di questa trascuratezza può forse rinvenirsi nel fatto che la fuga dalla Ddr non assunse mai dimensioni di massa (tranne che nell’estate 1989). Ma il motivo più profondo risiede altrove.

Si fatica oggi in Germania, e soprattutto nei Länder orientali, a riconsiderare con serenità l’esperienza storica, sociale e soprattutto antropologica della Ddr. Le generazioni più anziane, vissute sotto i regimi di Ulbricht e Honecker, solitamente preferiscono rimuovere quel passato. Chi non lo fa, o è spinto da nostalgia (“nella Ddr non si viveva poi così male”), oppure vuol serbarne la memoria come monito per le nuove generazioni perché queste nulla sanno di cosa fu davvero la Ddr.

L’irrisolto rapporto dei tedesco-orientali con il recente passato accompagna come sottofondo la lettura di ogni pagina del bellissimo Laboratorio Stasi di Gianluca Falanga. Quel che l’Autore, libero ricercatore residente a Berlino, oggi ci regala non è un trattato politologico sul totalitarismo comunista né la descrizione istituzionale della Ddr e dei suoi ingranaggi di repressione.  Falanga mostra attenzione al lato umano della vicenda e lo fa per il tramite di tre comuni cittadini della Ddr (Baldur, Gilbert e Andreas) che in diverse epoche subirono le vessazioni, lo spionaggio e l’imprigionamento ad opera della Stasi. Si badi bene: storie vere, non romanzate. I tre protagonisti sono persone in carne e ossa che, come altre centinaia di migliaia di cittadini dell’ex Ddr, nel 1992 ebbero accesso ai propri fascicoli personali conservati negli archivi della Stasi e potettero ricostruire il proprio passato così come spiato, manipolato e largamente determinato dall’avversario, dove per avversario si deve intendere non il regime astratto ma uomini e donne ben precisi e identificabili. L’accesso agli archivi della Stasi – richiesto a gran voce dall’opinione pubblica – segnò davvero «lo squadernamento al popolo dei segreti di un regime subito dopo la sua fine» (p. 29).

Il dato iniziale è impressionante: si stima che più di un terzo dei cittadini dell’ex Ddr sia stato oggetto delle attenzioni dei Servizi Segreti; un terzo della popolazione schedato, pedinato, in molti casi deliberatamente ma occultamente condizionato nel posto di lavoro, nella vita privata e persino in famiglia. Nei casi estremi il cittadino spiato subiva l’incriminazione, il processo e la condanna al carcere. Tutto questo è noto e accomuna nella medesima prassi i vari regimi del socialismo reale. Risulta invece meno noto cosa debba concretamente intendersi per quei “casi estremi” che giustificavano nella Ddr non soltanto la schedatura e lo spionaggio ma anche l’imprigionamento e la rieducazione politica. A tal proposito le vicende di Baldur, Gilbert e Andreas, ricostruite con dovizia di particolari e vivacità di impressioni, sono esemplari. Vediamole brevemente.

Baldur aveva vent’anni quando, il 13 gennaio 1959, la Stasi lo arrestò. Leggendo nel 1992 il fascicolo personale egli apprese di essere stato sorvegliato sin dal 1957, quando una sua innocua lettera spedita in Germania occidentale venne intercettata. Da allora i solerti funzionari della Stasi gli sarebbero stati implacabilmente alle calcagna. Lo avrebbero occultamente sorvegliato sul posto di lavoro; gli avrebbero sistematicamente controllato la corrispondenza epistolare; lo avrebbero radiografato persino come membro della Fdj, il movimento giovanile del partito cui Baldur, come tanti, si era iscritto per conformismo. Ma cruciale per il suo arresto fu un libro: 1984. Rainer, un ragazzo della Germania Ovest conosciuto a Erfurt in occasione di un incontro internazionale di movimenti giovanili progressisti, gli aveva parlato del totalitarismo. Totalitarismo? Baldur non aveva mai sentito questa parola e faceva fatica a capire cosa significasse. Rainer si era impegnato a spedirgli dei libri che gli avrebbero chiarito meglio a cosa si stesse riferendo. E fu così che Baldur ricevette dall’ovest 1984 di Orwell e La nuova classe di Gilas. Nelle biblioteche della Ddr esistevano intere sezioni di volumi interdetti al pubblico ma nessun Indice ufficiale dei libri proibiti. Nel 1958 Orwell nella Ddr era completamente ignorato; solo qualche anno dopo i libri di questo “trotzkista” sarebbero stati ufficialmente bollati quale «becera letteratura antisocialista occidentale della peggior specie» (p. 148).

1984 scatenò in Baldur «una forza incontenibile», gli innescò «una fuga liberatoria, come un temporale purificatore» (p. 154). Da allora egli si identificò con Winston, il protagonista del romanzo distopico. Quell’esemplare di 1984 segnò il destino del giovane: fu sottoposto a interrogatorio, a processo e a due anni e mezzo di carcere duro. In un suggestivo gioco di rimandi ai personaggi e alle vicende di 1984, Falanga ricostruisce la disavventura di Baldur, gli interrogatori continui e pressanti, il processo-farsa e, in definitiva, il vero crimine di cui il giovane si era macchiato: lo psico-reato. Aveva compreso che nella Ddr «tutti devono essere uguali, non c’è posto nella società socialista per il pensiero o l’azione indipendenti, l’individuo deve diluirsi nella uniformità collettiva» (p. 194).

Gilbert venne incriminato nel 1985 per aver frequentato gli ambienti della cultura giovanile alternativa a Berlino Est e per aver documentato in calendari fotografici gli stili di vita eterodossi di questi giovani. Le pagine dedicate da Falanga alla storia di Gilbert sono profonde e aprono squarci non tanto al raccapriccio (il regime della tarda Ddr era troppo grigio e burocratico per elevarsi alle luciferine altezze del terrore stalinista), quanto a una angosciosa sensazione di impotenza rispetto agli oliati meccanismi di funzionamento della macchina repressiva.

Ma in queste pagine colpisce soprattutto il confronto tra vittima e carnefice: tra Gilbert e Wolfgang Mascher, il funzionario della Stasi che lo interrogò e lo fece condannare. Incontratolo quasi per caso dopo il 1989, Gilbert instaura un dialogo con Mascher, ormai ex funzionario caduto in disgrazia. Falanga ha il merito di ricostruire questo dialogo con rara finezza psicologica; nell’immaginario collettivo il  funzionario della Stasi era un uomo «di scarsa empatia, debole cultura generale, orizzonti di pensiero ristretti e il paraocchi dell’ideologia incorporato». Spesso era davvero così, ma non nel caso di Mascher. O almeno non completamente. Costui, efficientissimo ingranaggio della macchina repressiva, per anni aveva mandato in galera i nemici del socialismo («sono stato educato e formato ai valori dell’etica e del patriottismo socialista. Difendere il nostro ordinamento politico da attività criminali mi pareva una cosa onorevole», dichiara lo stesso Mascher a Gilbert, p. 122). Egli era sempre stato socialista, aveva atteso tutta la vita la realizzazione del comunismo, convinto che quella del socialismo burocratico delle Ddr fosse una tappa necessaria sulla via della piena realizzazione di un progetto politico palingenetico. Agli occhi di Mascher (persona di per sé corretta, sensibile e colta) la vita del singolo non assumeva alcuna importanza di fronte allo Stato socialista. La colossale statua di Lenin nella vicina Leninplatz aveva vegliato a lungo sui complessi residenziali dei Plattenbauten, dove Mascher viveva. Ma adesso quel mondo era crollato, la statua rimossa (come non ricordare la celebre scena del lungometraggio Good Bye Lenin?) e Mascher aveva perduto ogni ruolo nella nuova società, finendo anzi lui stesso sotto processo. Aveva creduto nella Ddr, nella sicurezza sociale (mediocre ma rassicurante) senza rendersi conto del costo pagato (e che lui aveva fatto pagare ad altri). Ma al termine della sua vicenda (sarebbe morto di lì a poco), pur con dignità e senza rinnegare la propria vita passata, aveva dichiarato a Gilbert di provare vergogna e di sentirsi colpevole per aver svolto il ruolo di «volenteroso carnefice di una morale pervertita, di un’utopia spietata» (p. 385).

Andreas venne incriminato nel 1986 (appena tre anni prima della caduta del muro) per un tentativo di fuga all’ovest attraverso la frontiera cecoslovacca. Poco prima gli era stato negato il visto di imbarco (come personale di bordo) sulla marina mercantile. Con la negazione del visto ora «sapeva di abitare in una galera a cielo aperto», la Ddr (p. 87). La storia di Andreas  illumina la capillarità dello sforzo di spionaggio della Stasi. Si calcola che la Stasi, ancora nel 1988-89, si servisse di oltre seicentomila informatori e confidenti  per controllare negli ambienti più disparati gli oppositori veri o immaginari. I confidenti formavano «una fittissima rete di microspionaggio intessuta per tenere in scacco la popolazione»  (p. 342). I funzionari della Stasi si spiavano persino tra di loro. È difficile, col senno del poi, esprimere un netto giudizio sugli informatori della Stasi. Complici dei carnefici o vittime anch’essi?

Chi decideva di collaborare con la Stasi lo faceva perché spinto da vari motivi: promessa di piccoli vantaggi materiali; zelo socialista (per i più idealisti); ma anche perché a sua volta ricattato dalla Stasi e quindi costretto a collaborare per evitare guai col potere. Andreas, consultando il proprio fascicolo, apprese di essere stato costantemente spiato da un certo “Joachim” (nome in codice) il quale, a leggere le relazioni meticolosamente registrate nel fascicolo, doveva conoscere molto bene la propria vittima. E infatti non gli ci volle molto a capire che l’informatore Joachim altro non era che suo padre.

Falanga sottolinea il disastro antropologico causato dai quarant’anni della Ddr (una «Auschwitz delle anime, una strage di anime violentate e lacerate per decenni nel silenzio», p. 90). Il caso di Andreas nei rapporti col padre-informatore lumeggia esemplarmente questo aspetto del problema. L’ultimo capitolo del volume è dedicato al postumo tentativo di giustificazione del padre di Andreas: il genitore, intervistato sulla vicenda, in realtà neppure cerca di scusarsi perché egli non ebbe mai alcuna intenzione di porsi contro la Ddr. Tra la lealtà al regime e alla Stasi e lo spionaggio e poi l’abbandono del figlio, egli aveva optato in piena scienza e coscienza per la prima alternativa.

Il padre di Andreas: cittadino modello della Ddr e, proprio per questo, catastrofe antropologica del socialismo reale. Il libro di Falanga, meglio di molti saggi di erudizione storica e di politologia, ci aiuta ad afferrare l’essenza della Ddr e il suo lascito esistenziale.

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