Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Accade sovente nel nostro Paese, forse non solo da noi, che dinanzi a casi di cronaca nera particolarmente efferati o fenomeni criminali di eccezionale rilevanza, scatti quasi come riflesso pavloviano il richiamo alla scuola come soluzione. A seconda dei casi, questa dovrebbe attivare percorsi di “educazione alla legalità”, “educazione sessuale”, “educazione affettiva” e così via. Alcuni addirittura si spingono a dire  ̶  cito una giornalista di un prestigioso quotidiano  ̶  che tali questioni dovrebbero costituire l’oggetto non di corsi o giornate ma di vere e proprie materie scolastiche: magari pure con compiti in classe e interrogazioni, aggiungo io. Tra l’altro, faccio notare di passaggio come nell’orizzonte di tali richieste spesso manchino quasi del tutto le famiglie o altre comunità sociali (associazioni, gruppi, movimenti), come se la scuola potesse da sé sola caricarsi il peso di tutta la formazione di una persona.

Ora, possiamo comprendere come sull’onda dell’indignazione per tragedie immense o fenomeni criminali che coinvolgono giovanissimi, le reazioni non siano sempre le più ragionevoli possibili. Ci può anche stare. Tralascio, inoltre, la problematicità intrinseca dell’educazione quando è aggettivata (educazione sessuale, educazione emotiva, ecc.): la persona, infatti, è un’unitotalità, e ciò dovrebbe suggerire sempre una buona dose di parsimonia nella pur necessaria parcellizzazione della proposta educativa. C’è però un aspetto che mi interessa qui evidenziare. Chiedere compulsivamente l’aggiunta di specifiche offerte educative agli ordinari curricula scolastici credo implichi  ̶  anche se forse non ce ne rendiamo troppo conto  ̶  una profonda incomprensione dei contenuti di quegli stessi curricula scolastici.

Non voglio essere frainteso né passare per manicheo: se la scuola può usufruire di contenuti puntuali che arricchiscono il cammino ordinario, ciò è in sé un fatto positivo e infatti la programmazione degli istituti integra già tali possibilità. Il problema, però, è che la richiesta periodica di addizioni specifiche sembra ignorare il fatto che Omero, Dante, Shakespeare, Pascal, Kant, Arendt, Leopardi ecc., hanno già molto di serio da dire su emozioni, affetti, doveri, diritti, bene e male, sessualità.

Le splendide pagine di un Platone su Eros, Agape e Philia del Simposio, o quelle del cosiddetto mito della biga alata, dello stesso autore, dedicate alla sophrosyne (temperanza), sono solo un insieme di dati culturali da imparare oppure possono rappresentare strumenti utili per contribuire all’educazione affettiva degli alunni? E cosa dire dell’Etica Nicomachea di Aristotele? È abbastanza certo, tra l’altro, che fu dedicata dal filosofo al figlio: dunque non un trattato da tenere in salotto e da spolverare di tanto in tanto, ma una via per accompagnare un giovane alla ricerca della felicità e del bene, di sé e degli altri. Tale ricerca, insegna lo Stagirita, passa dalla difficile ma esaltante avventura dell’acquisto di un habitus: al bene ci si esercita, non ci si improvvisa rispettosi dell’altro, sia questi il vicino di casa o una partner che sceglie di separarsi da noi. È spesso dalle buone abitudini che può venire la riuscita o meno di un rapporto, di un’impresa, la realizzazione di un sogno o il naufragio. Come non chiamare in causa Agostino, voce in genere amata dai giovani studenti. Il suo celebre «ama è fa ciò che vuoi» non è il manifesto del libertinaggio ma l’indicazione di un imperativo dato alla nostra libertà: radica la volontà nell’amore. E l’amore, ancora, non è il pathos del piacere egoriferito ma il riconoscimento di un ordine del bene che ci strappa dal nostro autismo emotivo.

Sì, c’è una giustizia degli affetti alla quale educare la sensibilità dello spirito (anche lo spirito è sensibile, non solo il corpo): non tutti i beni sono uguali e l’educazione tenta di introdurci all’arte di distinguerli senza mortificarli. Tale sensibilità sa distinguere tra l’emozione, che sarebbe l’effetto che in noi provoca un certo fenomeno, dal sentimento, che è l’interpretazione di quella emozione: cosa ne faccio di questa rabbia che sto sentendo? Cosa ne faccio dell’attrazione che provo per questa persona? Come vivo la tristezza che mi trafigge il cuore? E la gioia che mi procura questa esperienza? Chiunque sia coinvolto nell’avventura umana sa che dalla buona risposta a queste domande può venire la rovina o meno di una persona. È solo se a tali quesiti si risponde nell’ottica dell’amore inteso come sopra, ci insegna Agostino, che si gode pienamente dei frutti della vita.

Quale ricchezza si schiude a noi nelle pagine del Secretum di Francesco Petrarca, nelle quali il poeta depositò il labirinto della sua anima, tormentata e salvata nello stesso tempo dall’amore per Laura, e in cui si inscena un drammatico dibattito tra Petrarca stesso, sant’Agostino e la Verità? Per non parlare del superbo e tragico campionario delle passioni e delle miserie umane dell’Otello di Shakespeare.

Quanto di prezioso si può trarre, per andare a secoli cronologicamente più vicini a noi, dalle straordinarie righe dedicate da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito al “negativo”?

Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte – scrive il filosofo di Stoccarda  ̶  schiava della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. […] Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere.

Nessuno può progredire nel cammino dell’esistenza se non sperimenta le proprie “morti”, se non accetta di passare attraverso la contraddizione, il travaglio, l’accettazione della parzialità della propria singolarità, dice Hegel.

Quelli appena ricordati sono solo pochissimi richiami rispetto allo sterminato mare di strumenti di cui si dispone per poter parlare ai ragazzi di emozioni, sentimenti, sessualità, diritti e doveri. Per scendere negli abissi dell’animo umano e risalire. Per riflettere e interrogarsi su ciò che si muove in ciascuno di noi, del buio e della luce che ci abitano. C’è materiale incandescente nei programmi scolastici. Pretendere continuamente che a questo si sommino corsi, giornate, percorsi, laboratori, non solo, come già anticipato, dimentica la ricchezza già presente, ma in più rischia di mandare un messaggio devastante alle alunne e agli alunni, che suona più o meno così: “Quello che studi in fondo non serve a educare la tua umanità ma solo ad aumentare il livello della tua erudizione. Per tutto ciò che riguarda le tue relazioni, le tue emozioni, le tue frustrazioni, la fatica che fai per venire a capo della tua esistenza, Pavese e Dostoevskij non ti possono veramente aiutare. Quando il gioco si fa duro, la scuola avvia un corso extra”. Si tratterebbe di un messaggio assai paradossale: una scuola che insiste molto sulle “competenze”, vale a dire sul “sapere in azione”, come può accettare che proprio su competenze così importanti come quelle affettive, Manzoni o Sofocle siano dichiarati de facto inutili?

Prima dell’attivazione di ulteriori percorsi didattici, di altra burocrazia, di altre “esperienze formative”, ciò che innanzitutto dovremmo chiedere alla scuola  ̶  e in quanto insegnante lo pretendo da me stesso  ̶  è che il sapere sia sempre connesso alla vita, che lo scrigno di doni racchiuso nelle pagine di filosofi, scrittori, scienziati, artisti, serva a ciò per cui è stato creato: vivere meglio insieme.

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