Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Il rapporto del lettore con i personaggi di fantasia non è tanto una questione di identificazione, come si insegnava un tempo, quanto piuttosto quella che Marcel Proust chiama metempsicosi: la reincarnazione nel corpo, estraneo, di un altro. Per non rimanere nell’astratto, si tratta di una metempsicosi voluta, qualcosa che si va a cercare ogni volta che si apre un romanzo, in un atto di quella che Henry James chiamava immersione. Ma, ancora una volta, il significato di tutto ciò deve essere ulteriormente analizzato per comprendere il valore cognitivo ed etico degli esseri di fantasia.
L’interesse di alcuni romanzieri, come ad esempio Proust, Italo Calvino, Milan Kundera, Björn Larsson, Antonio Tabucchi per la letteratura come strumento ottico, ricorda le parole del darwinista Joseph Carroll, tratte dall’articolo The Adaptive Function of Literature: «la letteratura e le altri arti sono strumenti di orientamento, come le bussole, i sestanti e i sonar, e sono vitali per lo sviluppo personale, per l’integrazione delle identità individuali all’interno di un ordine culturale e per l’adattamento immaginativo dell’individuo all’intero mondo più ampio in cui vive» (2007, p. 31). E con Proust, dall’ultimo volume de La Recherche: «In realtà, ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera è solo una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso» (p. 424).
Nel primo volume de La Recherche, si trovano delle affermazioni che forniscono una maggiore densità al concetto di metempsicosi per come viene utilizzato da Proust. Egli afferma che
Tutti i sentimenti che la gioia o la sventura di un personaggio reale ci fanno provare non si producono in noi che per il tramite di un’immagine di tale gioia o di tale sventura; il colpo di genio del primo romanziere fu proprio quello di comprendere che nel meccanismo delle nostre emozioni l’immagine è l’unico elemento essenziale, e che la semplificazione consistente nella pura e semplice soppressione dei personaggi reali avrebbe dunque costituito un perfezionamento decisivo […]. Che importa allora se le azioni, le emozioni di questi individui d’un genere nuovo ci appaiono come vere, dal momento che le abbiamo fatte nostre, dal momento che è in noi che esse si producono e che è da loro che dipendono, mentre voltiamo febbrilmente le pagine del libro, la rapidità del nostro respiro e l’intensità del nostro sguardo? (pp. 282-283).
Quanto sostenuto sino ad ora tornerà, ripetutamente, lungo tutto il Novecento fino ad oggi, nelle parole di romanzieri e di ricercatori nei campi delle scienze umane. Infatti, il rapporto che instaura il lettore con l’opera letteraria e più generalmente il fruitore con l’opera artistica, è un tema che negli ultimi decenni ha visto l’attenzione di molte discipline: psicologia, pedagogia, teoria della letteratura, neuroscienze sono solo alcune di questo vasto “arcipelago”.
Come evidenziato nel titolo del presente contributo, le parole di Proust riecheggiano fortemente durante la lettura di tre saggi di Antonio Tabucchi: La gastrite di Platone (1997), Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema (2013) e Zig Zag. Conversazioni con Carlos Gumpert e Anteos Chrysostomidis (2022). In particolare, nel terzo, Tabucchi osserva:
sono pienamente convinto che la letteratura sia una forma di conoscenza, diversa, se si vuole, dalla conoscenza scientifica, logica o esatta. D’altra parte non sono stato certo io il primo a esporre tale convinzione. Molti scrittori e filosofi, come Bloch o Zambrano, l’hanno formulata prima di me. Attraverso la letteratura si amplia la nostra conoscenza della vita del mondo. Come dice Zambrano, si tratta di una forma di conoscenza congetturale e creativa, diversa dalla conoscenza razionale e non traducibile in essa, ma che tuttavia la precede e la sostiene, e senza la quale la conoscenza razionale rimarrebbe in uno stato fluttuante, per quanto grandi possono essere la sua precisione e la sua chiarezza entrambe le forme di conoscenza hanno bisogno l’una dell’altra. […] Anche nel campo della scienza non mancano certo elementi creativi: tra i fisici, per esempio, ci sono sempre stati scienziati con intuizioni creative, sebbene forse più frequenti in giovane età, perché col passare del tempo tale fase creativa sembra venire abbandonata, a favore di una più sistematica. In ogni caso, è su tali intuizioni creative che si basano le teorie scientifiche, e siamo dunque in presenza, anche in questo caso, di una forma di conoscenza creativa (pp. 222-223).
In effetti, anche se spesso viene scambiata per una credenza infantile, i personaggi letterari come, per esempio, Madame Bovary e il Principe Myskin, o i più recenti William Stoner e Adso da Melk, sembrano al lettore che è rimasto in loro compagnia per qualche tempo molto più vivi e presenti di un qualsiasi essere umano, in carne e ossa, mai incontrato. In questo senso, anche le neuroscienze hanno indagato e continuano ad indagare il ruolo presente (e attivo) di questi esseri di fantasia nella vita quotidiana delle persone. Vittorio Gallese insieme a Michele Guerra (2015) e Ugo Morelli (2024) parla di simulazione incarnata e di simulazione liberata.
Per quanto riguarda la simulazione incarnata, si tratta di un meccanismo funzionale di base del nostro cervello grazie al quale è possibile riusare parte delle risorse neurali che normalmente si utilizzano per interagire col mondo, modellando il rapporto e le relazioni stabilite con esso. Un soggetto può comprendere il senso di molti comportamenti e delle esperienze altrui grazie al riuso degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le sue personali esperienze agentive, emozionali e sensoriali avvenute in prima persona. La simulazione incarnata è una chiave di lettura che spiega che l’approccio alla vita reale così come al film o più generalmente all’opera, si fondi su meccanismi percettivi e neurofisiologici in gran parte simili.
La simulazione liberata, invece, porta alla luce un fenomeno che può essere spiegato in maniera più complessa rispetto alla classica sospensione d’incredulità; l’esperienza estetica suscitata dalla lettura di un’opera letteraria o dalla visione di un film, può essere letta come il prodotto di un potenziamento dei meccanismi di rispecchiamento e simulazione. Si tratta di esperire l’amore, l’odio, l’inquietudine, il divertimento, la nostalgia, da una certa distanza di sicurezza. Dalla pedagogia alle neuroscienze, i ricercatori si sono espressi sottolineando il valore adattativo schiuso dalla possibilità di vivere e simulare mimeticamente (virtualmente, con tutto il corpo) le vicende umane. Una distanza di sicurezza tra noi e la pagina di carta, lo schermo, il marmo della scultura; questo, come viene ribadito da Gallese, rende la mimesi catartica, porta in gioco la naturale apertura mimetica al mondo che caratterizza anche l’essere umano.
Tutto questo ha delle considerevoli conseguenze sul piano auto-educativo. Infatti, se è vero che la pagina scritta o l’opera cinematografica si dà allo stesso modo a milioni di soggetti, è altrettanto vero, come rilevava Calvino in Cibernetica e fantasmi (1968), che l’opera è “morfospazio” del possibile, macchina che può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale, avente come risultato l’effetto particolare di una delle permutazioni sul singolo. Si tratta del racconto come mondo apparentemente chiuso, limitato, mappabile, e che cela invece un numero indefinito di mondi concepibili, che prendono avvio da un processo combinatorio, immaginale, attingendo al “golfo della molteplicità potenziale” di Giordano Bruno.
Nel post-scriptum a Zig Zag, Tabucchi scriveva all’amico Chrysostomidis: «è solo un piccolo privilegio concesso a coloro che scrivono, guardarsi restare e guardarsi partire» (p. 337). Forse si potrebbe sostituire “scrivono” con “leggono”.