Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.
Ma lo storico non deve modellare alcunché
A proposito di un’intervista a Donald Bloxham (e del suo ultimo libro)
Considerazioni attorno a Marcello Flores, Dare giudizi etici sul passato è giusto e utile, in «Lettura – Corriere della Sera», 2 agosto 2020, pp. 2-5.
Che lo scienziato sociale non possa pervenire a una rappresentazione oggettiva del tema preso in esame è cosa largamente condivisa. Che vi siano poi studiosi che considerano l’impossibilità di svestirsi completamente dei propri giudizi di valore come un limite della ricerca ed altri invece, segnatamente coloro che affidano a questa finalità extrascientifiche, come una sua ricchezza è opinione altrettanto diffusa. A tale ultima schiatta appartiene Donald Bloxham, che ha appena dato alle stampe per la Oxford University Press l’assai denso History and Morality, come segnalato sulla Lettura del «Corriere della Sera» dello scorso 2 agosto.
Intervistato da Marcello Flores, lo storico inglese non sembra però del tutto convincente nel suo tentativo di dimostrare che l’«opposizione tra comprensione e giudizio» sia «falsa». La «più diffusa varietà di relativismo morale – osserva Bloxham – afferma che non c’è modo di stabilire oggettivamente la superiorità di un sistema morale sugli altri. Qualunque siano i punti di forza di questa posizione in linea di principio, è in pratica irrilevante». Lo studioso di Birmingham, quindi, non si incarica di confutare quella tesi; fosse anche vera, per lo storico non cambierebbe nulla. Vediamo perché. Il relativismo intenderebbe solo negare che i giudizi espressi «abbiano basi convincenti per coloro le cui pratiche e valori vengono giudicati, il che è comunque irrilevante quando ci si riferisce al passato». La frase è un po’ ellittica. Sembra di capire però che Bloxham arrivi a concedere che chi giudica non sia necessariamente in grado di dimostrare al soggetto giudicato l’oggettività della propria valutazione, il che invece ci sembra rilevi eccome anche in relazione a fenomeni che pur appartenendo al passato rivelano ancora indubbie capacità di mobilitazione.
Se si ammette infatti l’impossibilità, come noi crediamo, di fondare scientificamente gerarchie di valori, ne consegue che lo storico, in quanto tale, potrà ad esempio solo comprendere ma non giudicare eticamente il fascismo storico come i neofascismi sorti fin dall’immediato secondo dopoguerra e che popolano ancora la ribalta politica italiana ed europea.
«Quando si parla di democrazia in un’assemblea popolare – osservava Weber in occasione della famosa conferenza universitaria tenuta nel corso del 1917 e poi pubblicata con il titolo Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione) – non si fa mistero delle proprie convinzioni personali. Anzi, proprio quello di prender partito in maniera esplicita e riconoscibile è il terribile compito e dovere di questo genere di riunioni. In esse le parole non sono strumenti dell’analisi scientifica, ma della lotta politica per conquistare l’opinione altrui. Non sono vomeri per dissodare il terreno del pensiero contemplativo, ma spade da usare contro gli avversari, strumenti di lotta. Utilizzare le parole in questo modo durante una lezione o in un’aula universitaria sarebbe sacrilego. Se per esempio si parla della “democrazia”, si procederà a studiarne le diverse forme, ad analizzare il modo in cui esse funzionano e a stabilire nei dettagli quali conseguenze comportino nelle condizioni di vita, quindi le si contrapporrà alle altre forme di ordinamento politico – quelle non democratiche – cercando di giungere fino al punto in cui l’ascoltatore è messo in grado di prendere posizione autonomamente in base ai propri ideali».
Lo studioso e docente di storia che dovesse allora ritenere ancora valida la lezione weberiana, in aula e nei suoi scritti scientifici dovrebbe ad esempio limitarsi, tenendo a freno il più possibile le reazioni emotive prodotte dal suo universo valoriale (la weberiana «intuizione del mondo»), a descrivere i regimi totalitari tra le due guerre, disinteressandosi delle valutazioni morali in merito maturate da discenti e lettori.
Bloxham nel suo lavoro (si rinvia al paragrafo History versus Social Science, pp. 88-90) ricorda come Weber affermi che la comprensione dei fenomeni e la formazione del giudizio valoriale su di essi sono due operazioni distinte, eterogenee; da ciò discenderebbe, sempre per lo studioso britannico, che quest’ultima non precluderebbe la prima. Weber, però, stigmatizzava il «maestro» non solo quando ex cathedra contrabbandava le proprie valutazioni morali come acquisizioni scientifiche ma anche quando si premurava di tenere distinte le due sfere in quanto tra le mura universitarie la sua unica missione scientifica avrebbe dovuto essere la trasmissione del sapere specialistico.
Ma l’inscindibilità tra ricerca scientifica e ammaestramento etico-politico e pedagogico è dichiarata apertamente da Bloxham. In riferimento, infatti, alla pratica sempre più diffusa di rimozione, quando non di demolizione, di statue e monumenti, lo storico inglese afferma che «se gli storici si aprissero agli aspetti valutativi del loro lavoro, sarebbero liberi di svolgere un ruolo costruttivo e competente nel modellare atteggiamenti di orgoglio o vergogna».
In effetti, lo storico ‘modellatore’, che dà forma ai comportamenti collettivi, è quanto di più distante dallo storico avalutativo e assiologicamente neutro weberiano.