Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

La miglior speranza di raggiungere una maturità emotiva […]
risiede nell’accettazione dei nostri limiti.
Ch. Lasch

È non solo ipotizzabile ma pure auspicabile una società migliore? In tal caso, quale fisionomia potrebbe o dovrebbe assumere?

Lasch non è primariamente un teorico propositivo e organico. Nei suoi lavori, la pars destruens assume un ruolo dirimente. Non articola, cioè, i contorni precisi, definiti e netti di una società alternativa. Suo interesse precipuo è la critica acuminata dei tratti di una società narcisistica e spaesata. Solo in The True and Only Heaven (1991), infatti, si avrà una maggior attenzione ad una proposta teorica costruttiva. In tale volume Lasch riprenderà l’idea sedimentatasi a partire dagli anni Settanta, secondo la quale per rivitalizzare una società democratica servirà recuperare la tradizione populista americana della fine del diciannovesimo secolo. Tuttavia, anche in The Culture of Narcissism qualche indicazione sulla pars contruens laschiana ci giunge.

Come si è avuto modo di vedere nei precedenti articoli, e come si constaterà nei prossimi, la sua è una posizione difficilmente incasellabile. Non è un caso, infatti, che egli rigettò i due contenitori divenuti vuoti di “destra” e di “sinistra”. Non solo egli trattò della condizione solitaria e anomica di una società che non concepisce più limiti e confini, senso della comunità e del radicamento, ma egli stesso fu un solitario, nella misura in cui le posizioni di profonda critica nei riguardi della sinistra gli fecero inimicare la sua stessa parte politica. Poco senso ha parlare nel suo caso di una visione che va “oltre la destra e la sinistra”, per citare un noto volume di Anthony Giddens. Nel momento in cui, ormai, il progresso si è erto a misura della società intera, che perciò abbraccia l’intero panorama politico, ogni concreta distinzione viene meno. La produzione e il consumo, la razionalità e la tecnica, hanno soppiantato l’esperienza politica della vita umana. La felicità non si costituisce più come quel sentimento, ora tiepido ora intenso, che si raggiunge attraverso semplici momenti vissuti in famiglia, con gli amici e in comunità. La gratificazione immediata promossa dalla società capitalistica, sembra dirci Lasch, ha guastato le condizioni basilari per poter provare ad essere felici. La sua ricerca, in buona sostanza, prevedeva un ritorno a condizioni realmente democratiche, a comunità piccole e decentrate, in cui le persone recuperassero la felicità di vivere e convivere assieme, ricostituendo il tessuto connettivo del capitale sociale, e senza farsi opprimere dalle pressanti e onnipervadenti logiche economicistiche della contemporaneità.

Certamente, egli rimase sempre legato ad una visione politica che semplicisticamente, e in parte anche impropriamente, si potrebbe definire “di sinistra”. Tuttavia, la sua attenzione alla dimensione educativa e al tema dell’autorità, all’importanza della proprietà e della relativa responsabilità maturata nel detenerla e preservarla, al ruolo dirimente svolto dalla libertà e della capacità individuale di limitare i propri appetiti, al rispetto del principio di radicamento e comunità con i derivanti obblighi e doveri di lealtà, ne fanno un pensatore per nulla avulso dal panorama conservatore. Nel suo pensiero il principale obiettivo polemico è, con tutta evidenza, il capitalismo. Ma egli impiegava il termine-concetto di “capitalismo” in modo molto ampio, come se questo fosse diventato il padrone del mondo. Relativamente a ciò, è evidente la prossimità con tradizionali temi di sinistra. Il capitalismo, ma in particolare quello delle grandi corporation, rende più disumano il mondo. Esso tende a risucchiare ogni rapporto fra persone e riduce queste alla stregua di mezzi. I capitalisti, osserva Lasch, sfruttano i lavoratori. Le grandi organizzazioni industriali impongono modelli di lavoro spersonalizzanti che svuotano le persone della propria personalità. Esistono ormai solo individui, ma deprivati di individualità: è come se l’essere umano fosse ormai prodotto in serie.

Lo specialismo ha sostituito il common sense in ogni ambito. Si viene così a creare una società della conoscenza che lascia poco spazio alla decisione individuale e, ancor più, alla possibilità di provare ed imparare dai propri errori. Inoltre, imponendo il consumo come finalità ultima della persona, la deprivano pure della capacità di cercare qualcosa nella propria vita che vada oltre l’aspetto edonistico e di gratificazione immediata. In sostanza, si viene a determinare un modello di società che non emerge dal basso, ma viene imposto dall’alto giacché, come egli nota, vanno saldandosi sempre più i legami stretti tra mondo industriale e mondo della politica. Gli individui, allora, difficilmente potranno cercare di crearsi il proprio spazio autonomo e libero, caratterizzato dalla solidarietà pre-politica ostile alle ingerenze della società degli esperti nel frattempo costituitasi. Per il loro bene, il paternalismo della società della conoscenza proibisce alcune strade e vieta alcune possibilità, invadendo letteralmente la dimensione privata e comunitaria nonché la capacità di discernimento morale che una democrazia richiederebbe.

In La cultura di narcisismo vi sono due passaggi nella parte finale del libro che sembrano orientare Lasch verso un superamento in senso socialista dell’ordine socio-politico. Nel primo, molto più esplicito, il sociologo avalla, ma senza argomentare diffusamente, che una società socialista promuoverebbe anche una maggior cooperazione tra uomini e donne, assorbendo così in sé la critica femminista all’esistente (pp. 228-229). Il punto nodale rimane comunque la critica – che sarà poi più elaborata in The True and Only Heaven (1991) – al paternalismo degli esperti che riducono i cittadini ad entità prive di quella capacità di decisione che peraltro le rende inadatte a vivere. Tale paternalismo, certamente evolutosi nel tempo ma poi non così distante da quello ritratto da Tocqueville, riduce al minimo o addirittura annulla gli spazi di autonomia morale e vita pre-politica, specialmente famigliare, degli individui e delle comunità.

Essendo mancato prematuramente nel 1994, egli non ebbe modo di vedere quanto la tecnologia si sarebbe evoluta ed espansa successivamente. Sarebbe interessante, se solo fosse possibile, ch’egli si esprimesse su The Age of Surveillance Capitalism scritto da Shoshana Zuboff (2018). È probabile che ne sarebbe entusiasta, sennonché, il neo principale dell’opera della studiosa, come a suo tempo di Lasch, è di criticare non tanto le degenerazioni del capitalismo, quanto il capitalismo in sé. Se Lasch avesse compreso che il modo migliore, ancorché imperfetto, di ridurre il potere di chiunque – sia esso persona, istituzione privata o pubblica – è disperderlo attraverso la decentralizzazione e la divisione della proprietà, non avrebbe forse auspicato una società socialista. Questa difficilmente potrà manifestarsi come una società in cui gli individui si autogovernino effettivamente, nella quale né lo stato né le imprese esistano. In tal caso, il potere verrebbe solo nascosto sotto il tappeto, per così dire. Certamente, il capitalismo può creare concentrazioni di ricchezza e potere. È probabile, come scriveva Lasch, che esso, se non adeguatamente frenato da un’educazione che promuova individui adulti e maturi non ottenebrati dal consumismo, divenga un corporate capitalism. Ma allora, ciò che servirebbe sono provvedimenti antimonopolistici volti a impedire la concentrazione di ricchezza e potere medesimi, come Wilhelm Röpke auspicò.

Non è un caso, peraltro, che, pur con formazione, sensibilità e oggetti di studio in parte differenti, i punti di contatto tra Lasch e il sociologo ed economista tedesco siano molteplici. Forse occorrerebbe, come pure entrambi sottolineavano, focalizzarsi sul primo mattone della società, ovvero l’educazione. È da qui che si parte, giacché senza la spina dorsale il corpo non sta in piedi. Se è essenziale, come diceva Sheldon Wolin in Politics and Vision (1960, versione ampliata 2004 e 2016), teorico politico a cui Lasch fu vicino negli anni della collaborazione alla rivista fondata dallo stesso Wolin, «Democracy» (1981-1983), che la politica abbia “visione”, è parimenti necessario che, prima della visione, vi siano delle condizioni diciamo ad essa propedeutiche.

Il secondo passaggio, invece, è più corposo e segue lo sviluppo dell’ultimo capitolo del volume, intitolato Paternalismo senza padre. In esso, Lasch pone le premesse per la critica alla élite manageriale che seguirà ne Il Paradiso in terra sostenendo che il capitalismo ha dato i natali a una nuova ideologia politica, il liberalismo assistenziale, che defrauda gli individui dalla propria responsabilità morale. Ora, se è vero che risulta alquanto discutibile l’espressione ossimorica “liberalismo assistenziale”, giacché impervio è trovare un collegamento tra il liberalismo in senso classico e l’assistenzialismo, Lasch imputa al progressismo, che poi si è incanalato nel New Deal, la nuova manifestazione del nuovo paternalismo – l’espressione “liberalismo assistenziale”, allora, ha molto più a che fare con il liberalismo contemporaneo di stampo rawlsiano. Con esso, si è creata una società in cui i cittadini sono divenuti meri consumatori di consulenze specialistiche, scrive lo studioso americano. Si è così determinata una società che va dall’alto in basso, in cui il ruolo delle agenzie educative e delle istituzioni artificiali vanno sostituendosi alla famiglia e alle tradizionali comunità pre-politiche. Tutto viene professionalizzato, tutto diviene appannaggio di specialisti.

Come scrive Ellen Richards – nota, ricorda Lasch, per aver avviato la professionalizzazione del servizio sociale – allo scopo di creare una repubblica sociale efficiente, il bambino stesso, in quanto futuro cittadino, diviene un bene prezioso per lo stato e quindi va affidato direttamente all’intervento dello stesso. Lo scopo, come si evince dall’idea di Richards, non è quello di responsabilizzare le persone e renderle indipendenti, quanto piuttosto di renderle servili e succubi di un organismo monopolizzante e uniformante: lo stato terapeutico.

Esso, sommandosi con un capitalismo intrusivo e una burocrazia tentacolare, mira a costruire una rete di dipendenze. La dipendenza diventa il sistema di vita. Nessun è più in grado non solo di far da sé, ma soprattutto di pensare in modo autonomo: «la moralità terapeutica incoraggia la perenne sospensione del senso morale» (p. 256). Lasch riconosce che la critica conservatrice all’espansione della burocrazia condivide alcuni punti comuni con quella radicale, ovvero il fatto che erode l’autorità, estende la permissività e promuove il decadimento degli standard scolastici. Ma tale critica, egli continua, in particolare quella espressa da Ludwig von Mises in Bureaucracy (1944), non coglie quanto l’espansione burocratica sia inestricabilmente connessa alla nascita e allo sviluppo del capitalismo monopolistico. A Mises Lasch imputa una “idealizzazione” dell’autonomia personale che il libero mercato consentirebbe. Il problema, secondo l’austriaco, non sarebbero l’individualismo e il libero mercato che permette agli individui di disporre di sé e cooperare in modo pacifico, ma il collettivismo che annienta la libertà e burocratizza l’esistenza. Il risultato sarebbe più simile a una caserma che non a una società libera. Ed è il governo che si espande, nota Mises, a burocratizzare l’esistenza. Nessuna via di mezzo tra individualismo e collettivismo, tra liberalismo e socialismo, si ricordi, per Mises è possibile.

Sennonché, osserva Lasch, la completa separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale ha posto in essere le condizioni affinché un élite dirigenziale monopolizzasse il sapere tecnico, facendosi oligarchia, a detrimento dei lavoratori, ridotti a macchine. Saldandosi potere politico e potere degli uomini d’affari, poi, lo spazio per la libertà degli individui si è ulteriormente ridotto. È come se si fosse creata una società nella società, imponendosi al di sopra di essa, in virtù del sapere tecnico e specialistico, e depauperando gli individui comuni dalla possibilità di autodirigersi. Con il mescolamento e la sovrapposizione di politica e industria, mondo degli affari e specialisti di ogni campo, il cittadino perde la fisionomia del civis. Non esiste più una comunità di liberi ed eguali, giacché la competenza tecnica unita al sapere specialistico depreda la comunità di ogni contenuto democratico (sul punto cfr. L. Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri 2020). Tutt’al più, osserva Lasch, all’individuo è ancora concesso, o, meglio ancora, egli è titillato, incentivato, quasi obbligato a consumare compulsivamente. E allora, appunta lo storico delle idee, l’unica soluzione consiste nella riappropriazione da parte dei cittadini, non più meri consumatori, della capacità di risolvere da sé i problemi. Sta nel principio di sussidiarietà orizzontale, nel principio di self-help la chiave per la riappropriazione degli individui fattisi comunità di una democrazia che non si faccia schiacciare dal principio di competenza. «La volontà di costruire una società migliore», scrive Lasch, «continua a sussistere insieme a sopravvivenze di tradizioni locali, di self-help e a iniziative collettive che hanno solo bisogno della prospettiva di una nuova società, una società decente, per riconquistare nuovo vigore» (p. 261). Egli aggiunge, in modo “visionario” per riprendere Wolin, che per opporsi efficacemente alla società della competenza degli specialisti, gli stessi cittadini si debbono incaricare di risolvere problemi mediante la creazione di “comunità di competenza”. Certamente non un proposito semplice da realizzare, ma un punto di orientamento verso cui tendere.

Una società democratica, per essere tale, ovvero costituita da liberi ed eguali, non può affidarsi ad esperti disancorati e disallineati dai cittadini. Essa deve essere costituita di individui che possano provvedere da sé ai propri bisogni, ovvero deve produrre una sorta di aristocrazia morale e intellettuale la più espansa possibile, in modo tale che ciascuno sia il più indipendente possibile dagli altri. Il che non significa, con tutta evidenza, un’era in cui prevale l’orteghiano “signorino soddisfatto” il quale crede di essere perfetto in se stesso. Quest’ultimo, infatti, è il prodotto dell’ignoranza di massa, resa così pervasiva dall’istruzione obbligatoria livellatrice. Al contrario, è il riconoscimento dei propri limiti unitamente alla voglia di mettersi in gioco e maturare una sincera e adulta indipendenza di spirito che pone in essere un ethos democratico. Ciò detto, il principio di competenza non può essere eliminato, questo è lapalissiano. Dopo tutto, i progressi conquistati dalle società opulente hanno reso la vita complessivamente più facile e materialmente più agiata rispetto al passato. Ma il ragionamento laschiano sposta l’attenzione verso le precondizioni di una società decente.

Nelle sue analisi il capitalismo viene concepito non solo come metodo di produzione ma quasi alla stregua di una visione del mondo. Imperniato sul mito del progresso, incardinato sul principio del “consumo dunque sono”, esso diviene uno stile di vita che si appropria di ogni angolo e pertugio della vita individuale. Non vi è spazio che sfugga alla voracità di questa macchina che si autoriproduce. Esso non si pone limiti, proprio perché è basato sull’idea che sempre nuovi appetiti possano essere soddisfatti senza sosta. Anzi, esso li alimenta, giacché si nutre sul bisogno di sempre rinnovati desideri da gratificare. Esso coltiva negli individui l’idea che al mondo non vi siano confini. In qualche modo viene a coincidere con il narcisismo primario che Lasch pone al centro della sua disamina sulla personalità narcisistica. Questo, infatti, si riferisce all’illusione infantile di onnipotenza. Il bambino in tale stadio non ha ancora compreso la distinzione tra il sé e il non sé. È come se ciò che gli è esterno fosse una sua emanazione o derivazione. Tutto, allora, viene concepito come riconducibile alla propria sfera. Ma, come scrive Lasch nel 1990 in La cultura del narcisismo rivisita, ora annesso a La cultura del narcisismo, «la miglior speranza di raggiungere una maturità emotiva appare nel riconoscimento di aver bisogno di dipendere da persone che, ciò nonostante, rimangono separate da noi e si rifiutano di sottostare ai nostri capricci. Risiede nel riconoscimento che gli altri non sono proiezioni dei nostri desideri, ma esseri indipendenti con loro desideri. Per dirla più in generale, risiede nell’accettazione dei nostri limiti. Il mondo – prosegue Lasch – non esiste semplicemente per soddisfare i nostri desideri; vi troviamo piacere e significato, quando capiamo che anche gli altri hanno diritto a questi beni» (p. 268).

Se consideriamo quest’ultimo pensiero di Lasch, le distanze rispetto ad una prospettiva che possiamo definire liberal-conservatrice si attenuano di molto. Un’etica del senso del limite può essere il punto su cui innestare o semplicemente ricostruire un tessuto connettivo sano e decente che rivitalizzi un ethos democratico. Certamente, non si possono omettere le critiche laschiane al sistema capitalistico. Egli è e non può che rimanere un fervente anti-capitalista, non vi è dubbio alcuno. Tuttavia, con tale termine egli non distingue tra le diverse facce che esso può assumere. Può essere assimilato il capitalismo al capitalismo delle grandi corporation? Capitalismo è sinonimo di economia di mercato? Non può essere quest’ultima un proficuo modo di vivere la dimensione economica della vita – una delle tante, e per questo non può assorbire integralmente la condotta umana – in comunità decentrate e dalle piccole dimensioni? Lasch tende a ipostatizzare il capitalismo quasi che quest’ultimo assumesse una propria vita autonoma. Non vi è dubbio che un sistema economico che promuove un economicismo onnipervasivo non può dar vita a comunità moralmente sane. Come ricordava anche Röpke, l’uomo non vive di solo pane. L’economia di mercato non si situa in un vuoto educativo e morale. Anzi, esso abbisogna più di ogni altra cosa di persone dotate di una certa stabile e salda ossatura morale e spirituale. E le medesime persone di ciò necessitano per vivere appieno. Tuttavia, com’è noto, a esistere sono le persone e soltanto esse sono in grado di pensare, agire e in definitiva vivere.

Il capitalismo, dunque, se da un lato instilla delle tendenze e delle debolezze psicologiche nel carattere umano, non si può parimenti sostenere renda gli individui schiavi, inermi e incapaci di resistere. Se c’è un punto da cui ripartire, allora, questo è dato dalla dimensione educativa dell’esistenza individuale e comunitaria. Inane è seguitare in analisi che vorrebbero abbattere l’esistente per una non ben definita società decente. In Lasch l’educazione assume un ruolo centrale, il momento cardine per far sì che l’individuo cresca in modo retto, maturo e davvero umano. Ecco, è un’educazione al “realismo morale”, come conclude La cultura del narcisismo rivisitata, la quale concepisce gli uomini come esseri ignoranti e fallibili, limitati nel proprio potere e nella propria capacità trasformativa della realtà, la precondizione per l’emersione di una società davvero decente.

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