Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci (Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Ne Il soccombente di Thomas Bernhard il grande musicista Glenn Gould affibbia l’appellativo di soccombente al suo amico e mediocre musicista Wertheimer. Ma chi soccombe è invece lui stesso, Glenn Gould. L’importante musicante “virtuoso del pianoforte” si era fatto morire soccombendo al suo stesso lavoro, all’età di cinquantun anni, sfinito dal ripetere sé stesso, assomigliare a sé stesso, un infinito eterno ritorno dell’uguale. Questo sfinimento nell’eseguire continuamente le Variazioni Goldberg e l’arte della fuga («anche quando suonava altri autori») hanno definitivamente spossato il fisico e la mente del genio, che di genio non aveva niente se non imitare l’altro e la creatività dell’altro, fino a dovergli assomigliare. Ma la somiglianza del genio non è a sua volta il genio.

Dio crea, l’artista rappresenta e imita (Platone docet). L’infinita ripetizione del sempre uguale, per quanto nei particolari si ritrovi uno scarto, un accento diverso, un’improvvisazione, un’interpretazione, un suono più lungo o più breve, non è che il prodotto di una mente ordinata e metodica, matematica, maniacale, frutto più di un tedesco che di un canadese: «Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco». Senza mangiare, senza dormire, Gould si esercitava al pianoforte: lo strumento era diventato una forma di tortura la cui funzione era quella di una coazione a ripetere che Freud avrebbe definito come nevrosi ossessiva e compulsiva.

Certo, suonare per dimenticare, questa era la funzione del musicante, quella di non dover pensare, soprattutto alla morte, che lo aveva lungamente accarezzato con “la malattia polmonare”. Molti artisti sono stati riconosciuti tali proprio perché spinti dalla follia. Ma qui essa non provocava scarti, aperture, novità, originalità, creatività ma solo il ripetersi del sempre uguale. Gould era una macchina perfetta, benché «una macchina artistica», come lo definiva Wertheimer; in senso stretto era un artigiano. Lui stesso diceva di sé: «noi siamo quello che vogliamo sottrarsi alla natura… per tutta la vita vogliamo essere il pianoforte». Gould avrebbe potuto suonare qualunque cosa, meglio di Mozart, ma non inventare niente. Non a caso non amava Mozart (né aveva mai suonato Chopin). La sua sorgente creativa era arida come un lago prosciugato. Il suo era, parole sue, «un radicalismo pianistico». Nel senso che stava ripiegato sul piano per decine di ore al giorno, un fabbro del pianoforte, uno scalpellino che batteva i tasti, come se fosse pagato ad ore in attesa che sopraggiungesse la fine.

Wertheimer e il narratore, i due amici musicanti di Gould, decidono di «tirarsi fuori da questa mostruosità», quella cioè di suonare giorno e notte, per non morire troppo presto, forse perché non avevano l’applicazione, la determinazione, l’autodisciplina e la tenacia di Gould che lo rendevano «un fanatico dell’ordine» ma anche il migliore «virtuoso» di sempre. Egli non aveva bisogno del pubblico, suonava per sé stesso, concentrato solo su sé stesso, compiaciuto di sé stesso. In realtà dovremmo parlare di virtuosismo, ossia di quella categoria che permette di eccellere in una determinata e specifica qualità, nel caso specifico quella di suonare benissimo uno strumento, un mezzo. Ma il fine è la musica, il piano è solo un mezzo. Assomigliare ad un piano, essere parte organica del mezzo, è il fine di Gould: sparire da sé stesso, annientare sé stesso per diventare una cosa, seppure speciale: mero feticismo, reificazione, regressione. Era un modo come un altro per coprire la sua incompiutezza. È come se uno scrittore riscrivesse eternamente e di nuovo lo stesso libro (di un altro) senza variare alcunché per diventare esso stesso la macchina da scrivere: il vuoto da riempire; oppure un pittore copiasse sempre gli stessi quadri di Van Gogh fino a renderli più “autentici” degli originali. Il narratore, diversamente da Gould, capisce che non ce l’avrebbe mai fatta a «non sbagliare mai una nota», non era adatto «alla carriera del virtuoso» e confessa a sé stesso di non essere «un artista della riproduzione». Adesso avrebbe voluto dedicarsi a ciò che è più lontano dal virtuosismo: «d’ora in poi si sarebbe dedicato a ciò che è filosofico» (lo stesso Glenn lo chiamava “il filosofo”), ossia alla capacità di guardarsi suonare, di riflettere su quello che stava suonando. «Gli artisti non hanno quasi mai cognizione della propria arte», ma, spesso, «nemmeno i filosofi hanno cognizione di che cosa sia la filosofia». I maestri del narratore erano «uomini che suonavano il pianoforte senza avere la minima idea dei concetti musicali». In questo modo, scrive Bernhard, la maggior parte dei giovani creativi musicali, con particolari doti, vengono soffocati dalla mediocrità di artigiani che impongono costrizioni e duro lavoro come se la musica fosse solo disciplina e addestramento: scimmie da organetto. Eppure, tutti e tre sarebbero stati ottimi insegnanti perché non avrebbero soffocato la creatività dei propri allievi. Il virtuosismo è noioso, è meccanico, non ha niente a che fare col creare.

Il narratore e il suo amico, se non avessero incontrato Glenn Gould, sarebbero anche loro diventati dei discreti artigiani della musica, accontentandosi di ripetere il sempre uguale. Aver trovato il migliore dei mediocri, li aveva disillusi. Non potevano competere con lui sul suo terreno. Ma in realtà il narratore «non voleva essere un virtuoso del pianoforte in quanto ha sempre avuto contro questa idea le più ampie riserve». Anzi, egli confessa di odiare il virtuosismo. Addirittura, odiava la musica, obbligato dalla famiglia a suonare il pianoforte, come si usava nelle famiglie benestanti del tempo. In realtà tutti e due gli amici di Gould avevano intrapreso la carriera di musicisti contro il parere delle rispettive famiglie, non certo per perseguire la loro vocazione. Ma, anche se a Gould aveva arriso il successo, e non gli mancava il talento, aveva voluto morire presto, sempre abbarbicato su quello strumento come un nano sulle spalle di un gigante.

Wertheimer invece, a differenza di Glenn Gould, sceglie di uccidersi volontariamente, impiccandosi. Egli invidiava Glenn, lo invidiava e lo ammirava nella misura in cui non amava veramente la musica, privo di qualsiasi vocazione. La scelta del narratore è diversa. Compreso fin da subito che non avrebbe potuto competere con Gould, perché o «si è i migliori in assoluto o nessuno», aveva cessato di suonare. Ma decisivo era stato il fatto che lui non si era mai sentito in competizione con Gould dato che, come abbiamo detto, non aveva mai amato quel lavoro di musicante. Per non essere in competizione con gli altri occorre essere sé stessi, sentirsi unici, opere d’arte in primo luogo di sé, questo è quello che il narratore confessa a sé stesso: «essere l’artista della propria vita» e non cercare di rassomigliare a quella degli altri: cercare la propria “singolarità”.

La maggior parte degli uomini, ancora oggi nell’età del neocapitalismo, sono invece come Wertheimer, dei soccombenti, anzi, per forzare la forma grammaticale, dei soccumbuti. Benché ricchi, famosi, belli, sani, sono sempre rosi dall’invidia, mettendocela «tutta per tiranneggiare il mondo che li circonda». Wertheimer capì subito che Glenn Gould fosse un genio, lo capì perché anche lui era il più bravo di tutti, ma non poteva competere con l’americano. Fin da subito si era vergognato dell’appellativo che il suo amico gli aveva affibbiato: il soccombente, come se Glenn avesse capito prima di lui la sua personalità di perdente. Da un lato infatti Wertheimer era stato costretto dall’ambiente familiare a cimentarsi al pianoforte, ma, dall’altro lato, la stessa società gli chiedeva di essere sempre il migliore. A questo ideale dell’io a cui lui stesso credeva, la presenza di Glenn Gould lo aveva messo in scacco, e da questo cortocircuito non poteva uscirne che vergognandosi e scegliendo di punirsi con la più vergognosa e più disgustosa, a suo dire, scelta di morire: l’impiccagione.

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