Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.
Recensione a: M. Ciampa, Breve storia della nostra inerzia, Il Mulino, Bologna, 2025, pp. 169, €15,00.
Non c’è tema allo stesso tempo più attuale e più inattuale di quello a cui Maurizio Ciampa dedica questa sua Breve storia: possiamo chiamarla accidia, malinconia, noia, rinuncia, stanchezza oppure inerzia. Sta di fatto che le società occidentali come la nostra vivono un’epoca contemporaneamente frenetica, accelerata, smaniosa ma anche immobile, rinunciataria, afona.
Sono mille i motivi (storici, culturali, economico-sociali, psicologici) che possono spingere le persone a rifugiarsi nell’attesa sfiduciata, nel disincanto, nell’indifferenza. Anzitutto pesa il fatto che il futuro (inteso proprio come avvenire, sguardo progressivo, come possibilità per gli uomini) sia ormai completamente scomparso, e non soltanto per l’assenza di letture ideologiche sulla società: l’orizzonte è fissato al presente, all’attuale, parcellizzato però in istanti non comunicanti. In ciò il grosso la fanno senza dubbio le tecnologie, il digitale. Più siamo connessi, più siamo isolanti, si sa. Il problema è che mancano sempre più risorse, spazi alternativi, antidoti a questa fissità il più delle volte inconsapevole.
La cultura moderna è piena, ricolma di cronache dal sottosuolo, diari e memorie di uomini che si scoprono superflui e incapaci (Melville, Turgenev, Kafka e mille altri), che vedono l’inutilità dell’agire e del progettare. Il peso del mondo diventa eccessivo e l’unica via di fuga è nell’inconsapevolezza (ad esempio nel sonno o in mille forme di narcosi). Ciampa ci spinge dunque nei meandri di questo sottosuolo, ritrovando nella cultura letteraria e filosofica i segni di quella “bile nera”, di quella malinconia che ha segnato come un’ombra la storia occidentale. La novità del nostro tempo è la scoperta di quanto la velocità crescente (fare di più, vedere di più, sapere di più, vivere di più) a cui siamo obbligati, in realtà non faccia che privarci sempre di più di esperienze e, quindi, di vita. Il pensiero torna subito a quanto Walter Benjamin (senza dubbio uno dei punti di riferimento per questo lavoro) scrisse, all’indomani dell’apocalisse della prima guerra mondiale, nel celebre saggio Esperienza e povertà. Questa privazione, questa immobilità non si possono reggere che su un’illusione (illusione di eternità, di luce, di pienezza). Non restano in realtà che il vuoto e un affanno esistenziale da cui nascono la depressione, l’ansia di massa che saranno sempre più le malattie tipiche del nostro avvenire.
È proprio dell’oggi muoversi in un ambiente bruciato, ma allo stesso tempo paludoso, dove l’impotenza viene accettata e coltivata in una irrazionale illusione di normalità. Davanti a minacce sempre più incombenti, meglio chiudere gli occhi:
Siamo essere “soppiantati”, privi di riparo, totalmente esposti. I laceri riti identitari erano l’ultima fiacca risorsa. Ora nessuna sovranità, su nulla. Detronizzati, non governiamo più la Storia e i suoi processi; stretti in un angolo, non padroneggiamo più le nostre stesse vite (p. 14).
Ciò che colpisce in questo quadro post-apocalittico è l’utilità, anzi l’essenzialità delle categorie proprie della psicopatologia (depressione, panico, trauma, ansia, burnout) per spiegare il presente. D’altra parte, davanti alla oscenità del presente, ci si rifugia sempre più nel passato (in un passato però addomesticato, addolcito, reinventato persino). Ancora, questo vivere in panne, immersi in un tremore continuo, drogato di iperattività, schiacciato dal superfluo, finisce per mostrare l’assurdità del mondo, un’assurdità in cui però l’uomo, l’umano non trova più spazio (su tutti, tornano alla mente qui i nomi di Beckett e di Cioran). Nel massimo del movimento, si trova la stasi, la ripetizione fino all’esaurimento.
In questo senso, il futuro, lo sviluppo tecnologico (pensiamo solo a ciò che ci riserverà l’intelligenza artificiale) non ha più nemmeno bisogno degli esseri umani. Di sicuro, internet non ha soddisfatto le sue promesse di liberazione: ne deriva una nuova Babele, dove tutto è sovraccarico ed eccessivo. Volendo scegliere in conclusione una figura, fra le tante offerte in questo libro, spicca sicuramente quella di Giobbe, non del Giobbe biblico però, ma del protagonista del romanzo di Joseph Roth:
Il suo protagonista, Mendel, dopo aver sopportato, come Giobbe, il peso di molti dolori, compie un gesto imprevedibile e apparentemente blasfemo: brucia le Scritture, che in passato lo avevano guidato. “Dio voglio bruciare”, grida Mendel fra lo scandalo degli amici. Poi sbotta in un’affermazione desolata, ma liberatoria: “Sono solo, e voglio restare solo!”. Mendel rifiuta fittizi sostegni, precarie consolazioni (pp. 111-112).
La lucidità di Mendel è forse l’unico antidoto che ci resta, anche se chiaramente insufficiente. Mendel è un uomo che è stato espulso dal futuro e che finisce per rivendicare questa esclusione, questa conclusione. Ad ognuno di noi – ci dice Ciampa – pare dunque toccare la sorte di dover vivere sulla propria pelle la fine della storia.
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