Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
M. Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali
Einaudi, Torino 2020, pp. 226, €17,00.

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Modernità è germe di illegittimità, di vita senza valori sacri.
Ortega y Gasset

Nessuna teoria della libertà potrà essere efficace o decisiva se non saprà riconoscere alla ricerca della comunità il posto centrale, cha ha oggi.
R. Nisbet

Individuo e modernità: un nesso pressoché inscindibile. Infatti, se vi è qualcosa che caratterizza la modernità, almeno per come solitamente viene intesa, ciò è il suo essere plurale, aperto: in sostanza, essere a trazione individualistica. D’altronde, è sufficiente sfogliare un classico come La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper per comprendere immediatamente a cosa si allude. Prima dell’avvento della modernità, la società era composta non da individui, dunque esseri agenti e pensanti dotati di qualità ineffabili e caratteri irriducibili, bensì da granelli di sabbia che, uniti in modo rigido e assoluto da credenze, dogmi e tabù davano vita a quella che lo studioso chiamò “società chiusa”. In definitiva, una Gemenschaift, una comunità tribale, un organismo collettivo che non poteva essere scomposto in parti più piccole le une distinte dalle altre. Per contro, come nota Popper, la civiltà occidentale ebbe origine coi Greci, i quali mediante la filosofia e lo spirito critico da essa promosso posero le prime pietre per scardinare la fissità e la rigidità delle precedenti società ammantate di sacertà. Si passa, insomma, da una società che assume le sembianze di un gregge a quella, con l’ausilio poi del “rischiaramento delle menti”, vede una liberazione delle forze individuali che si affrancano da credenze, verità dogmatiche e tutto ciò che impediva loro di dispiegare il proprio potenziale critico, razionale e personale. Tale imponente mutamento, com’è noto, venne ben colto da Benjamin Constant con il suo discorso sui due tipi di libertà a cui corrispondevano, per sommi capi, l’esperienza spartana (libertà degli antichi) e quella ateniese (l’esempio più prossimo presso gli antichi della libertà dei moderni): «Noi – afferma Constant – non possiamo più godere della libertà degli antichi, costituita com’era dalla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà – prosegue – deve intendersi nel tranquillo godimento dell’indipendenza privata».

Va da sé che, con l’affermazione degli individui, la componente comunitaria ne risenta, qualsiasi forma essa assuma. Non a caso, sempre Constant, riecheggiato successivamente e ancor più vivacemente da Tocqueville, sostiene che «il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico». Ciò che è individuale tende a perpetuarsi, anche se, quasi paradossalmente, un certo individualismo può tramutarsi proprio nel suo contrario, non avendo più quei necessari appoggi pre-politici che lo aiutavano a formarsi, a crescere e a essere ciò che era. Mediante il processo di eguagliamento delle condizioni, dice Tocqueville, «ciascuno si chiude, dunque, strettamente in se stesso e pretende, da qui, di giudicare il mondo». Ma c’è di più: «L’uguaglianza generale delle condizioni, nel momento stesso in cui fa sentire agli uomini la loro indipendenza, mostra ad essi la loro fragilità: sono liberi sì, ma esposti a mille evenienze, e l’esperienza non tarda ad insegnare che, nonostante non abbiano abitualmente bisogno dell’aiuto altrui, arriva quasi sempre il momento in cui non potrebbero farne a meno». Come scrisse Robert Nisbet, «la fede individuale priva di appoggio comunitario tende spesso a cadere nella sfiducia in se stessi e nella frustrazione». A ben vedere, nondimeno, ciò può comportare anche qualcosa di più profondamente ominoso. Giornalista de “Il Foglio” e curatore preso di esso di una assai interessante rubrica denominata “Il pensiero dominante”, Mattia Ferraresi ha recentemente dato alle stampe un volume che cerca di scarnificare, come scrive lui stesso, «lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo»: la solitudine.

In Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali (Einaudi, pp. 226, 17 €), l’Autore sostiene che questa caratteristica insidiosa delle nostre società «è l’esito di un’idea precisa, quella dell’individualismo, inteso anzitutto come autodeterminazione e autocompiacimento della persona» (pp. 3-4). Si tratta, continua Ferraresi, di una precisa «scelta ideologica» che costituisce «uno dei cardini della modernità»: «Nel divincolarsi dalle autorità, dalle gerarchie e dalle costrizioni tradizionali che lo opprimevano, l’uomo moderno si è ritrovato solo. Ha abbracciato un’antropologia solitaria e su quella ha immaginato di dare vita a un mondo nuovo, salvo riscoprirsi poi amareggiato e deluso dalla sua creazione». In definitiva, «ha perseguito un ideale di liberazione che oggi si ripresenta come una prigionia» (p. 4).

Esempi di questa vera e propria epidemia “esistenziale”, che può tramutarsi in esplosioni di rabbia violenta, financo all’omicidio, come mostrano gli esempi riportati, sono gli “hikikomori” in Giappone, perlopiù ragazzi che si appartano dal mondo, costruendosi una realtà parallela nella propria stanza, in parte i “neet”, ovvero quei giovani che non studiano, non lavorano e non imparano un mestiere, oppure la figura dell’ “incel”, definibile come “celibe involontario”. Tutte queste figure, in buona sostanza, sono caratterizzate dal sentimento di solitudine e da un certo timore di sentirsi inadeguati di fronte all’altro. Il processo di individualizzazione, insomma, ha creato, sì, individui liberati da opprimenti gabbie tradizionali, ma, per contro, sostiene l’Autore, è come se gli individui fossero ormai nudi, depredati di quelle che sono, a ben vedere, le fonti dell’individualità stessa: «Nel compimento di quell’entusiasmante processo di liberazione da vincoli, dogmi, tradizioni, autorità e strutture che va sotto il nome di modernità, l’individuo si è infine scoperto solo. E con una sorpresa ha trovato questa condizione, conquistata con tanta fatica e sacrifici, piuttosto desolante» (pp. 92-93). D’altronde, già Aristotele – che Ferraresi ovviamente cita – aveva sostenuto che l’uomo ha necessariamente bisogno degli altri per essere ciò che è, a meno che non si tratti di una bestia o di un dio. E non può che essere così.

La domanda è: la modernità conduce irreparabilmente alla solitudine? E collegata ad essa: l’individualismo è un monolite oppure ha due facce, l’una legata all’altra, ma in perenne conflittualità tra loro? Secondo Ferraresi, la modernità inevitabilmente avrebbe portato a ciò che vediamo: è nel suo codice genetico (Ferraresi scrive che «la modernità ha introdotto un’antropologia solitaria», p. 95). L’autonomia individuale tanto decantata non fa che creare automi, granelli di sabbia spersonalizzati, monotoni, identici. L’individualismo, dunque, non poteva che ingenerare quel “narcisismo” di cui Christopher Lasch ha parlato nel suo celebre volume. L’individual-narcisista ha perso qualsiasi contatto col passato e, di conseguenza, non è nemmeno in grado di pensare al futuro. Esso vive in un eterno presente, in balia degli eventi, alla mercé di illimitati desideri. A ben vedere, però, esso non è che un essere fragile e, forse, in cuor suo, di ciò è consapevole. Tuttavia, lo nega e, anzi, si crogiola nella quotidianità, senza progetti alti, senza aspirazioni elevate. Già Tocqueville, d’altronde, aveva visto molto di quello che stiamo esperendo. La liberazione totale, insomma, ha prodotto nient’altro che «un fascio di voglie da soddisfare» (p. 199).

Doveva andare così? Può darsi. Ma il determinismo, almeno secondo chi scrive, non è mai di aiuto nell’analizzare un fenomeno. Essere individui, infatti, significa avere un margine di azione, ovvero poter orientare, almeno limitatamente, il futuro. Essere uomo, ce lo ha insegnato Ortega y Gasset, significa «essere in una tradizione», ovvero far parte di qualcosa che ci preesiste e ci plasma. Senza di esso, non solo non esisterebbe il presente, ma non ci sarebbe neanche la possibilità di un futuro. In tal senso, la liberazione della modernità, senza quei contrappesi e quel senso del limite di origine aristocratica, sfocia quasi ineludibilmente in assenza totale di vincoli e legami. Ma, per l’appunto, è in nostro potere, almeno sperabilmente, il ricostituire quel tessuto comunitario che l’individual-narcisista ha dimenticato, soverchiato e abbacinato dalle bellezze del “presentismo” e della vita agiata e prospera. La società moderna è costitutivamente “anomica”? Forse. Ma può anche darsi che riscoprendo un “individualismo sano” ci sia margine per invertire la tendenza deteriore.

Ferraresi non fornisce soluzioni e, d’altro canto, bisognerebbe essere dei rabdomanti per trovarne. Ma il fatto che abbia problematizzato e scandagliato la situazione attuale è già un buon punto di partenza.  Così come è cosa buona e giusta riscoprire l’essenzialità di tutti quei corpi intermedi pre-politici senza i quali non solo l’individuo fatica a trovare la propria dimensione, ma soprattutto rischia di essere facile preda di poteri come quello di uno stato che tende a impadronirsi della società. Non a caso, l’Autore cita Robert Nisbet il quale tendeva a sceverare tra autorità e potere. Pensando di distruggere la prima e idolatrando la propria liberazione, gli uomini non si rendono conto di essiccare proprio quei legami che costituiscono un naturale e potente antidoto a poteri potenzialmente illimitati. «In questo momento – scriveva Nisbet a proposito della New Left, ma noi possiamo tranquillamente attualizzarlo – abbiamo bisogno soprattutto di un liberalismo che sia in grado di distinguere fra la legittima autorità – l’autorità che siede nelle università, nelle chiese, nelle comunità locali, nella famiglia, nel linguaggio e nella cultura – e il mero potere» (cit. p. 175). Infatti, inaridita la prima, nelle sue poliedriche manifestazioni, il secondo ha buon gioco a ricostruire ab imis un senso, una direzione, una prospettiva etica onnicomprensiva. Non è un caso che Hannah Arendt vedesse nel prototipo dell’adepto totalitario un essere isolato, privo di legami e relazioni sociali, scevro di un senso: «L’estraniazione […] è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità […]. Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo». Ferraresi descrive, a tal proposito, quella che secondo lui è la condizione che ricalca l’uomo moderno: quella di un prigioniero che, liberatosi, non sa bene dove andare, in quanto solo, e, così, assoldato da criminali, torna in prigione. Una volta riuscito nuovamente a liberarsi, sulla soglia della cella e memore dell’esperienza passata si chiede: “E se la prigione là fuori fosse peggiore della prigione qui dentro?”. Così seguita l’Autore: «In termini molto stilizzati, questa è la condizione dell’individuo moderno in rapporto alla libertà. Non ha più vincoli e obblighi, ma questo stato non gli dice nulla circa la strada da imboccare per raggiungere il compimento di sé, la felicità. Può andare ovunque, ma non sa bene dove andare» (pp. 101-102). I varchi e i pertugi, le mancanze di senso e lo spaesamento, com’è noto, prima o poi vengono colmati. Forse occorrerebbe, allora, tornare a coltivare interrogativi essenziali come, ad esempio, quale possa essere una “vita buona”, prima che qualcuno proclamantesi padrone della Verità e del Senso ultimo delle cose, torni a prescriverci dall’esterno quale senso dare alla nostra vita.

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