Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Laureato in Lettere e Storia. Redattore presso Dissipatio.it. Ha scritto per«L'Intellettuale dissidente» e«Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».

Nelle Storie fiorentine di Francesco Guicciardini (1483-1540), opera giovanile, già si riscontra la concezione etica che doveva possedere un uomo politico. Tali valori erano riscontrabili nel perseguimento della prosperità dello Stato, efficienza nell’amministrazione della spesa pubblica e sicurezza dei cittadini. Nei comportamenti e nelle qualità degli uomini politici fiorentini Guicciardini voleva indagare le cause delle loro scelte politiche, che furono decisive per le scelte politiche di Firenze nel periodo storico da lui indagato.

Passione per la lettura di opere storiche, dato che sin da giovane Guicciardini ha avuto la passione per le opere storiografiche di Frontino e Tacito, come ha scritto nelle Cose fiorentine: «l’uno venne in luce non molti anni or sono, dell’altro e’ primi tre libri furono ritrovati dell’adolescenza mia» (cfr. Ridolfi 1982, p. 6).

La stesura delle Storie fiorentine da parte di Francesco Guicciardini fu un lavoro di carattere storiografico non uniforme dal punto di vista metodologico. L’opera che Guicciardini prende a modello è quella di Leonardo Bruni, l’Historicum Fiorentino populi (Bruni 1926, pp. 81-126). In fase d’apertura del testo, l’autore enuncia il metodo che utilizzerà nel prosieguo dell’opera, dichiarando che i fatti per esteso verranno raccontati dopo il 1455: «le quale cose secondo la mia notizia narrerò più particularmente, perché da quello tempo in qua non ci è ancora chi abbi scritto istorie» (Guicciardini 1998, p. 89).

Il 1455 è la data in cui si ferma la Historia fiorentina di Bracciolini e proprio da quella data, quindi, riparte Guicciardini. Le Storie fiorentine si andavano ad inserire, sia a livello cronologico che di argomentazione, nel solco della memorialistica familiare, come le Ricordanze e le Memorie di famiglia, scritti che erano una prassi intellettuale del ceto aristocratico nella Firenze di fine Quattrocento e inizio Cinquecento (Ridolfi 1982, p. 269), composte tra il 1508 e il 1510. Proprio dalle Memorie di Famiglia trasse il materiale archivistico: fonti documentarie dell’archivio di famiglia e di cancelleria (cfr. Rubinstein, 1953).

Il tempo della redazione delle Storie ebbe la durata di due anni, interrompendosi nel 1510, contemporaneamente alle fasi finali dell’assedio di Pisa. Nel 1508 Guicciardini era rientrato a Firenze dopo il suo periodo di studi giuridici a Ferrara prima e Padova poi. Dopo l’ottenimento del titolo di giureconsulto, ambiva ad accedere alle cariche politiche della Repubblica fiorentina, ma, non avendo ancora l’età per raggiungere gli incarichi pubblici, impegnava il tempo con l’attività letteraria (Ridolfi 1982, p. 28). Guicciardini aveva concluso i suoi studi ufficialmente il 15 novembre del 1505 in diritto civile, dopo sette anni di studi intrapresi nel 1498, prima a Firenze e poi trasferitosi a Ferrara e dal novembre del 1502 a Padova (Cutinelli Rèndina 2009, pp. 21-22). L’esercizio storiografico fu svolto da Guicciardini nel mentre esercitava l’attività forense (Quaglioni 2002, p. 183; Guicciardini 1993, pp. 148-149). Formazione giuridica che fu fondamentale per Guicciardini come paradigma per giudicare l’uomo politico. Da sottolineare anche un fattore personale: mentre attendeva alla composizione dell’opera e allo svolgimento dell’attività forense, avvenne anche il matrimonio con Maria Salviati, figlia dell’ottimo Alamanno Salviati, celebrato il 2 novembre del 1508 (Ridolfi 1982, p. 22).

In questo quadro intellettuale Guicciardini può essere considerato uno scrittore pre-gutenberghiano, come si può evidenziare da un elemento: la circolazione dei suoi testi avveniva esclusivamente sotto forma di manoscritti. Le sue opere avevano l’obiettivo di raggiungere un pubblico ben selezionato. Nel caso delle Storie fiorentine il riferimento avrebbe potuto essere agli appartenenti alla sua famiglia, oppure esteso al ceto magnatizio a lui afferente o magari ad ambedue. È innegabile che la stessa opera rappresentasse anche una visione ideologica dell’autore, ovvero quella della parte ottimatizia. Trattasi di opera letteraria di carattere storiografico e politica scritta sulla base delle contingenze politiche della Repubblica di Firenze, guidata, durante il corso della redazione, dal regime filo-popolare sotto l’egida del gonfaloniere Pier Soderini (De Caprariis 1993, p. 45) e che aveva quindi anche un obiettivo di dare un fondamento pedagogico di carattere privato. In tal senso emblematico è l’inizio degli eventi narrati tramite la figura dell’uomo Luigi Guicciardini, Gonfaloniere di giustizia nel 1378, in occasione del tumulto dei Ciompi. Luigi era considerato «l’autentico fondatore della grandezza della famiglia» (Cutinelli Rèndina 2009, p. 85).

L’uomo politico doveva avere l’obiettivo di perseguire la sicurezza interna dello Stato. Guicciardini lo identificava nella figura di Moro degli Albizzi, uno degli uomini da bene, che ricoprì la carica di gonfaloniere dal 1393 e che favorì l’ascesa a Firenze della famiglia dei Medici con la cacciata degli Alberti nel 1420: «e non fu maraviglia, e perché gli uomini erano tanti stracchi dalle turbolenzie passate, che abbattendosi a uomo vivere ordinato, tutti volentieri si riposorono» (Guicciardini 1998, p. 79). Politica pacificatoria e di equilibrio, quindi, che per Guicciardini era funzionale al benessere e allo sviluppo dello Stato. Unione interna che era fondamentale anche nella politica estera e in quel contesto, nel saper contenere le mire geopolitiche di Gian Galeazzo Visconti in Italia centrale. Il benessere della popolazione e lo sviluppo dello Stato non poteva concepirsi senza l’utilizzo di una virtù fondamentale che l’uomo politico doveva possedere: la prudenza. Tale virtù, scriveva Guicciardini, non era però posseduta, né fu acquisita dai cinque ottimati: Bernardo del Nero, Niccolò Ridoldi, Lorenzo Tornabuoni, Gianozzo Pucci e Giovanni  Cambi, che tentarono di rovesciare il governo popolare filo-savonaroliano e cercarono di ripristinare nel 1497 il regime mediceo. Una volta scoperti, furono condannati a morte dall’istituto degli Otto di Guardia e Balia.

Secondo l’analisi di Guicciardini, l’errore di valutazione era stato causato da un eccesso di fiducia nei confronti del ceto popolare. Quest’ultimo invece non doveva avere nessuna influenza sull’uomo politico perché il ceto popolare cambiava opinione a seconda dei propri vantaggi materiali. Tematica, quest’ultima, che sarà ripresa e analizzata successivamente dall’autore nel Dialogo del Reggimento sopra Firenze e poi nei Ricordi C 51,12,140,169 (cfr. Guicciardini 1997). Di contro, invece, la prudenza fu una peculiarità del carattere di Cosimo dei Medici. Guicciardini, per giudicare tale peculiarità dell’esponente mediceo, analizzò l’accordo che fece con il Ducato di Milano e con la Repubblica di Venezia, che ebbe il risultato di far stipulare gli accordi di Lodi (Guicciardini 1998, p. 81), fondamentali per bilanciare la precaria situazione geopolitica nella penisola italiana. Il fine lungimirante di Cosimo fu quello di controbilanciare l’egemonia veneziana sulla Repubblica fiorentina, perché in quel caso la Repubblica marciana avrebbe avuto l?egemonia incontrastata nella terra ferma e avrebbe potuto mettere in difficoltà l’esistenza stessa Firenze: «di che lui ne acquistò Milano e nacquerne la salute di Italia; perché se così non si faceva, e’ viniziani si facevano sanza dubio signori di quello stato e successivamente in breve di tutta Italia; sì che in questo caso la libertà di Firenze e di tutta Italia s’ha ricognoscere da Cosimo de’ Medici»  (ivi, p. 85). Nel ritratto che, nel primo capitolo, fece della morte di Cosimo de’ Medici, avvenuta il 1° agosto del 1464, Guicciardini lo considerava come un cittadino liberale, previdente e allo stesso tempo rivolto all’attività evergetica per Firenze (ivi, p. 92). Il figlio di Cosimo Piero, suo successore come guida degli affari di famiglia e della Signoria, sempre secondo Guicciardini, anche se caratterialmente era come suo padre, gli mancava la peculiarità della prudenza in politica. La mancanza di questa peculiarità lo rendeva quindi inadatto a compiere qualsiasi attività per la Repubblica di Firenze (ivi, p. 93).

La descrizione che Guicciardini fece di Lorenzo dei Medici, nei capitoli IV-VI, si può considerare impostata su due registri diversi, partendo sempre dal suo filo conduttore, che era costituito da: bene pubblico, liberalità dei cittadini e sicurezza interna della Repubblica. Emblematico è l’esempio citato nelle Storie dell’ambasciata di Lorenzo a Napoli nel dicembre del 1479, per trovare un accordo per porre termine alla guerra che vedeva Firenze contrapposta alla lega composta dallo Stato Pontificio e dal Regno di Napoli. Missione napoletana che da Guicciardini fu giudicata positiva in quanto prepose il bene pubblico dei cittadini fiorentini ai suoi interessi e alla sua stessa vita: «e pel debito universale di tutti e’ cittadini verso la patria e per particulare suo [ …]» (ivi 1998, p. 143).

Nel prosieguo del capitolo V Guicciardini imputava però a Lorenzo de’ Medici di essere un tiranno e le motivazioni che addusse possono essere di seguito elencate schematicamente:

– inserimento all’interno dei consigli cittadini, in modo particolare nel consiglio dei Cento, di persone non qualificate e incompetenti nelle materie da trattare, ma a lui devote;

– i matrimoni combinati tra le famiglie magnatizie fiorentine dovevano essere effettuati solamente tramite il suo consenso;

–  gli ambasciatori presso i maggiori Stati italiani, quali Roma,Napoli, e Milano, dovevano essere affiancati da cancellieri nominati da Lorenzo in persona e che dovevano avere il compito di controllare l’attività dei diplomatici fiorentini;

– utilizzo da parte di Lorenzo dei soldi pubblici per sostenere i bilanci delle filiali della banca di famiglia (ivi, pp. 177-179).

Il giudizio negativo che ebbe su Lorenzo de’ Medici e sulla sua tirannia fu dovuto alla forma mentis giuridica di Guicciardini. Evidente che tale giudizio di tirannide faccia riferimento al giurista Bartolo da Sassoferrato e in particolare alla sua opera il De Tyranno, che nel capitolo XII delineava la tipologia di «tirannide velata» (Bartolo da Sassoferrato 2020, pp. 130-132; cfr. Carta 2010; Carta 2012 ). Tirannide che veniva esercitata tramite un utilizzo delle regole costituzionali solo apparenti, ma di fatto violandone i limiti:

Lorenzo in breve tempo prese tanto piede e tanta riputazione, che governava a suo modo la città, la quale autorità ogni dì multiplicandogli e di poi diventata grandissima pella novità del ’78 e di poi per la ritornata di Napoli, visse insino alla morte governarsi e disponendosi la città tanto interamente a arbitrio suo, quanto se ne fussi stato signore a bacchetta» (Guicciardini 1998, pp. 100-108).

Lorenzo de’ Medici che a suo giudizio fu sì un tiranno di fatto, anche se rese la tirannia indolore per il popolo fiorentino: «ed insomma bisogna conchiudere che sotto lui la città non fussi in libertà, nondimeno che sarebbe impossibile avessi avuto un tiranno migliore e più piacevole: dal quale uscirono per inclinazione e bontà naturale infiniti beni […]» (ivi, p. 179).

Invece il giudizio che Guicciardini ebbe su Girolamo Savonarola, come uomo calato nella prassi politica della repubblica fiorentina, risulta essere positivo. L’unico errore che gli imputa è la simulazione, ma secondo lui era dovuta a errore di natura caratteriale del frate perché sopraffatto dalla superbia e dall’ambizione: «ma la quistione e differenzia resta circa la bontà della vita: in che è da notare che se in lui fu vizio, non vi fu altro che el simulatore causato da superbia ed ambizione» (ivi, pp. 277-279). Erano caratteristiche morali che per la filosofia morale cristiana andavano considerate un peccato, mentre in politica, se utilizzate per il bene dello Stato, erano dei valori aggiunti. Questa stessa tematica dell’ambizione Guicciardini riportò anche nei ricordi C32 e nella Consolatoria (cfr. Guicciardini, 1997; Guicciardini 1993, p. 111).

Dal capitolo XXIII al XXVI Guicciardini si concentra sulla figura politica del gonfaloniere Pier Soderini. Il suo governo fu contraddistinto dall’incompetenza dei membri delle varie magistrature, incompetenza che, per Guicciardini, era scientemente voluta dallo stesso Soderini, allo scopo di accentrare presso di sé tutte le decisioni in materia di governo della Repubblica. Strategia che dal 1502, dopo la nomina a gonfaloniere perpetuo, si palesò in modo chiaro (Guicciardini 1998, p. 410). Per concentrare il potere sulla figura del gonfaloniere, Soderini «creava quasi sempre di signori uomini deboli e di qualità che si lasciavano guidare in modo che tutta via, o tutti gli erano ossequenti e non gli manchino sei fave» (ivi, p. 412). L’obiettivo di questa politica consisteva nell’emarginare gli esponenti del ceto oligarchico da qualsiasi organismo politico della Repubblica (ivi, p. 413). Ebbe invece l’effetto di danneggiare la repubblica stessa. Tali concetti furono poi successivamente esposti negli anni seguenti nel cap. VII del Discorso di Logrogno (Cfr. Cutinelli-Rèndina 2009). Dal punto di vista di gestione finanziaria, il giudizio su Soderini fu invece positivo. Secondo la tesi di Guicciardini, Soderini fu un ottimo amministratore finanziario, perché quando fu eletto gonfaloniere l’istituzione del Monte, che gestiva l’entrata e la spesa pubblica aveva i bilanci in perdita. Con la successiva designazione di Soderini a gonfaloniere, tramite una sua attività di parsimonia e di riduzione dei costi della spesa pubblica, riuscì a far quadrare il bilancio del Monte nel giro di poco tempo. L’obiettivo era risollevare le sorti finanziarie del Monte ci fu anche una serie di contingenze, come la diminuzione della spesa pubblica per l’arruolamento di truppe mercenarie perché il contesto dovuto alla crisi con Cesare Borgia e gli aderenti alla lega della Magione era cessata.

In conclusione, i ritratti di questi personaggi che hanno influenzato la vita dei costumi e della politica di Firenze sono per Guicciardini emblematici nel porre in rilievo il ruolo e le qualità peculiari che avrebbe dovuto acquisire un individuo dedito all’attività politica: prudenza, parsimonia. Oltre a questi valori morali, una delle finalità del politico era garantire la stabilità sociale, economica e interna dello Stato.

La storia per Guicciardini può essere quindi definita una disciplina intellettuale, che tramite i nessi causali, l’analisi intellettuale e psicologica dei personaggi politici «fondata in rapporto al contesto politico» (Monteverdi 1998, p. 26) erano da exemplum su quale fosse una filosofia morale da applicare alla politica.

 

Bibliografia

  • Bartolo da Sassoferrato (2020). Bartolo da Sassoferrato e il trattato sulla tirannide. Urbino: Quattroventi.
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  • Cutinelli-Rèndina E. (2009). Guicciardini. Roma: Salerno Editrice.
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  • Quaglioni D. (2002). Politica e diritto in Guicciardini. In Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini. Atti del Convegno internazionale di Bologna, 19-21 ottobre 2000, a cura di Pasquini E., Prodi P. Bologna: il Mulino, pp. 181-195.
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  • Rubinstein N. (1953). The Storie Fiorentine and the Memorie Di Famiglia by Francesco Guicciardini. In «Rinascimento», IV, pp.171-225.

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