Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
In una idea poetica fondata completamente sulla memoria, è implicito un culto del passato e degli antenati. Per questo Ungaretti pone molta attenzione sulle sue radici letterarie: non solo per la sua condizione materiale di “sradicato”, ma anche per stabilire un contatto con le generazioni passate, per dare voce pura alla totalità del genere umano, composto tanto dalla comunità dei vivi che dalla comunità dei morti. Il rapporto che il poeta instaura con il passato, però, non è passivo. Tutt’altro: per Ungaretti il processo di immedesimazione è fondamentale, nella costruzione della sua genealogia. Questo aspetto risulta fondamentale tanto nel processo di traduzione, quanto in quello della critica. Cominciamo proprio da quest’ultimo punto.
Seguendo le indicazioni generali lasciateci da Mladen Machiedo, notiamo che la critica ungarettiana è completamente priva di premesse ideologiche e dichiarazioni metodologiche. Così facendo, allontana ogni criterio di scientificità, affidando gran parte del ragionamento alla comprensione profonda e umana dell’autore che sta affrontando. Questo processo arriva al massimo grado proprio quando va ad analizzare i testi, dove l’attenzione minuziosa per ogni singolo dettaglio e il trasporto personale che caratterizza il commento, denunciano un grado di immedesimazione tale che quasi sembra che i versi in questione siano stati scritti da lui stesso. Perché questo tipo di critica possa dare risultati importanti, è importante che corra affinità tra commentatore e commentato – se così non avviene, è facile che si incorra in clamorosi errori di valutazione. Questo lo si vede, ad esempio, in alcune pagine dedicate a Manzoni nelle Origini del romanticismo italiano, lezione brasiliana datata 1941.
Manzoni è per certi aspetti fuori dalla sensibilità ungarettiana, e questo basta per ostacolare una comprensione totale dell’autore. Infatti, Ungaretti compie quasi subito uno degli errori più grossolani in cui qualsiasi critico possa incappare, ovvero giudicare l’uomo prima dell’opera: «Per essere giusti col Manzoni, non si dovrebbe mai dimenticare ch’era un ometto che aveva paura di attraversare le strade se non gli davano la mano, e si trattava di strade, a quei tempi, per le quali passava, sì e no, una carrozzella ogni morte di papa». Questo giudizio, volto più a suscitare sorrisi che ad altro, dà la cifra di una immedesimazione impossibile, così che il resto della pagina dedicata all’opera dello scrittore milanese si risolve in una serie di luoghi comuni o interpretazioni eccessivamente azzardate – come voler vedere in don Abbondio uno specchio di Manzoni, accusandolo quindi un’ignavia mai presente in nessuno dei suoi scritti (va detto, comunque, che in altri luoghi il giudizio su Manzoni appare molto più lucido, di quello espresso in questa sede).
Un altro aspetto non trascurabile della critica ungarettiana è l’assoluta libertà con cui fa uso della nomenclatura storico-letteraria. Già si è vista, nel suo discorso sull’umanesimo, l’interpretazione di Iacopone da Todi, Guido Cavalcanti e Dante Alighieri come poeti pre-umanisti, ovvero preparatori all’avvento di Petrarca. A questo ci si aggiunga, ad esempio, il reclutamento del Parini tra le schiere dei romantici, in virtù di una sua «liberazione delle parole dalle convenzioni». Stessa etichetta romantica è poi fornita anche ad Alfieri e Foscolo con facilità a dir poco disarmante, se si pensa che ancora oggi la loro appartenenza o meno a questa o a quella temperie culturale è aspramente discussa. In questo caso, si nota il gusto del poeta per le catalogazioni, riconducibile sempre alla sua volontà di creare una linea poetica unitaria.
Per quanto riguarda, invece, l’aspetto delle traduzioni, è importante constatarne l’ampia mole e la varietà linguistica: si passa da Poe a Saint-John Perse, da Gòngora a Shakespeare, da Mallarmé a Oswald Andrade, da Esenin a William Blake, da Rimbaud a Omero, da Lucrezio a Ezra Pound. Oltre a questi, si contino anche diverse traduzioni in francese di frammenti dello Zibaldone. Alla luce di quanto detto riguardo la critica, si capisce perché l’esercizio della traduzione sia importante per Ungaretti. Oltre, infatti, ad essere una prova di stile, è il modo più diretto e solido per entrare in comunione con altri poeti, che siano classici o moderni. Per compiere la versione, Ungaretti deve forzatamente diventare un po’ il tradotto, così come quest’ultimo, una volta che il lavoro è compiuto, si tramuta un po’ in Ungaretti.
È emblematico che l’attività letteraria di Ungaretti sia partita proprio da una traduzione. Si tratta di Silence di Edgar Poe, datata 1910. Di questo testo abbiamo già parlato, ma tornarci sopra adesso è importante, poiché alcune tendenze del poeta, celate nei lavori della maturità, qui vengono invece fuori più prepotentemente. Ci si ricordi di due aspetti fondamentali: la libertà con cui Ungaretti svolge la traduzione e il motivo che spinge il giovane poeta a favorire questo racconto rispetto ad altri dello stesso autore, ovvero l’ambientazione desertica e desolata. Nella desolazione descritta da Poe, Ungaretti ritrova la desolazione della sua Africa, ci crea quindi una comunione tra lui e Poe. Nella traduzione, è come se Ungaretti concretizzasse questo legame, senza però rinunciare totalmente a sé stesso, e “deviando” il testo originale verso connotazioni più poetiche, quindi a lui più congeniali.
Decenni dopo (nel 1931), Ungaretti pone questa nota alla sua traduzione dell’Anabase di Saint-John Perse:
«valgono in quei luoghi, l’oscurità dei fenomeni naturali, il furore del sole, il clima a diversi piani, il vento inospitale, lo spettacolo del disseccamento progressivo della terra.»
Ancora il richiamo della desolazione e del deserto, ancora un’attrazione data dal riconoscere sé nell’altro. Ecco che l’atteggiamento del critico e del traduttore è lo stesso, e va verso una direzione ben precisa: l’affermazione totalizzante di sé stesso.
Ungaretti non si limita a interpretare o a farsi influenzare dall’esterno, bensì vi proietta la sua persona, le sue memorie, la sua vita. Questo processo totalizzante è in linea con la triplice analogia poesia – memoria – vita, e con l’idea già trattata di una linea unica di lirica pura, tutta volta verso l’uomo e la sua esperienza terrena. Tramite i versi Ungaretti vive le sensazioni di Leopardi, sempre tramite i versi Leopardi rivive in Ungaretti. Questo è applicabile ad ogni poeta degno di questo nome, non importa se classico o moderno, poiché la memoria è in grado di oltrepassare l’ostacolo temporale. La grande mole di traduzioni testimonia la volontà del poeta di tendere all’assoluto, di farsi depositario e interprete della memoria passata, ma anche della contemporaneità. Atteggiamento che pare molto simile a quello caratteristico della temperie in cui Ungaretti si è formato, ovvero la Parigi di inizio secolo. La capitale francese era importante centro di propagazione di novità culturali e di tendenze artistiche in tutta Europa: da lì arrivavano gli stimoli verso un rinnovamento delle forme tradizionali, da lì si diffondevano autori, generi e stili extra-europei (abbiamo visto la poesia giapponese e la figura di Poe), sempre da lì, nel dopoguerra, cominciò il processo di ritorno all’ordine. Aperta alle novità e agli stimoli esterni, la temperie culturale parigina accoglieva artisti e letterature provenienti da tutta Europa e da tutto il mondo, ma non si limitava a una acquisizione passiva. Tutto, infatti, veniva filtrato e influenzato dalle necessità artistiche e dal gusto estetico della capitale. Questo atteggiamento è riscontrabile, appunto, negli episodi già trattati della diffusione dell’haiku e della “leggenda” di Poe: nel primo caso si ha la formazione di un nuovo modello metrico ispirato sì alla poesia giapponese, ma di gusto e stimolo puramente europeo; nel secondo caso, Baudelaire riversa sé stesso nello scrittore statunitense, formandone una sorta di alter ego francese, “Edgarpò”, che poi per decenni – e un po’ ancora oggi – darà agli autori europei una visione un po’ deformata del personaggio.
Ciò che passa da Parigi, viene allo stesso tempo assimilato e mutato, così come succede agli scritti e ai poeti che entrano dentro l’orbita ungarettiana. In questo senso, il poeta di origini lucchesi diventa il più alto rappresentante e interprete della temperie culturale parigina ed europea del primo Novecento, nelle sue bellezze e contraddizioni.