Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Nella prefazione alla sua traduzione di Moby Dick, Cesare Pavese scrisse che «avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla». Questa affermazione, riferita ai primi autori statunitensi, che privi di radici guardavano avidamente all’Europa per carpire e far proprio un passato di cui erano ben consapevoli di esser privi, si rivela incredibilmente calzante anche nei confronti di uno dei poeti più rappresentativi del Novecento italiano, ovvero Giuseppe Ungaretti. Diversi critici, giustamente, hanno dato grande importanza al suo luogo di nascita, ovvero Alessandria d’Egitto. La famiglia Ungaretti, originaria del territorio lucchese, vi si trasferì per gli impegni lavorativi del padre Antonio, sterratore nei lavori di costruzione del canale di Suez. Ad Alessandria il giovane Giuseppe frequenta l’École Suisse Jacot, formandosi principalmente su autori francesi. A colpirlo particolarmente sono le poesie di Charles Baudelaire e di Stéphane Mallarmé. Nel 1912 lascia Alessandria d’Egitto, ma non per rientrare in Italia; la sua destinazione è infatti Parigi, dove si iscrive alla Sorbona.

La formazione giovanile di Ungaretti, dunque, si svolge quasi completamente all’estero, e in orbita francofona: prima in un centro periferico alessandrino, poi nel cuore stesso della cultura avanguardista novecentesca. Il dato più rilevante, però, è la mancanza di contatti, sia fisici che di studio, con la madrepatria. La condizione di “sradicato” è avvertita in maniera decisamente negativa dal poeta, che sempre anelerà, invece, a volersi sentire parte di un immenso insieme. Anche per questo, a Parigi, si avvicina subito ai futuristi italiani, in particolare al ramo fiorentino, che era fortemente legato agli ambienti dell’avanguardia francese.

Così, quando nel 1914 Ungaretti torna in patria, comincia la sua collaborazione con «Lacerba», storica rivista curata dai due dissidenti vociani Ardengo Soffici e Giovanni Papini. Proprio a quest’ultimo Ungaretti si lega molto, tanto da indirizzargli diverse lettere negli anni successivi, mentre era a combattere sul fronte. In queste lettere Ungaretti insiste molto sulla sua necessità di indagare le proprie radici  poetiche, di tracciare, insomma, una genealogia dei suoi antenati lirici.

Come ogni genealogia che si rispetti, è necessario partire dai rami più vicini all’autore, ovvero alle primissime influenze avvertite nei suoi esordi – che, si badi bene, non sono quelli dell’Allegria, ma nemmeno quelli dell’edizione 1916 del Porto sepolto. Ci stiamo riferendo, infatti, alle poche liriche (solo cinque) che il poeta pubblicò su «Lacerba» tra febbraio e aprile del 1915 – subito prima dello scoppio della guerra. I titoli sono: Il paesaggio d’Alessandria d’Egitto (7 febbraio 1915), Cresima (28 febbraio 1915), Ineffabile, Viso, Viareggio (17 aprile 1915).

Poniamo attenzione anzitutto ai primi due componimenti, che presentano caratteristiche comuni. Sono liriche anisosillabiche, in cui versi lunghi convivono con versi brevi, la prima di 25 versi e la seconda di 22. In queste prime prove la costruzione metrica è ben lontana dall’originalità del Porto sepolto. Si ritrovano, infatti, i versi liberi tipici di quel periodo. Si prenda, ad esempio, proprio l’inizio del Paesaggio d’Alessandria d’Egitto:

La verdura estenuata dal sole.

Il bove bendato prosegue il suo giro
Accompagna il congegno tondo stridente.
Si ferma alle pause regolari.

(vv. 1-4)

Il primo verso è un decasillabo regolare, i due seguenti sono degli endecasillabi eroici (recupero pascoliano), l’ultimo verso è un decasillabo con accentazione errata, tipico della prima produzione in versi futurista e di parte della poesia crepuscolare: invece che ictus di terza, sesta e nona, si hanno di seconda, quinta e nona. In pratica, la prima parte appare come un falso novenario.

La commistione di questi versi, uniti ad altri come tredecasillabi e versi alessandrini (regolari oppure ritoccati ritmicamente), è tipica, come s’è detto, di molti autori di versi liberi che a quel tempo orbitavano in area futurista. Particolarmente legati a questo stile metrico sono Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, entrambi in orbita lacerbiana, ma non è da dimenticare anche Luciano Folgore.

Altre componenti stilistiche, poi, saltano all’occhio. Anzitutto la presenza, sebbene rarefatta, della punteggiatura, poi la sintassi scarna, disadorna, frammentata (anche se non estremamente), tipica della grammatica crepuscolare. Non solo, però. In altri passi delle stesse liriche il poeta dà spazio anche ad una certa dose di giocosa irriverenza, come nella conclusione di Cresima:

Marameo!
Mi lancio nei precipizi.
Mi alleno ai capitomboli e ai salti mortali
Dei senza giudizio.
Sor Bartolomeo.

(vv. 18-22)

Ritroviamo qui l’attitudine tipica del poeta “saltimbanco” di Palazzeschi, che viene irrimediabilmente evocato da quel neologismo scherzoso “saltimortali”. C’è quindi da convenire con quanto già notato da Giuseppe De Robertis, ovvero che queste liriche risentono fortemente dell’influenza della poesia di Palazzeschi (in particolare, pare, quello dei Poemi, in cui sono appunto presenti anche venature crepuscolari).

Nei tre titoli successivi, però, assistiamo già ad una evoluzione stilistica piuttosto marcata. Anzitutto, i componimenti diventano decisamente più brevi: Ineffabile conta 7 versi, Viso 6 versi, Viareggio 4 versi. Le novità non si esauriscono qui, però. In queste liriche Ungaretti predilige di gran lunga l’uso di versi brevi. Solo l’ultimo verso di Viareggio, infatti, supera le dieci sillabe:

Viani
Sarà bella la pineta
Ma come ci si fa a dormire
Con tanti moscerini e tante cacate.

Qui si nota un’ascesa graduale del numero delle sillabe, volto a ricercare probabilmente un effetto grafico, e solo per questo motivo, quindi, l’ultimo verso arriva a contare ben dodici sillabe (settenario congiunto tramite sinalefe a un senario, anche in questo caso verso di reminescenza futurista-crepuscolare). A compensarlo, il primo verso di sole due sillabe. Oltre al dato metrico, però, si nota un altro importante evento: scompare completamente la punteggiatura. Ora, questo dato è sempre stato ricondotto all’influenza del manifesto futurista di Marinetti, che appunto ne imponeva l’abolizione in nome della velocità di lettura e di immaginazione analogica. Dati però i rapporti decisamente tesi che correvano tra il futurismo milanese e la redazione futurista di «Lacerba», e data la vicinanza di quest’ultima alle istanze avanguardiste francesi, è lecito affermare che questo tratto stilistico, così importante per gli sviluppi del Porto sepolto, sia stato assorbito tramite la mediazione dell’amico Apollinaire, esattamente come accadde per altri poeti lacerbiani, come Ardengo Soffici.

Nonostante le liriche più corte, i versi più brevi e l’abolizione della punteggiatura, però, non si deve pensare che l’Ungaretti poeta sia già sul punto di sprigionare tutta la sua originalità. Già dall’ultima poesia riportata, Viareggio, si vede quanto l’atmosfera crepuscolare e l’irriverenza di Palazzeschi siano ancora decisamente forti. Un passo in avanti verso la forza evocativa della produzione successiva sembra essere compiuto in Ineffabile:

Case a tentoni
Da una parte troppo mare
Troppo deserto dall’altra
Troppe stelle visibili

Tira avanti Thuile
I pippoli d’ambra
Della sua corona

I legami sintattici sono però ancora troppo solidi, così come i versi risultano eccessivamente verbosi. Senza dubbio, però, le atmosfere scherzose palazzeschiane se ne sono andate, così come il sommesso lessico crepuscolare. Per frantumare quest’ultimo si noti il senso di eccedenza di quel “troppo”, ripetuto ben tre volte per tre versi consecutivi, che va a scontrarsi con la grigia misura tipica dei poeti crepuscolari. Fa capolino un certo senso di meraviglia, solleticato forse da una carsica influenza di Corrado Govoni, poeta certo letto e apprezzato da Ungaretti (il collegamento tra Il palombaro e il Porto sepolto è cosa ben nota). Govoni, il poeta dell’accumulo, della meraviglia del mondo, della poesia come caleidoscopio del tutto, potrebbe aver ispirato quei repentini cambi di scenario a cui assistiamo nella prima strofa di Ineffabile, per la precisione uno per verso: prima le case, poi il mare, il deserto e le stelle. In questo modo, vi è una rievocazione degli elenchi govoniani, che hanno ispirato tanti poeti del primo Novecento (in particolare di area avanguardista). Nell’ultima strofa, invece, nonché nel suo significato oscuro e nel sapiente uso dell’enjambement per spezzare la sintassi della frase, si possono benissimo cogliere i primissimi germogli dello stile successivo.

Quanto emerso da questa analisi è dunque il fatto che il giovane Ungaretti, appena rimpatriato, vede come principali modelli lirici e linguistici i poeti d’avanguardia del suo tempo e, lungi da un approccio classico, tenta subito di cimentarsi nell’agone di quella koiné poetica. In particolare, a destare forte interesse sembra essere stata la lirica di Palazzeschi e di Govoni. Del primo rimarranno poche tracce, soprattutto del lato dissacrante e giullaresco. Qualcosa però potrebbe essere rimasto nella scelta di un lessico poco ricercato, comprensibile e quotidiano. L’intento alla base, però, è addirittura opposto: Palazzeschi intendeva dissacrare, Ungaretti sacralizzare la parola. Ben più fortuna, anche se sotterranea, è toccata a Govoni, da cui Ungaretti rielabora la meraviglia nei confronti del creato, rendendola mistica, da surrealista qual era.

I lasciti più importanti sono però legati alle soluzioni formali: la spezzatura del verso e la ricorrenza degli enjambement allo scopo di disintegrare la sintassi, l’abolizione della punteggiatura, la ricerca di soluzioni grafiche nella stesura della lirica – tutte cose che furono poi rielaborate in maniera assolutamente originale da Ungaretti nella poesia successiva. È così che «Lacerba» svolse ruolo di “palestra” per lo stile del Porto sepolto.

(fine prima parte)

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