Recensione a: A. Tilgher, Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale (Homo Faber), Massimiliano Boni Editore, Bologna 1983, pp. 180, € 13,00.
Il lavoro dell’uomo ha due amanti, materia e spirito. Per meglio spiegare la relazione che intercorre fra il soggetto amato, il lavoro, e i soggetti amanti, spirito e materia, dobbiamo prima prendere l’opera del filosofo Adriano Tilgher (1887-1941) originariamente pubblicata nel 1929 col titolo Homo faber e ristampata nel 1983 con il titolo Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale per dissezionarla in parti uguali e al contempo diverse.
In poche pagine, poco più di 170, Tilgher tenta l’impresa di narrare le concezioni che hanno permeato il concetto del lavoro nell’arco di oltre due millenni. Il filosofo napoletano parte da una premessa mai esplicitata ma quanto mai sottesa all’intero saggio: se vogliamo conoscere chi siamo e come pensiamo oggi, non possiamo non invocare l’uomo che eravamo in passato, perché, nonostante le nostre storie quotidiane siano ben lontane da una qualche forma di somiglianza sostanziale rispetto a quelle di un uomo della storia antica, il bisogno di pensare il lavoro è, come avrebbe detto Totò, “na livella”. Eguaglia tutti, pone sullo stesso piano chiunque di noi, nessuno escluso.
Eccoci quindi al primo amante, la materia. È immediata l’associazione della materia al generico lavoro manuale, all’artigiano che modella il legno o al fabbro che tempra l’acciaio. Eppure, ad eccezione di pochissimi casi, anche i lavori riconosciuti genericamente come intellettuali devono stringere una connessione diretta con il mondo fenomenico: lo scrittore con la penna, lo psicologo con il paziente in carne ed ossa, lo storico con i libri e via discorrendo. La differenza fra i due, fra l’homo sapiens e l’homo faber, è di grado perché non c’è materia senza lavoro e non c’è lavoro senza materia.
Tilgher nel suo saggio dedica il primo capitolo al mondo ellenico ed è proprio qui che vale la pena soffermarsi per trovare un primo e fondamentale concetto del lavoro.
I Greci credevano che il lavoro altro non fosse che un esercizio necessario e al contempo imbevuto di sofferenza. La parola lavoro in greco deriva da ponos che presenta la stessa radice della parola latina poena, travaglio, fatica, pena appunto. Non però tutti i lavori, secondo i Greci, erano fonti di calamità esistenziali. Solo una fattispecie in particolare, quello manuale. Il motivo era presto detto. Il mondo fenomenico è un insieme di cose e oggetti che sono in continuo divenire: mutano, si generano e si corrompono, come scrive Tilgher, in una sorta di dimensione spazio-temporale ciclica. L’uomo più entra in contatto fisicamente con questo processo in divenire, più si corrompe. Nel relazionarsi con la materia, il suo spirito sarà meno libero di ricercare il vero nel mondo delle Idee, per dirla alla Platone. L’artigiano, per forza di cose, vagherà così in una landa lontana e desolata dove la virtù sarà tenuta al bando. Come scriveva Aristotele: «la costituzione perfetta non farà mai cittadino un operaio meccanico».
L’homo faber con la sua materia da una parte, homo sapiens con il suo spirito dall’altra: il primo surclassato in dignità e potere economico perché schiavo della materia; il secondo più libero perché svincolato dalla corruzione del mondo fenomenico. La loro è una differenza anche di status economico, inevitabilmente una differenza di ieri come di oggi. In qualche modo il mondo ellenico con la sua antropologia dualista, che vede l’inconciliabilità di materia e spirito, ha aperto uno squarcio nel mondo del lavoro nel quale la diseguaglianza non ha fatto altro che allargare i margini di questo taglio. Diseguaglianza che si è fatta quindi causa ed effetto di questo processo. Non sono forse i lavori definiti intellettuali quelli meglio retribuiti? Ovvio che sì. È un retaggio concettuale di tradizione ellenica che sposiamo da secoli, soprattutto noi occidentali, quello secondo cui chi plasma la materia è un cittadino di serie B, che svolge sì lavori dignitosi, ma non quanto quelli dell’homo sapiens.
Definire cosa è materia è piuttosto intuibile o almeno così sembrerebbe. Operazione però ben più ardua è definire l’altro amante, lo spirito, soprattutto se si parla di lavoro. Tilgher nel suo saggio ne dà una definizione in termine di trascendenza. Spirito è quel soffio vitale che ricerca il senso fuori dalla corporeità della realtà fenomenica. Lo spirituale così è cosa ben distinta dal materiale perché il primo trascende l’individuo in un processo di distacco dal proprio ego. E chi ha rivitalizzato, secondo Tilgher, il ruolo del lavoratore manuale, che ha riempito di spiritualità quei processi produttivi che secondo i Greci erano invece solo fonte di pena? L’ebraismo prima e, conseguentemente, il cristianesimo dopo.
Per l’ebraismo il lavoro è sì, come per i Greci, travaglio, ma diventa al contempo esercizio di espiazione dal peccato. Quale peccato? Il peccato originale dell’uomo. Il lavoro non è più così solo un prodotto necessario per la semplice sussistenza dell’uomo e quindi di per sé penoso, ma si fa atto consapevole e quindi cosciente. Lo spirito entra di prepotenza nella materia perché del resto se il Dio cristiano è creatore di ogni cosa, l’artigiano che modella il legno diventa servo della volontà di Dio, quasi al pari di un lavoratore intellettuale. Ed ecco così superata l’antropologia dualista di matrice greca da un’antropologia monista. Spirito e materia riescono finalmente a dialogare, perché il primo dà senso al non senso del lavoro.
Non stupisce che il cristianesimo sia stato un fondamentale vettore egualitario nella storia dell’Occidente. È riuscito a restringere, ma non chiaramente a chiudere, lo squarcio dell’antropologia dualista. Ma l’operazione di ricucitura dei margini ha trovato momenti altalenanti a partire dal Rinascimento, quando non più Dio ma l’uomo si è posto al centro del mondo in un lento e graduale processo di laicizzazione del mondo produttivo. Da lì lo spirito del lavoro ha assunto forme del tutto nuove. Quali? Così scriveva Tiglher:
Per l’uomo moderno lo spirito è essenzialmente attività (sforzo, volontà, azione, prassi) che ha per destinazione, non già di specchiare passivamente il mondo e di darne un duplicato ideale, ma di costruirlo come mondo (cioè come cosmo, come regolare ordinanza di cose e di oggetti).
A partire dal XX secolo, lo spirito del lavoro si fa immanentismo, la conoscenza diventa azione perché conoscere il mondo è trasformare il mondo. Lavorare significa così modellare il mondo a misura della volontà dell’uomo. Parafrasando, potremmo dire che Dio non è più presente nel sindacato dei lavoratori.
Tutto questo ha innescato un corto circuito nel rapporto fra materia e spirito. Se l’elemento costitutivo dello spirito del lavoro risiede unicamente nell’arte della creazione, l’uomo non agisce più in funzione del mistero divino, del non-sé, ma solo come diretta volontà del suo spirito terreno, in nome di ciò che produce in quanto tangibile. Così facendo lo spirito del lavoro, con il suo carattere demiurgico, cioè creativo, è definitivamente diventato servo della materia. Come scriveva Tilgher:
La via attraverso la quale l’uomo moderno cerca la redenzione non è più il dominio sulle passioni, l’ascetico raccoglimento interiore: è il lavoro col quale viene sempre più trasformando il mondo esterno e assoggettandolo ai propri fini.
Ma sarà vera redenzione? Non credo. Si è ritornati in una nuova e diversa antropologia monista rispetto a quella greca, che vede questa volta l’asservimento dello spirito alla materia. A farne le spese oggi sono tutti, lavori manuali e intellettuali, entrambi annichiliti dalla perdita di senso spirituale. Un dato colpisce e fa riflettere come non mai: nel rapporto di Gallup sul mondo del lavoro, State of Global Workplace, sulla base di dati raccolti in 155 Stati fra il 2014 e il 2016, emerge che solo il 15% dei lavoratori si sente coinvolto (engaged) nel proprio lavoro. Dati che non chiedono ulteriori commenti.
Ora alla luce di quanto esposto, viene da chiedersi che tipo di relazione il lavoro dovrebbe stringere con i suoi due amanti, spirito e materia. Una relazione totalizzante con la materia, come abbiamo visto, non può far altro che produrre una perdita di senso, un annichilimento spirituale. Ma al contempo uno spirito che si fa da solo carico della relazione porterebbe ad esiti ancora più infausti: all’annientamento fisico forse dell’uomo stesso? Allora la sfida dell’uomo moderno e ancora di più di quello post-moderno sarà quella di camminare su quella fune sottile che è il lavoro, consapevole che l’equilibrio va cercato nel tendere le braccia a entrambi: spirito e materia.