Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
J-L. Harouel, I diritti dell’uomo contro il popolo
Liberilibri, Macerata 2019, pp. 142, €15,00.

I diritti dell’uomo sono diventati la nostra religione civile. (F. Furet).

Alla mancanza di orientamento contemporaneo contribuisce certamente una retorica dei diritti dell’uomo tanto nobile (forse) nella teoria quanto vacua e potenzialmente nefasta nei suoi risvolti pratici. Si dice che siamo tutti esseri umani, appartenenti a una medesima famiglia indistinta. L’identità, in altre parole, è diventata qualcosa di accessorio, un orpello che disturba i più. Non si parli poi di fede e religione: si corre l’alea di essere considerati discriminatori. Non ci sono differenze, abbiamo tutti gli stessi diritti. Poco importa che questi presunti diritti collidano non poco con gli autentici diritti di libertà che hanno reso grande la parte del mondo in cui viviamo, e che, nonostante tutto, rimane quella più appetibile in cui risiedere.

Jean-Louis Harouel, professore emerito di storia del diritto, ha dato alle stampe nel 2016 un saggio urticante tradotto nel 2019 per i tipi della maceratese Liberilibri: I diritti dell’uomo contro il popolo (pp. 142, 15 €, con introduzione di Vittorio Robiati Bendaud). Si tratta, come si legge nell’introduzione, di «un’opera lucidamente divisiva» ed è bene sia così: a forza di remare tutti nella stessa direzione viene meno quella creatività, quella dinamicità, quella conflittualità che contraddistingue uno dei cardini dell’Occidente. L’Autore teme per la civiltà occidentale e la Francia giacché, a furia di elogiare e incoraggiare l’apertura promossa teoricamente dai diritti dell’uomo si rischia di raggiungere la meta opposta: un mondo fatto di censure, divieti, polizia del pensiero e della libertà di espressione. Insomma, «i diritti dell’uomo, generati dall’Occidente per proteggere i propri cittadini contro i rischi dell’arbitrio del potere, sono diventati da mezzo secolo una religione secolare suicida per gli occidentali» (p. 22).

Già François Furet notò come «i diritti dell’uomo sono diventati la nostra religione civile». Il sacro è solo apparentemente scomparso. Si è solo orientato verso forme secolari alimentando “religioni politiche” o “religioni secolari”, per citare Eric Voegelin e Raymond Aron. Harouel vede nei diritti dell’uomo l’estrema propaggine di quella religione dell’umanità che già il comunismo e il socialismo incarnarono. Solo che, per dirla ancora con Furet, i diritti dell’uomo hanno sostituito la lotta di classe, mantenendo però lo stesso fine: «l’emancipazione dell’umanità», l’instaurazione del paradiso in terra, la creazione di una società perfetta e definitivamente riconciliata.

Scrive Harouel: «i diritti dell’uomo sono la religione secolare che ha dato il cambio alla religione secolare comunista. I diritti dell’uomo sono seguiti al comunismo come progetto universale di benessere, come promessa del regno del bene sulla Terra. E siccome la religione politica dei diritti dell’uomo è anch’essa un millenarismo e una gnosi, propugna, così come il comunismo, un meccanicismo storico avente per effetto la distruzione di quelli che avranno la malasorte di essere di ostacolo alla sua marcia inesorabile» (p. 40). Il comunismo anelava alla società perfetta attraverso la soppressione della proprietà privata, mentre il millenarismo dei diritti dell’uomo mira a sopprimere ogni differenza esistente tra gli uomini. L’impasto di gnosi e millenarismo, scrive l’Autore, si deve in particolare a Gioacchino da Fiore: il suo messaggio messianico è alla base dei tentativi di redimere il mondo per instaurare una società perfetta.

L’Europa e l’Occidente per come li conosciamo, scrive Harouel, rischiano di scomparire per una sorta di masochistico autolesionismo: servendosi del dogma memista, ovvero «dell’ideologia dell’indifferenziazione e dell’identità tra tutti gli essere umani» (p. 42), i diritti dell’uomo mirano ad appianare ogni diversità. Il disprezzo di sé, la colpevolizzazione ossessiva e financo l’odio viscerale per la propria civiltà, spingono l’Occidente a sposare l’indistinto e l’uniformità. La benevola e rassicurante etichetta di “diritti dell’uomo” cela, in realtà, un vero e proprio dispotismo antirazzista.

La cifra tragica di questo schema è che è venuta meno l’originaria e peculiarmente occidentale portata liberale dei diritti: «sono passati in secondo piano i diritti individuali di base, i diritti-libertà riconosciuti agli individui per garantirli contro possibili abusi da parte dei loro governanti», mentre ormai «il centro di gravità della morale dei diritti dell’uomo si è spostato verso il principio di non-discriminazione» (p. 53) e così il dispositivo statuale si fa portatore ed estremo difensore di questa morale che, a parole, è oltremodo inclusiva ed è in realtà profondamente escludente. Quella separazione tipicamente occidentale tra sfera politica e religiosa si è, attraverso l’idolatria dei diritti dell’uomo, incarnata in un nuovo «diritto religioso»: una religione di stato basata sulla suprema e inoppugnabile moralità dei diritti dell’uomo. Con questa fusione tra diritto, politica e religione, insomma, l’Occidente ha smarrito gran parte della sua unicità.

«Con la religione dei diritti dell’uomo – scrive Harouel – si degrada il concetto di cittadinanza» (p. 94). Essi portano alla disgregazione della società, giacché non tengono minimamente conto delle diversità, delle differenze che intercorrono tra le differenti realtà comunitarie: esiste solo l’uomo astratto, avulso dai contesti associativi concreti, amico dell’intero genere umano. D’altro canto, com’è noto, la derivazione dei diritti dell’uomo è legata ai principi universali inaugurati dalla Rivoluzione francese. Sul carattere escludente dell’astrattismo universalistico e la portata religiosa di tali precetti, già Tocqueville ne L’antico regime e la rivoluzione scrisse parole di fuoco: «la Rivoluzione francese operò, in rapporto al mondo terreno, precisamente allo stesso modo che le rivoluzioni religiose in rapporto al mondo celeste; essa riguardò il cittadino in maniera astratta, all’infuori di ogni determinata società, come le religioni considerano l’uomo in generale, indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Essa non cercò di stabilire soltanto quale fosse il diritto del cittadino francese in particolare, ma quali i doveri e i diritti degli uomini in materia politica. […] Poiché sembrava tendere alla rigenerazione del genere umano, più ancora che alla riforma della Francia, essa poté accendere passioni che, sino allora, le rivoluzioni politiche anche più violente non avevano mai saputo produrre. Essa indusse al proselitismo, diede luogo alla propaganda. Con ciò, infine, poté assumere quell’aspetto di rivoluzione religiosa […] o meglio divenne essa stessa una specie di nuova religione, religione imperfetta, è ben vero, senza Dio, senza culto, senza vita oltre tomba, ma che, tuttavia, invase tutta la terra, come l’islamismo, coi suoi soldati, i suoi martiri, i suoi apostoli».

I diritti dell’uomo, sostiene Harouel, sono il cavallo di Troia dell’Islam. Attraverso essi, vengono gettati ponti e parole di amore e fraternità nei confronti di chi, al contrario, lancia sfide esiziali nei riguardi dei bastioni occidentali: su tutti, la separazione tra sfera religiosa e politica che per l’Islam è altamente problematica. Una certa pavidità europea e occidentale riscontrata da Harouel rispetto all’Islam c’è, è chiaro: si pensi, solo per fare un esempio, al fatto che ogni volta si critichi tale religione si viene tacciati di “islamofobia”. Una pavidità che alcuni musulmani settari non possono che sfruttare: «con le vostre leggi democratiche noi vi colonizzeremo. Con le nostre leggi coraniche noi vi di domineremo», così disse a Roma nel 2002 uno dei dirigenti dei Fratelli Musulmani, scrive lo storico del diritto (p. 3). Al contempo, tuttavia, come nota Robiati Bendaud nell’introduzione, non si può descrivere l’islam come un monolite. Si tratta, allora, di rigettare «la società dei diritti umani assurti a religione civile e a messianismo laico [che] esalta l’indistinto e nega la differenza, in nome di un’apparente e benevola integrazione. Alla negazione della realtà, pur se controversa e dolente – osserva Robiati Bendaud – corrisponde l’imposizione di un ideale omologante»: al contrario, dobbiamo far nostro il rispetto basato sulla «dignità della differenza» (p. XIV).

Insomma, al posto della stolida e rovinosa apertura incondizionata all’altro promossa dalla religione dei diritti dell’uomo, «ritorniamo, in maniera più realistica e meno pericolosa, ai diritti dell’uomo concepiti come diritti a difesa dei cittadini contro il potere, cioè alle libertà pubbliche, e in particolare alla libertà d’espressione, oggi così minacciata dal politicamente corretto della religione dei diritti dell’uomo» (p. 96). E proviamo a riscoprire quel senso di orientamento, radicamento e identità, magari pure plurali, che ci rendono individui incarnati e di cui non dovremmo aver vergogna.

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