Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
R. Kurk, Prospects for Conservatives [1956]
introduction by B.J. Birzer
Imaginative Conservative Books, New York 2013, pp. 278, $17,95.

In Prospects, Kirk discorre non mediante la lente dell’ideologo o dello scienziato intento a scovare la cura miracolosa dei mali della modernità, bensì con l’occhio di chi si rende conto che l’uomo, la persona, non è che un granello in uno spazio infinitamente più grande e irriducibile ai tentativi di imbrigliarlo in statistiche o strumenti volti alla comprensione definitiva di rapporti di causa-effetto. Come scrive egli stesso, infatti, il vero conservatore non si lascia ammaliare dagli strumenti che il progresso scientifico-tecnologico gli mette a disposizione: egli, sempre, deve farsi guidare da quella saggezza che gli perviene da chi lo ha preceduto, sulla scorta di Edmund Burke, e da una prudente umiltà che gli fa rifuggire pronte astrazioni e magici rimedi ai complessi problemi che il mondo pone.

In seno alla modernità, Kirk riscontra o intuisce, come fece anche Richard Weaver in Ideas Have Consequences, alcuni mali. Su tutti, quello della noia sociale di massa, a cui è dedicato il quinto capitolo, il più lungo. Profondo appassionato e studioso di letteratura, dei classici e della mitologia greca, i quali secondo lui sono un imprescindibile strumento per uomini adulti e maturi, Kirk descrive la situazione a lui coeva come quella in cui si era trovato Perseo a confrontarsi con Medusa. L’utilitarismo e il materialismo, il culto del progresso e l’idolatria della scienza, lo smarrimento della fede e la ricerca di nuovi, perché sempre l’uomo ha bisogno di credere in qualcosa, e secolari idoli, sono i mali che il redivivo Perseo si trova a dover fronteggiare. Emergono così i temi frutto di discussione nel volume, così nell’ordine: il problema della mente o dell’intelletto da salvare in un’età massificate e uniformante; il tema del cuore o del ripristino di aspirazioni spirituali; il tema della noia, come si è detto poc’anzi; i temi della comunità e della giustizia sociale; i temi dei giusti desideri e quello dell’ordine; i temi del potere e della lealtà; infine, non poteva mancare il tema della tradizione.

Possiamo chiamarla “fuga davanti a Dio”, per citare Max Picard, o “abolizione dell’uomo” per citare Clive S. Lewis, due pensatori assai apprezzati da Kirk: l’uomo moderno soffre di un profondo male spirituale. Essendosi allontanato da principi e valori primi, l’uomo non sa più dove attraccare. Andrà così in cerca di surrogati mondani che, però, si consumeranno presto, sostituiti da sempre nuovi e più smaglianti idoli. Tuttavia, essi, prodotti dall’uomo, e non già da un essere imperscrutabile e superiore, saranno anche imperfetti, facili da sostituire, pronti da consumare. Al posto del silenzio e della contemplazione, della verità e della stabilità, il moderno sistema industriale getta via qualsiasi barlume di certezza e di radice. La persona contenutisticamente piena, qualitativamente definita, è sostituita da un bolso e quantitativamente amorfo individuo: la società viene sostituita dalla massa.

La persona, fuggita dalla fede, incapace di raccogliere e costruire sopra l’eredità del passato, è ormai in balia del cambiamento. L’educazione liberale che doveva servire da bilanciamento agli afflati momentanei, come da freno interiore, è ormai decaduta a favore di un’istruzione omologante e superficiale. La razionalità, o una sua presunta, pallida copia ha sostituito, come da retaggio illuministico francese, la tradizione: ma può la persona sopravvivere senza aver sotto di lui, a mo’ di sostegno, ciò che ha forgiato le generazioni? Può esistere l’uomo in un vuoto abissale? Secondo Kirk, il quale scrive criticando le tesi di David Riesman, l’individuo necessita ancora, come lo sarà sempre, di essere diretto dalla tradizione. La nuda ragione non si auto-fonda, giacché l’uomo, è un essere storico, incarnato e immerso in un mondo che non esiste in un fluttuante presente: il senso di continuità è ciò che rende viva e vivace l’esistenza umana, attraverso la tradizione.

Scrive Kirk: «The tradition-directed person is not bored, for he feels himself to be a part of an immortal continuity and essence, and so put into this world for a purpose; and to fulfill that end – sometimes an inscrutable purpose, but an object in life, all the same – he labors habitually: it does not occur to his mind to be enduringly and consistently bored» (p. 85). L’individuo auto-diretto riesmaniano, certamente, sviluppa capacità di autocontrollo e direzione, e non si lascia irretire dalla massa, il che invece è tipico di quello eterodiretto: ma può sostenersi da sé?

L’individuo autodiretto, se non aiutato, in modo radicale, dall’appoggio tradizionale rischia di non farcela. Egli può divenire un essere senza radici e deprivato di principi e valori ultimi: in ciò, potrebbe financo divenire una facile preda del collettivismo statalista. Le analisi di Kirk sono, a ben vedere, prossime a quelle degli amici Wilhelm Röpke e Robert Nisbet, autori di fondamentali volumi quali, rispettivamente, La crisi sociale del nostro tempo (1942) e La comunità e lo stato (1953). Secondo Kirk, infatti, il rischio è quello di una proletarizzazione universale, con ciò intendendo l’estensione su scala vasta e massiccia di uomini privi di un centro e senza radici, veri e propri atomi sociali scevri di uno spirito e dotati solo di una precaria forma.

La grande questione, afferma Kirk, è, allora, se la vita valga la pena di essere vissuta:

Are men and women to live as human persons, formed in God’s image, with the minds and hearts and individuality of spiritual beings, or are they to become creatures less than human, herded by the masters of the total state, debauched by the indulgence of every appetite, deprived of the consolations of religion and tradition and learning and the sense of continuity, drenched in propaganda, aimless amusements, and the flood of sensual triviality which is supplanting the private reason? Are they to be themselves, endowed with personality and variety and hope, or are they to be vague faces in the Lonely Crowd, devoid of all traditional motives to integrity? (p. 234).

La storia ha sconfitto il marxismo; i liberal si sono in qualche modo sconfitti da sé, con il loro «ottimismo isterico», per dirla con Weaver, vittime dei loro stessi pregiudizi che recidono incessantemente le stesse condizioni di una vita davvero umana. Sapranno i conservatori preservare «the permanent things» dai mai domi e sempre rinnovati nemici della persona umana, si chiede Kirk?

A conclusione di The Politics of Prudence, egli si era detto fiducioso circa le capacità delle nuove generazioni di salvare il mondo dal suicidio perpetrato dagli uomini medesimi. All’ottimismo, in fondo, va sostituita la speranza che, se riscoperte le basi e i fondamenti della persona umana, non tutto sia mai definitivamente perduto. Qualcosa di buono per cui combattere, lascia pensare Kirk, esiste e sempre esisterà.

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