Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
R. Kurk, Prospects for Conservatives [1956]
introduction by B.J. Birzer
Imaginative Conservative Books, New York 2013, pp. 278, $17,95.

Russell Kirk (1918-1994) è stato uno dei più importanti pensatori conservatori americani. Il suo The Conservative Mind, pubblicato originariamente nel 1953, con le sue numerose, successive ristampe e integrazioni, non è certamente il primo volume, in ordine cronologico, a ridare vita alla tradizione conservatrice american. Ne è, tuttavia, una delle massime e più potenti espressioni. Insieme a Robert Nisbet, Richard Weaver, Peter Viereck, solo per citare altri importanti personalità a lui coeve, Kirk viene convenzionalmente annoverato, in seno al plurale e poliedrico movimento conservatore americano, tra i cosiddetti “New Conservatives” o tradizionalisti. Se il volume del 1953 è stato quello che lo ha reso famoso e lo ha reso un’autorità nel campo conservatore, il successivo A Program for Conservatives, pubblicato nel 1954 a mo’ di risposta alle critiche da egli subite, è passato un po’ in sordina. Eppure, come nota il curatore Bradley Birzer, autore di una pregevole monografia dedicatagli, Russell Kirk. American Conservative (University Press of Kentucky 2015), è uno dei volumi più interessanti del secolo passato, forse addirittura il suo migliore.

Autore prolifico e instancabile, “Doctor of Letters”, come non si stancava di ripetere, e storico delle idee, Kirk nel volume del 1953, che non è altro che la tesi di dottorato discussa in Scozia alla St. Andrews University, tesse le trame di una tradizione conservatrice anglo-americana identificando in Edmund Burke, a cui nel 1967 dedicherà una monografia, il proprio nume tutelare. Rigettando l’idea che il conservatorismo fosse un’ideologia, intendendo con quest’ultima, invece, il fanatismo politico tipico di rivoluzionari e intellettuali di professione che si prefiggono la ri-edificazione di un ordine mondano perfetto e armonioso, Kirk definì il pensiero conservatore basato su sei canoni. A dimostrazione della propria attitudine anti-ideologica, ovvero restia a formulare astratti, definitivi e ossificanti schemi onnicomprensivi, egli modificò, durante il proprio pellegrinaggio intellettuale, la propria visione, ma sempre opponendola alla mentalità ideologico-rivoluzionaria.

In uno dei suoi ultimi e più importanti lavori, The Politics of Prudence (1993, tradotto nel 2002 per le Edizioni Scientifiche Italiane con il titolo La prudenza come criterio politico), come molti altri frutto, almeno in parte, della trascrizione di conferenze tenute e interventi apparsi precedentemente su riviste, Kirk descrisse il conservatorismo come la negazione stessa dell’ideologia. Uno stato della mente, un tipo di carattere o un modo di guardare all’ordine sociale civile che aveva in alcuni assunti, o principi – ed egli ne enucleò dieci, infine – i suoi punti di riferimento.

Al cuore o alla base dell’esistenza umana, secondo Kirk, stava comunque l’idea che esistesse un ordine morale durevole e permanente che eleva l’uomo da una condizione di brutale bestialità mondana. Critico della modernità materialistica e del culto del progresso, così come di progetti di rigenerazione sociale basati sul razionalismo scientistico, Kirk considera i problemi di natura politica ed economica come questioni, essenzialmente, riconducibili all’etica e alla dimensione religiosa dell’esistenza umana. Secondo lui, infatti, una civiltà non può durare se non è imperniata attorno alla credenza di un misterioso ed imperscrutabile ordine trascendente che impedisce la disintegrazione del mondo umano. Se tale credenza viene meno, è probabile che l’uomo rincorra quelle religioni politiche che durante la prima parte del Novecento si sono con veemenza manifestate.

Prospects for Conservatives, pubblicato per la prima volta nel 1956, altro non è che la riedizone di A Program for Conservatives, di due anni precedente. Il titolo di quest’ultimo non va letto come la puntuale controproposta programmatica conservatrice: ciò, infatti, porrebbe il conservatorismo sul medesimo piano di ciò che Kirk avversa. Il titolo, allora, può essere letto come una canzonatoria ironia nei confronti della presunzione tipica della mentalità liberal di escogitare un piano per risolvere qualsiasi problema razionalmente e scientificamente. Il mondo, secondo Kirk, non può essere redento o rigenerato attraverso l’elaborazione di formule magiche quali il calcolo felicifico benthamiano o l’ideologia marxista. La vita, in altre parole, non è una gabbia in cui rinchiudere l’esperienza umana. Imperfezione, fallibilità, ignoranza, tragicità della vita: sono queste verità permanenti a caratterizzare la persona e a donarle quell’irriducibile dignità da opporsi a schemi volti alla redenzione e alla ricostruzione della realtà. Da ciò deriva il rifiuto categorico kirkiano di elaborare un piano per risolvere una volta per tutte i problemi che la persona incontra in terra.

Pertanto, chiunque tenti di trovare raccomandazioni di politiche pubbliche nel volume fatica per nulla. Kirk porta la discussione su un piano più alto, quello dei principi che rendono l’uomo una persona la cui esistenza ha un significato etico e spirituale, e non s’identifica solo mediante un corpo i cui appetiti vanno soddisfatti senza fine. Una forte influenza, in tal senso, è segnata dall’umanesimo cristiano di inizio e metà Novecento, in particolare Irving Babbitt, Christopher Dawson e T.S. Eliot, solo per citarne alcuni. Come nota Birzer nell’edizione ivi considerata, i capitoli del volume sembrano riecheggiare, in qualche modo, la trattazione o delle sette virtù classiche e cristiane o i sette peccati capitali. Il libro, rispetto all’edizione precedente, oltre a mutare il titolo, come detto, risente pure di alcuni tagli di copiose citazioni o di trattazioni di alcuni pensatori come Ludwig von Mises o David Riesman (che comunque rimane un perno polemico anche in Prospects).

Tacciato di nostalgismo e le sue idee di scarsa applicabilità nel mondo moderno – ma, del resto, come si è detto, non può essere questo l’intento kirkiano: lo scopo è ri-scoprire quei principi e quelle verità che rendono la persona né mero atomo sociale né semplice consumatore di soddisfazioni materiali – egli nondimeno ricevette anche importanti apprezzamenti. Francis Wilson, ad esempio, apprezzò il tentativo del “saggio” di Mecosta di ridare linfa vitale e spirituale all’anima di uno spaesato individuo moderno. Richard Weaver, il quale si poneva su un piano assai prossimo a quello kirkiano, vide, dal canto suo, il libro come una fondamentale affermazione di principi morali e spirituali da opporre alla disordinata e progressista modernità. Prima di passare alla trattazione di quelli che considera i problemi del suo tempo, Kirk si chiede quale sia, in fondo, l’oggetto della vita umana secondo una prospettiva conservatrice. Ecco la risposta, che vale la pena citare per intero:

The enlightened conservative does not believe that the end or aim of life is competition; or success; or enjoyment; or longevity; or power; or possessions. He believes, instead, that the object of life is Love. He vows – prosegue Kirk – that the just and ordered society is that in which Love governs us, so far as Love ever can reign in this world of sorrows; and he know that the anarchical or the tyrannical society in which Love lies corrupt. He has learnt that Love is the source of all being, and that Hell itself is ordained by Love. He understands that Death, when we have finished the part that was assigned to us, is the reward of Live. And he apprehends the truth – conclude Kirk – that the greatest happiness ever granted to a man is a privilege of being happy in the hour of his death. (p. 15)

Chi sono dunque i conservatori, secondo Kirk? Non certo chi idoleggia il Progresso o la nuda Ragione. Non chi idolatria miti terreni come l’Efficienza, l’Eguaglianza o anche l’assoluta Libertà. La mentalità conservatrice, impersonata massimamente da Edmund Burke, rifugge le nude astrazioni o le schematiche semplificazioni. Secondo Kirk, una tale sensibilità non è fatta propria da una classe sociale particolare o da chi dichiara un certo livello di reddito o, ancora, da chi possiede un certo livello di istruzione. Essa è fatta propria, invece, da chi riconosce il senso di continuità tra le generazioni e che, pertanto, assume un carattere reverenziale, sebbene non dogmatico, nei confronti del passato. È fatta propria da chi riconosce di far parte di un ordine che comprende l’individuo ma che gli preesiste ed è più grande di lui. È fatta propria da chi percepisce che, in questo mondo, esiste il Bene ma esiste anche il Male e che l’uomo può, attraverso un’educazione liberale, allevare la propria capacità di discernimento. È fatta propria da chi è scettico nei confronti degli ideologhi che promettono il Paradiso in terra. All’uomo, nel mondo terreno, non è data la possibilità di raggiungere assoluti, ma solo di pellegrinare, con umiltà, nell’imperscrutabile ordine in cui gli è dato vivere.

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