Gaia Tella (2002), dopo aver frequentato il liceo classico a Roma, ha conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche e Internazionali all’Università degli Studi di Siena, discutendo con la prof.ssa Cinzia Buccianti una tesi in Demografia dal titolo La demografia come strumento di indagine politica. Attualmente frequenta il primo anno di laurea magistrale al Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli Studi di Torino, con l’obiettivo di approfondire le connessioni tra politica ed economia, anche attraverso l’indagine demografica. Nell’ambito di un tirocinio curriculare, nel giugno 2024, ha collaborato alla pubblicazione del numero 795 della rivista «Censis Note e Commenti». È inoltre autrice di due contributi all’interno della pubblicazione a cura di Cinzia Buccianti Dalla demografia storica all’intelligenza artificiale, edito nel novembre 2024.

Recensione a: G. Sartori, Democrazia, Introduzione di Nadia Urbinati, Treccani, Roma 2023, pp. 133, € 10,00.

Data la complessità dei sistemi democratici, nella definizione, ma soprattutto, nella loro realizzazione, le aspettative di chi vive in questo genere di contesti potrebbero non essere sempre soddisfatte. Infatti, «comunque sia, in nessun caso la democrazia così com’è coincide, né coinciderà mai, con la democrazia per come vorremmo che fosse». Così Giovanni Sartori.

Nel saggio Democrazia, originariamente pubblicato come voce sul tema nell’Enciclopedia delle scienze sociali (1992), oggi riedita con l’introduzione di Nadia Urbinati, il politologo fiorentino cerca di delineare, dopo una breve premessa storica sul tema, le caratteristiche inalienabili della ormai più discussa forma di governo. Secondo suo costume, lo fa in modo chiaro e diretto.

Sartori propende per una prospettiva realistica: si parte proponendo una definizione analitica, valutabile attraverso l’osservazione della funzionalità strutturale dei principi democratici fondamentali, passando poi dal concetto alla sua applicazione concreta nella realtà. Bisognerebbe, quindi, secondo il politologo, portare avanti scelte razionali, limitate nello spazio e nel tempo, a seconda dei presupposti e degli obiettivi individuati. Si tratterebbe insomma di effettuare uno studio progressivo e circostanziato dei casi concreti, restando consapevoli del fatto che la stessa democrazia, in quanto dinamica, non è esente da trasformazioni. Anzi.

La concezione sartoriana della scienza politica è, difatti, quella di una scienza operativa, capace di cogliere periodicamente le condizioni di applicabilità rispetto al contesto, nonché esporre una teoria e realizzarla, controllandone gli sviluppi nella prassi. Si tratta di elaborare una forma particolare di normativismo al fine di limitare la persistente aspirazione al perfezionismo, poiché «l’esperienza storica insegna che a ideali smisurati corrispondono sempre catastrofi pratiche». La democraticità è da intendere come la tendenza dei nostri sistemi politici ad avvicinarsi all’ideale, va considerata un principio di regolazione e di giudizio. Se si vuole effettivamente parlare di democrazia va pertanto stabilito un contraddittorio, determinando dove questa finisca e chiarendo ciò che, invece, democratico non è. Evitando questo passaggio logico ogni discorso resta astratto e troppo spesso confusionario: «È così che negli ultimi 50 anni si è potuto spacciare tutto, o quasi tutto, per democrazia. Il che non ha giovato né alla chiarezza delle idee, né alla causa della democrazia».

È innegabile si tratti della migliore forma di governo, da un punto di vista teorico, ma è anche chiaro che l’aspirazione alla collaborazione collettiva, su cui la democrazia si fonda, deve essere presa seriamente da parte di tutti gli attori in gioco. Si potrebbe partire dal presupposto che la democrazia non viene messa apertamente in discussione, a livello concettuale, ma bisognerebbe rendersi anche conto di quanto i suoi effetti sembrino, invece, sempre meno concreti.

Misurare il grado di democraticità di cui è dotato un sistema politico, permette di andare oltre la semplice definizione formale, attraverso l’analisi dell’effettività concreta di determinate condizioni fondamentali: servirebbero libertà, uguaglianza e partecipazione per affermare di far parte di un sistema democratico. La realtà, però, sembra dimostrarsi sempre più lontana da questi principi che, al tempo stesso, non pochi tendono a dare per scontati.

Nell’ambito di una repubblica democratica, secondo la teoria competitiva, uno degli aspetti fondamentali è sicuramente la partecipazione: è innegabile che senza il voto popolare non esista democrazia. Si tratta, infatti, di uno degli aspetti maggiormente analizzati da Sartori. La partecipazione è considerata uno dei principali indicatori del livello di democraticità raggiunto da un sistema politico. In questo genere di analisi un approccio descrittivo si limiterebbe al momento del voto, tralasciando i processi e privando quindi i cittadini di buona parte del loro potere come anche delle proprie responsabilità. Sartori, invece, preferisce ipotizzare una teoria prescrittiva, fondata sulla possibilità per l’elettorato di monitorare le scelte fatte in politica, accentuando così la responsabilità dei diversi attori. Nel complesso, tutto ciò che è democratico si fonda sulla legittimità, quindi sul ruolo del consenso, basato a sua volta sul pluralismo delle opinioni e sulla libera volontà deliberativa di ognuno.

Nell’ambito di questo dibattito si fa, poi, spesso riferimento anche al trade off tra Governability e Accountability: «Pertanto si arriva a un punto nel quale la scelta tra rappresentatività-sensitività da un lato e efficienza dall’altro non è eludibile». Se, infatti, da un lato è risaputo che, in democrazia, gli eletti debbano rendere conto delle loro azioni politiche agli elettori, questo aspetto viene spesso messo in secondo piano rispetto alla governabilità. È chiaramente importante che le istituzioni politiche riescano a portare avanti i loro compiti, quindi possano governare efficacemente, ma trattandosi di democrazia è anche fondamentale che questo aspetto non porti a sottovalutare la responsabilità che i politici hanno nei confronti dei cittadini e della loro legittima pretesa di essere rappresentati in modo adeguato, corrispondente e soddisfacente rispetto alle originarie richieste più o meno esplicitamente espresse nel voto.

Nonostante la consapevolezza dell’importanza del voto in democrazia, questo aspetto non assicura necessariamente la qualità delle decisioni: una questione spesso sottolineata da Sartori, che propone un pensiero controcorrente rispetto alla convinzione generale. Il voto stesso, secondo il politologo fiorentino, non è considerabile un indicatore epistemico. Informazione, infatti, non significa conoscenza e, mentre la conoscenza presuppone informazioni, ciò non indica di per sé che chi è informato conosca. Infatti «votando, non importa quanto spesso, non impariamo a votare meglio, cioè in modo più competente o razionale […] Non si impara a votare votando». Non si dovrebbe, per questo, pretendere che l’elezione sia costantemente espressione di soluzioni coerenti, perché semplicemente non può esserlo sempre. La democrazia, con i suoi procedimenti, non assicura la migliore soluzione, ma solo esiti legittimi, considerando, inoltre, che quasi nulla è valutabile come giusto in assoluto. Sartori ha quindi una propria visione della partecipazione democratica, verso la quale sembra sviluppare un senso di protezione ideale, consapevole che non sia possibile chiedere al potere politico, anche se democratico, di realizzare esclusivamente soluzioni efficaci ed essere competente di tutto, stante poi il fatto che il voto stesso non si identifica necessariamente con l’esito migliore.

Un ulteriore tema centrale nella concezione sartoriana della democrazia è sicuramente la relazione tra libertà ed uguaglianza, oltre che l’analisi dei due singoli principi, mirata ad evidenziarne la complessità, concettuale quanto pratica. L’idea stessa della libertà è variata molto nei secoli: dall’impostazione ciceroniana secondo la quale per essere liberi bisogna essere sottoposti alla legge, si comincia ad ampliare progressivamente il concetto solo in Rousseau, secondo il quale ogni uomo, nato libero, si trova ovunque circondato da limiti, arrivando ad accennare la possibilità di autodeterminazione dell’io, che si era già affacciata con il pensiero di Locke. Prima dello Stato moderno, comunque, la libertà resta un concetto normativo e troppo astratto, inteso eventualmente come autonomia, capacità di dare a sé stessi la propria legge, come in Kant, il quale però si limita ancora alla sfera morale.

Ciò che Sartori, invece, vuole sottolineare, è che le libertà morali, intese come autonomia e autodeterminazione, presuppongono spesso le libertà negative, dalle quali derivano a loro volta le libertà positive che, infatti, per essere esercitate devono necessariamente essere libere da condizionamenti. Questa distinzione tra “libertà da” e “libertà di” resta comunque molto labile, difficile da definire per tutte le libertà specifiche, prima tra tutte per quella politica, di cui l’Autore principalmente si occupa. Secondo questa logica di pensiero, volendo confrontare le libertà morali ed effettive, si può affermare che «la mia volontà resta libera anche se mi trovo in carcere; ma l’essere interiormente libero non mi rende in alcun modo libero esternamente». La questione relativa all’uguaglianza è, però, forse ancora più complessa.

Già in Aristotele veniva fatta una prima distinzione, ripresa da Sartori e tuttora molto significativa, tra “eguaglianza aritmetica”, cioè lo stesso a tutti, ed “eguaglianza proporzionale”, ovvero lo stesso agli stessi. La prima presuppone l’uguale come identico, mentre la seconda intende assegnare ad ognuno il suo, ammettendo anche trattamenti diversi a condizioni diverse, in modo da ottenere l’uguaglianza nella realtà. Quest’ultima è chiaramente più complicata da gestire: semplificando, si intende distribuire l’esistente tra tutti, in base ai meriti e secondo le necessità di ognuno, ma vengono così posti una serie di altri interrogativi, primi tra tutti quanta proporzione e a quali condizioni: «Quale stessità è rilevante? E correlativamente quali sono le differenze rilevanti?».

Inoltre andrebbe analizzata l’uguaglianza nelle opportunità, di cui si sente spesso discutere ma che resta una formula molto problematica da trattare, perché ha bisogno di essere realizzata oltre che definita, non rientrando più solo nella sfera formale, ma finendo con l’influenzare le condizioni sostanziali della società. Bisogna quindi distinguere tra “eguale accesso” ed “eguale partenza”. Il primo promuove la meritocrazia, il secondo, invece, finisce con l’intersecare l’eguaglianza economica, andando a influenzare l’intero processo, la vita stessa di ognuno, non il singolo caso. Il secondo concetto sembra preceda, quindi, il primo: è l’eguale partenza, secondo Sartori, a rendere attuabile realmente l’eguale accesso alla singola situazione. Inoltre questa stessa distinzione andrebbe intesa in ottica proporzionale, poiché in senso aritmetico finirebbe con l’avvicinarsi molto alla concezione comunista dell’uguaglianza negativa, per cui tutto è dello Stato ed egualmente nulla è di nessuno. Concezione, quest’ultima, non condivisa da Sartori. È importante, quindi, considerare come obiettivo dell’eguaglianza la libertà dal bisogno, quindi assicurare a tutti un’esistenza dignitosa, attraverso redistribuzioni e facendo, quindi, convergere l’economia nella politica.

Si può affermare, dunque, che nella vita pratica eguali trattamenti non producono spesso eguali esiti, da ciò deriva che per potersi considerare uguali può darsi debbano verificarsi processi diseguali. Va comunque considerato che trattamenti preferenziali, che hanno come obiettivo la realizzazione pratica dell’uguaglianza, possono creare conflittualità sociale, se intesi erroneamente come discriminatori. Servono una coscienza morale forte e la consapevolezza delle reali condizioni proprie e degli altri per giudicare la realizzazione di politiche mirate all’eguagliamento.

Resta una questione da sempre aperta, e probabilmente lo resterà, ma si può affermare che, nel complesso, tra libertà e uguaglianza esistono diverse soluzioni di equilibrio, compensazioni, ma resta possibile anche un punto di rottura, spesso più facile da raggiungere di quanto si immagini. Riprendendo Sartori, se ne deduce che «tra libertà e uguaglianza ci può essere congiunzione, ma anche pericolosa disgiunzione». Secondo molti, oggi, è la liberaldemocrazia a costituire la congiunzione perfetta tra libertà ed uguaglianza, un sistema capace di equilibrarle. Ma secondo questa impostazione si fa riferimento esclusivamente alla libertà politica e all’ uguaglianza formale, molto lontane sia dalla libertà “vera”, quella di pensiero, quindi all’autonomia, sia dall’uguaglianza sostanziale nelle possibilità.

In origine il liberalismo è nato senza particolare attenzione verso le condizioni economiche della collettività, in società preindustriali. Ma nel momento in cui questa logica ha incontrato la democrazia ha avuto bisogno di modificarsi in funzione del suo carattere democratico, facendo affidamento su politiche di redistribuzione, in modo da applicare la democrazia politica in un contesto di liberalismo economico: nasce così la liberaldemocrazia, nella quale sembra restare, però, centrale la componente economica, a scapito degli ideali politici.

L’ottimizzazione convergente tra i due ambiti, politico ed economico, si fonda, oggi, sulla coesistenza di una democrazia liberale unita ad un’economia di mercato. Secondo Sartori questo falso bilanciamento è una delle maggiori contraddizioni degli Stati moderni, non in grado di concretizzare ciò che promettono. Si presuppone infatti che un “prima economico” si traduca in un “dopo democratico”, senza considerare un’eventuale inversione del nesso causale: si potrebbe mai immaginare un sistema democratico, capace di creare uno sviluppo economico, magari diverso dalle aspettative tipiche del liberalismo, ma più giuste?

Secondo l’Autore, questo non avviene a causa della fiducia illimitata nel mercato. A questo discorso, poi, Sartori lega il concetto di capitalismo, mai messo in discussione e considerato ormai insostituibile, ritenendolo illusoriamente conciliabile con un sistema realmente democratico, senza condizioni. Nessun fattore causale dovrebbe, però, essere considerato l’origine unica del processo di sviluppo e agire da spinta. Si dovrebbe invece intendere tutto in modo integrato, per far interagire la politica con l’economia. Spesso democrazia e benessere vengono attualmente associati concettualmente, senza analizzare nel dettaglio la loro relazione, da sempre molto vaga: la logica di mercato è il fondamento della maggioranza dei sistemi politici attuali, ma non è scontato che il mercato crei democrazie valide. Si tratta di un’ipotesi dubbia come, del resto, anche quella contraria, e non sembra neanche corretto affermare che la democrazia riesca a generare sempre benessere, se legata così strettamente alla logica capitalistica.

Si ricava la certezza che il mercato non è condizione sufficiente di democrazia e il quesito se la democrazia trovi nel mercato la sua condizione necessaria. Stabilito che il mercato non dà democrazia, resta da stabilire se la democrazia postuli il mercato. La risposta è: probabilmente sì in chiave di ottimizzazione, forse no in chiave di necessità.

Ma come è possibile che la dicotomia democrazia-mercato venga generalmente considerata ottimizzante? Non si tratta chiaramente di una questione facile a cui rispondere, ma nel complesso, oggi, riprendendo la visione di Sartori, ci si convince dell’indissolubilità di questo legame sulla base dell’ingannevole aspettativa di mantenere la tutela delle libertà individuali, economiche e politiche, date apparentemente dalla diffusione del potere, tipica della democrazia, che, però, in questo modo si trasforma da concetto politico a strumento legittimante dell’economia di mercato. Il meccanismo essenziale alla base del mondo attuale è, infatti, il calcolo dei costi, sotto ogni punto di vista, dalla politica alla società, oltre che ovviamente in economia. Ma le logiche di questo conteggio sono spesso molto discutibili e vaghe. Si dovrebbe mirare al benessere generale ma, per farlo entro un’ottica democratica, occorrerebbe seguire un processo libero ma equo.

Per concludere, ciò che Sartori sembra voler sottolineare nel saggio sono le contraddizioni intrinseche tipiche degli Stati democratici. In contesti poi sempre più difficili da definire, come quelli attuali, che vedono la coesistenza di valori e obiettivi diversi, spesso divergenti, trovare un equilibrio democratico, capace cioè di soddisfare tutti, è sempre più complesso. Si pretende spesso che questa forma di governo risolva ogni questione, sia capace di bilanciare ogni genere di interesse. Concepiamo la democrazia quasi come un ente astratto, lontano e complicato, che si autoregola. Solo tornando ad essere coscienti di quanto la democrazia sia delicata da gestire, e di come ognuno possa migliorarla attraverso le proprie scelte, ci si convincerebbe della sua importanza e si potrebbero vedere effettivamente realizzati i suoi principi sostanziali. La intendiamo, al contrario, come un processo autopoietico che non ha bisogno del nostro intervento, così abituati a nominarla e viverla da considerarla resistente a tutte le censure che, non sempre inconsapevolmente, le imponiamo.

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