Università di Pisa
Kamikaze alla caccia del bello: Mishima secondo Breschi
«La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre». Queste parole (che costituiscono l’ultimo suo appunto lasciato sulla scrivania in data mercoledì 25 novembre 1970) cristallizzano la figura di Yukio Mishima, al secolo Kimitake Hiraoka. Sono passati cinquant’anni esatti da quando lo scrittore giapponese decise di togliersi la vita in ottemperanza al seppuku, antico rituale samurai composto da auto-sventramento e decapitazione da parte di un fidato compagno d’armi. Seppuku è un sinonimo del più popolare harakiri: l’antico rito suicida partiva dal ventre (hara) in quanto si riteneva che fosse la sede dell’anima. Nei suoi piani originari, lo scrittore aveva addirittura intenzione di scrivere un ultimo messaggio intingendo il mohitsu (pennello da scrittura) nel proprio sangue; all’ultimo decise altrimenti. Gli ultimi momenti del grande scrittore furono trasmessi in diretta; sicuramente lo è stato la sua arringa di fronte a un migliaio di uomini del reggimento di fanteria.
È da poco uscito per i tipi della Luni Editrice il testo Yukio Mishima. Enigma in cinque atti targato Danilo Breschi: l’autore, come spiega nella prefazione, evidenzia che i cinque atti di cui sopra sono, insieme, un tributo ad una passione coltivata sin da giovane, un omaggio che non vuole venir meno al compito di realizzare una monografia scientifica, un invito alla lettura e un esercizio di stile. Il primo contatto di Breschi con l’universo del nipponico avvenne alla fine dell’adolescenza, complice la visione del film a lui dedicato da Paul Schrader nel 1985. Il titolo era Mishima – Una vita in quattro capitoli. Fu presentato al 38° Festival di Cannes e può essere giudicato un’adeguata introduzione alla sua lettura.
L’intento complessivo dell’opera di Breschi è quello di rendere giustizia a un’immensa icona letteraria (che ultimamente si sta trasformando in un’icona pop). Cerca di farlo anche grazie al (metaforico) aiuto di scrittori e filosofi a lui affini, tenendo pur presente che si tratta di una personalità che non si può incasellare così facilmente. Potrebbe però essere considerato in base alla somma di Dostoevskij, Proust e D’Annunzio, se si tiene presente anche che il risultato non è il semplice accumulo degli addendi di cui sopra.
Degno di menzione è il racconto Patriottismo (scritto nel 1960, pubblicato nel ’61 e tradotto in inglese nel ’66): ebbe una trasposizione cinematografica, e cioè un mediometraggio di meno di trenta minuti, prodotto ed interpretato dallo stesso Mishima. I protagonisti sono il tenente Shinji Takeyama e la moglie Reiko: il punto focale è il seppuku compiuto dal primo (seguito dalla moglie, che si sarebbe pugnalata alla gola). Da notare è che in inglese l’opera recava l’eloquente sottotitolo The Rite of Love and Death e che Mishima scrisse la seguente nota in inglese:
The Director’s intention. In the deepest feeling of Japanese, there is a profound concept that the ecstasy of sexual intercourse is identified to the ecstasy of suicide, especially self-sacrifice for the Sacred Justice. Through the film, I wanted to symbolize the combination of Love and Death under the concept, borrowing an episode during the Coup d’Etat 1936.
Tra l’altro, «self-sacrifice» è sovrascritto sopra una cancellatura «suicide from the loyalty to» e Donald Richie scelse come contrappunto musicale il Liebestod, e cioè l’aria finale del Tristano e Isotta di Wagner.
Amore e morte sono i due temi essenziali e sono intrecciati in un nodo gordiano: per scioglierlo occorre un taglio netto di spada e al risolutore di ciò un’antica profezia consegnava addirittura un impero (naturalmente si fa riferimento ad Alessandro Magno e, per dirla come Bruce Dickinson degli Iron Maiden, «And Alexander cut the ‘Gordian knot’ and legend said that who untied the knot He would become the master of Asia»).
Bisogna anche tener presente che “patriottismo” in giapponese si dice Yukoku, parola costituita da due ideogrammi di cui il primo significa “preoccupazione” e il secondo vuol dire “paese/stato”, per cui il significato complessivo risulta “sensazione di tristezza al declino delle condizioni spirituali della nazione”.
L’altro argomento essenziale è costituito dalla decadenza e dall’americanizzazione, ma più in generale dalla colonizzazione culturale. Dire “colonizzazione” presuppone l’esistenza di un precedente sostrato, che, in questo caso specifico, ebbe le proprie radici nei territori bagnati dal Mar Egeo. Mishima era rimasto molto affascinato dalla cultura greca, specialmente per via del concetto di kalokagathia (ideale aristocratico di perfezione fisica e morale dell’uomo). Ma il dominatore può esercitare la propria forza solo se il dominato glielo permette, situazione contraria al Graecia capta ferum victorem cepit di oraziana memoria.
A 50 anni esatti dal suo trapasso, per una persona del 2020, dunque, quale potrebbe essere un eventuale insegnamento da parte del nipponico? Egli fu un appassionato della cultura del proprio Paese ed è diventato pian piano l’icona di un tipo di patriottismo dal volto romantico conosciuto anche al di fuori del Sol Levante. Sia la sua esistenza che il suo decesso sono stati due modi per omaggiare la propria Patria e la figura dell’imperatore, non politicamente ma simbolicamente; quest’ultimo, infatti, era concepito come un ideale semidivino, essenza del Giappone tradizionale.
Siccome, a conti fatti, non c’è alcuna differenza fra la situazione attuale del Bel Paese e quella del Giappone fra gli anni Quaranta e Sessanta (dopo la sconfitta militare e politica), nel senso che imperano la perdita dell’identità e il ripudio delle tradizioni (o, peggio ancora, la riduzione delle stesse a mero folklore, così come della cultura), Mishima ci insegna che esiste un valore superiore alla libertà, alla democrazia e perfino alla vita. Nel suo caso si tratta del Giappone, il suo Paese, con la sua storia e le sue tradizioni; nel nostro caso si tratta dell’Italia e l’affermazione di un’identità italiana ha un doppio valore in un’epoca in cui parlare di Patria suona démodé, se non addirittura blasfemo, e lo stesso tricolore italiano viene oltraggiato sia da chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone, nello specifico sia da chi lo sfrutta per mere competizioni elettorali sia da chi lo oltraggia a ogni piè sospinto, insultando, dunque, la memoria di chi ha dato la vita per esso.
Esemplificativa, a tal proposito, è una frase tratta dalle mishimiane Lezioni spirituali per giovani samurai ed altri scritti: «Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per essere sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro». Questo fatto storico non può non far ricordare la tragica fine di Dominique Venner, il quale si diede la morte in data 21 maggio 2013 per svegliare le coscienze assopite; nello specifico, insorgeva contro la fatalità del destino e denunciava i pericoli di quel complesso fenomeno contemporaneo che è la globalizzazione.
Modernità, dunque, non è sempre sinonimo, men che meno garanzia, di accuratezza. Ne è dimostrazione la stessa parola kamikaze, che significa vento divino e che viene usata a uso e consumo di un certo giornalismo d’accatto per indicare gli autori degli attacchi terroristici che hanno insanguinato il mondo. Se il suo significato originale fosse rispettato, allora potrebbe essere applicabile anche a Mishima stesso, tant’è che viene definito «kamikaze alla caccia del bello» nel testo. Suddetto ideale di bellezza era esplicitato anche nell’organizzazione fondata dal nipponico, e cioè il Tate no Kai: tra l’altro, si intreccia anche il risentimento nei confronti del Trattato di San Francisco (1951) con cui il Paese aveva rinunciato a possedere un esercito (che non fosse di autodifesa e di misura ridotta), affidando dunque la propria difesa agli Stati Uniti.
A tutt’oggi Mishima viene ricordato a vario titolo ogni 25 novembre. Nel 2015, ad esempio, per il 45° anniversario del suo sacrificio e il 90° della nascita, era uscito per i tipi dello Scarabeo il libro Danzando nel cratere del vulcano. L’universo eroico di Yukio Mishima di Skoll, al secolo Federico Goglio: il rimando del titolo va all’Introduzione della filosofia dell’azione (composta dal nipponico fra il 1969 e il 1970, dunque appena prima di morire). Il libro in questione era stato presentato prima dell’omonimo concerto del 30 luglio 2016 in cui il Tate no Kai era stato omaggiato durante l’esecuzione del brano La bellezza.