Università di Pisa

 È la forza estetica a farsi tradizione: il canone occidentale secondo Harold Bloom 

«I suoi problemi con Delphine Roux erano iniziati durante il primo semestre dell’anno in cui Coleman aveva ripreso a insegnare, quando una delle sue studentesse che per caso era anche una delle allieve predilette della professoressa Roux era andata da lei, nella sua veste di capo dipartimento, a lagnarsi delle opere di Euripide nel corso di Coleman sulla tragedia greca. Una di queste opere era Ippolito, l’altra Alcesti; la studentessa, Elena Mittrick, le trovava degradanti per le donne». Così inizia la prefazione a Il canone occidentale di Harold Bloom, testo del 1994 e tradotto in italiano a partire dal 1996.

Lo scontro con la Roux (definita “Delfina Ribelle”) rappresenta l’inizio della fine per Coleman Silk, il protagonista della Macchia Umana di Philip Roth, anche perché poi verrà clamorosamente estromesso dall’università che per decenni si era identificata con la sua persona. Secondo Andrea Cortellessa, ossia l’autore della prefazione al testo nell’edizione del 2019 per i tipi della Bur, il profilo di Silk non può coincidere al 100% con quello di Bloom (anche se gli somiglia per certi versi). In compenso, la figura della Roux incarna i connotati intellettuali di quella contro cui Bloom stesso si era scagliato nel Canone occidentale definendola «scuola del risentimento».

In seguito si fa riferimento ai Giovani Turchi Multiculturalisti che, imbevuti di cultura europea (ma definita «gallica» da Bloom), hanno conquistato l’egemonia nei campus più prestigiosi dell’Ivy League. Prima di far ciò, essi hanno contestato il nucleo stesso del loro potere intellettuale, nel senso che si sono opposti ai Grandi Umanisti, ai Titani della vecchia scuola. Dunque hanno condotto una specie di crociata rivendicando, contro la preminenza nel Canone dei maschi europei bianchi defunti, un’adeguata rappresentazione di tutte le possibili minoranze etniche, religiose e di genere. Prima di dare a Bloom del sessista, però, si deve sapere che ha collaborato alla stesura de Il libro di J nel 1991 per dimostrare che gran parte dell’Antico Testamento è stata scritta da una donna vissuta sotto i regni di Davide e Salomone.

Per una persona come Bloom, nata nel 1930, passare dall’aristocrazia, ad esempio, di T.S. Eliot al multiculturalismo hip-hop significa quasi essere deportati su un altro pianeta; questi, chiaramente, sono due esempi estremizzati dei due mondi che si scontrano (dal testo: «Il centro non ha tenuto e la mera anarchia sta per scatenarsi su quello che si usava definire il mondo erudito»). Si può tranquillamente usare il termine balcanizzazione in riferimento alla dispersione degli studi e bisogna anche considerare, come detto prima, che il testo di Bloom è stato scritto nel 1994, anno contrassegnato (anche) dalle guerre nei territori della ex Jugoslavia.

Già nel 1987 negli Stati Uniti c’erano manifestazioni in cui gli studenti richiedevano di rivedere la lista degli autori obbligatori. Tuttavia Bloom non deve essere considerato un neocon, e cioè non deve essere compreso fra i nuovi conservatori che, dopo il periodo Clinton e dopo l’uscita del Canone occidentale, si erano ripresi il potere nelle università e negli Stati Uniti. Non va sottovalutato che proprio da alcune roccaforti accademiche sia partita l’onda lunga della reazione. D’altronde gli eccessi di apertura antagonisticamente multiculturale del canone hanno infatti avuto, come esito politico, non solo negli Stati Uniti, l’esatto contrario di quanto auspicato dalla scuola del risentimento. Il nuovo millennio viene definito «all’insegna della clash of civilization» (scontro di civiltà, come direbbe Huntington, il cui saggio è stato pubblicato nel 1996) e Clinton è stato spodestato da George W. Bush, «un teocratico della più bell’acqua, esponente di una monocultura Wasp tutt’altro che tollerante e politicamente corretta, oltreché armata fino ai denti». Con le conoscenze in nostro possesso potremmo completare la linea temporale dei presidenti statunitensi aggiungendo Barack Obama, vero e proprio idolo degli ambienti radical chic essenzialmente per la sua origine sociale, nonché la sua nemesi, ovvero Donald J. Trump.

Ma cos’è questo “canone”, nella fattispecie “occidentale”? In un testo targato Bloom e intitolato Una mappa della dislettura (1975) sta la struttura principale del libro del 1994: la formazione di canoni non è un processo arbitrario e non è, per più di una o due generazioni, socialmente o politicamente determinata, neanche dalla più intensa delle politiche letterarie. I poeti, dunque, sopravvivono a causa della loro forza, la quale si manifesta attraverso la loro influenza su altri poeti forti e un’influenza in grado di attraversare più di due generazioni di poeti forti tende a divenire parte della tradizione e perfino la tradizione stessa. Tradizione, quindi, non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione; è anche e soprattutto un conflitto fra il genio passato e l’aspirazione presente, un conflitto il cui premio è la sopravvivenza letteraria o l’inclusione nel canone occidentale. A questo punto non può non venire in mente la frase di Jean Jaurès, secondo cui «la tradizione non consiste nel conservare le ceneri, ma nel mantenere viva una fiamma» che è conosciuta anche nella variante «la tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco», attribuita a Gustav Mahler. Poco cambia a livello concettuale: la tradizione, in questo caso specifico il canone occidentale, non deve essere pura e semplice adorazione di qualcosa di cristallizzato, bensì fonte a cui attingere per vivere nel mondo (senza, ovviamente, essere del mondo) contemporaneo.

Nello specifico, Bloom suddivide gli autori del canone occidentale in tre grandi gruppi (ispirati dalla classificazione di G.B. Vico), e cioè l’età aristocratica (da Dante a Goethe con Shakespeare come totale punto di riferimento), l’età democratica (da Wordsworth a Ibsen) e quella caotica (da Freud a Beckett). Il testo analizza ventisei scrittori in base alle loro caratteristiche che li hanno resi autori canonici; la peculiarità principale è la singolarità delle opere e della personalità che le ha scritte. Menzione d’onore va a Saffo e a Emily Dickinson, le donne più energiche fra i grandi poeti, definite «agoniste ancora più determinate degli uomini».

Per chi le affronta per la prima volta, opere come la Divina Commedia, il Paradiso Perduto e il Faust sono accomunate dalla misteriosità, dalla capacità di far sentire il lettore un estraneo a casa sua (compito che, secondo Adorno, deve avere ogni letterato). Shakespeare, come detto, è il centro di tutta la narrazione di Bloom e a suo avviso dà l’impressione opposta, quindi quella di farci sentire a casa anche quando siamo lontani, all’estero, in un luogo sconosciuto. Tra l’altro, secondo lui, ogni poeta è gnostico perché non può non trovarsi in perenne dissidio con la tradizione: a tal proposito Bloom usa la metafora dei demoni perché questi operano rompendo (demone deriva da daeomai, divido, ma anche diavolo da diaballo, parola che ha la stessa accezione semantica). Comunque, tutto ciò che hanno sono le loro voci e questo è anche ciò di cui dispongono i poeti.

Il canone è sempre collegato alla questione dell’estetica, o meglio, della forza estetica, che si compone di alcune caratteristiche fondamentali: originalità, conoscenza, capacità cognitiva, esuberanza espressiva e padronanza del linguaggio figurativo. Dal testo: «Dobbiamo insegnare in maniera più selettiva, cercando i pochi che possiedono la capacità di diventare lettori e scrittori molto peculiari. Gli altri, assoggettabili a un programma di studi politicizzato, possono essere abbandonati a quest’ultimo. Dal punto di vista pragmatico, il valore estetico può essere riconosciuto o vissuto, ma non può essere veicolato a chi è incapace di coglierne le sensazioni e le percezioni». Una poesia, quindi, non deve essere letta in modo semplicistico e meccanico, ma trascende in campo filosofico.

L’estetica ha sì guidato ogni aspetto della formazione del canone, ma c’è anche da precisare che la difesa del medesimo, molto probabilmente in reazione all’attacco nei suoi confronti, ha subìto una politicizzazione marcata. La difesa del canone non è affatto una difesa dell’Occidente o di una qualche impresa nazionalistica, anche perché non viviamo certo secondo l’etica dell’Iliade né secondo la politica di Platone. Ora, nel 2020, leggere certi concetti provoca qualche malumore, specialmente dopo le rivolte di Black Lives Matter della scorsa estate, anche perché alcune frasi profetiche della prefazione si sono drammaticamente avverate, fra cui la nascita dei cosiddetti cultural studies anche in Italia e la diffusione della cosiddetta white guilt, definizione che merita un approfondimento particolare. Un esempio sono le stesse persone italiche ed europidi che arrivano a negare le vette culturali raggiunte dai loro stessi avi in nome di un’uguaglianza che, nei fatti, non esiste.

A quasi trent’anni di distanza dalla pubblicazione in inglese del Canone Occidentale ha ancora senso parlarne in quanto è soggetto, si potrebbe dire più di prima, a un continuo vituperio. Basti pensare che è stato contestato il genio di alcuni poeti o comunque di alcune personalità eminenti dei secoli scorsi in quanto i loro avi erano proprietari di schiavi (naturalmente non si fa alcuna menzione della schiavitù nel contesto arabo, oppure nello stesso mondo classico), così come vi è stato l’ipocrita tentativo di capovolgimento dei ruoli esplicitato con Medusa che tiene la testa di Perseo (quando, nella realtà, è proprio quest’ultima che era usata anche dagli antichi romani per svariati scopi, tra cui quello protettivo, apotropaico e di monito contro i nemici). Si sa, il sonno della ragione genera mostri, come direbbe Goya, e la scuola del risentimento 2.0 sta generando frutti già marci al proprio interno (come ampiamente dimostrato).

I mass media non aiutano per niente, anzi, semmai svolgono la funzione di cassa di risonanza per certe rivendicazioni, talvolta andando contro quella che è la realtà storica oppure mitologica: un esempio su tutti è far interpretare ad attori di origine afroamericana personaggi europei. Ciò che risulta dalla distruzione del canone, dunque, è un contesto parecchio caotico che non risparmia nessuno, nemmeno la millenaria cultura indiana: basti pensare che le caste sono demonizzate senza sapere nemmeno l’origine di questa struttura sociale e le ragazze nate in India, Pakistan o Bangladesh sono chiamate, sbrigativamente e spregiativamente, “desi girls” passando sopra tremila e passa anni di storia (tra cui quella della nobildonna Shakuntala, madre di Bharata, eponimo dell’India) e sopra le differenze abissali fra i contesti indoario e dravidico.

Naturalmente ci sono differenze enormi fra il contesto socioculturale statunitense e quello italiano, primo fra tutti la composizione etnica: come è ben noto, i territori del Nord America erano abitati dai Natives, i cosiddetti “pellerossa”, sistematicamente massacrati dai coloni europei, prevalentemente wasp, e in alcuni Stati era ampiamente diffuso lo schiavismo (dovuto alla massiccia importazione di manodopera dall’Africa). In Italia non ci sono situazioni simili, ma appunto questa caratteristica è nulla senza un’effettiva coscienza in questo caso letteraria. Il libro Il canone occidentale si può collocare in un discorso più ampio in grado di superare il mero ambito della letteratura e quindi di comprendere tutti i pilastri della civiltà europea.

Non esistiamo soltanto perché ci ha “partoriti una donna” (semicitando la popolare canzone di Caparezza Vengo dalla Luna), ma perché siamo la risultante di tutto ciò che ci ha preceduti. Nella spiritualità norrena esiste l’Yggdrasil, e cioè l’albero del mondo, che nella sua totalità riunisce i nove regni: anche l’essere umano deve svolgere un compito equivalente, nel senso che deve avere salde radici per poi fiorire ed essere in perfetto equilibrio con il cosmo, ivi comprese le altre culture. Quella europea ha raggiunto meriti innegabili, tuttavia è più consono porla su un piano di collaborazione con le altre, evitando così sia razzismo becero sia peloso buonismo, dacché nessuno dei due comportamenti ivi citati è esatto, né scientificamente né (men che meno) umanamente.

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