Università di Pisa

Echi di lotta e guerra dall’antica India

Lo studioso francese René Daumal definiva la Bhagavad Gita (trad. “canto del Beato”) «questo vangelo annunciato in pieno campo di battaglia da Krishna, Dio fatto uomo». Il contesto è la guerra fra i due rami della dinastia indiana dei Kuru, e cioè i Kaurava e i Pandava; la Gita si situa nel momento in cui la battaglia sta per cominciare. Questo poema dialogato di 700 versi, sicuramente non composto nello stesso tempo, si compone di 18 canti; essi erano corrispondenti ai capitoli da XXV a XLII del libro VI del Mahabharata (un altro testo indiano di capitale importanza).

Il testo in sé si presenta sotto forma di un dialogo riferito da una terza persona nell’ambito di un altro dialogo; questo procedimento esisteva già nelle Upanisad. I protagonisti sono Arjuna (terzo dei principi Pandava e arciere legalmente figlio di Pandu, ma in realtà del dio Indra) e Krishna, ossia colui che ne guida il carro. La Gita occupa un ruolo immenso in tutto il pensiero dell’India e ha conosciuto una straordinaria diffusione (si veda Bhagavad Gita, a cura di A.M. Esnoul, Adelphi, Milano 1976). Ad eccezione di certi ambienti, tutte le correnti religiose brahmaniche l’hanno accettata come un libro santo al pari dei Veda e delle Upanisad. Può essere considerata alla pari degli altri poemi epici indoeuropei, inoltre è frequente l’impiego di epiteti e/o patronimici (“Toro dei Bharata”, “guerriero dalle grandi braccia”, “figlio di Kunti”) che a un lettore più attento non possono non ricordare espressioni molto note come “il Pelide Achille” oppure “Aurora dalle rosee dita”. A partire da un’età posteriore alla redazione del testo, molte edizioni fanno precedere i canti della Gita da un titolo relativo al tema trattato; un esempio è il primo, intitolato “l’angoscia di Arjuna”. Questo personaggio, nel bel mezzo della battaglia, ha lasciato cadere arco e frecce e si è seduto sul fondo del proprio carro con l’animo turbato dall’angoscia. “Il distruttore di Madhu” (perifrasi per indicare Krishna) gli chiede il motivo di questo turbamento, invitandolo, in seguito, ad alzarsi. Per colpa della compassione, il suo valore vacilla. Allora, fra i suggerimenti dati al guerriero, ci sono quello di non considerare entità sensibili come corpi o sensazioni, quello di elevare l’anima sopra ogni cosa (in quanto il fuoco non la brucia, l’acqua non la bagna, né il vento la prosciuga) e soprattutto quello di agire, ma non di godere del frutto degli atti.

D’altra parte l’uomo comune dedica gran parte della vita agli oggetti dei sensi, ma, proprio da questo atteggiamento, può derivare la collera (che comunque non porta a nulla). Il comportamento opposto è possibile solo se si segue lo Yoga (che si chiama anche Karma Yoga, ossia “Yoga dell’Azione”): esso apparirà sempre come una disciplina che spiega diverse vie di accesso al Supremo. Nella Lode del sacrificio brahmanico si fa riferimento al sacrificio, in particolare a quello interiorizzato, chiamato anche “sacrificio conoscenza”; all’inizio di suddetto canto vengono anche menzionati i “saggi ispirati”, vale a dire i rsi (i sette rsi dell’origine sono di casta brahmanica e da loro traggono origine le varie stirpi dei brahmani stessi). La preferenza di Krishna, ovviamente, non può non andare a chi offre il sacrificio mediante il solo sacrificio, e cioè senza uno scopo interessato: nel canto VIII, detto “Disciplina del Brahman”, il Beato dichiarerà di essere egli stesso il regno del sacrificio. Nella “Disciplina della rinunzia” il Beato proclama l’identità delle due vie, però accorda il primato alla disciplina dell’azione (lo Yoga di cui sopra). In quanto disciplina di purificazione e metodo per arrestare le fluttuazioni dello spirito, lo Yoga è raccomandato; per di più viene tradotto anche come “disciplina unitiva”.

Per dare un titolo al canto VI è stato preso il nome di uno degli ultimi tre stadi dello Yoga: Dhyanayoga (la disciplina del raccoglimento). I gradi dello Yoga sono otto e sono elencati negli Yoga Sutra: restrizioni, osservanze, posizioni, regolazione del respiro, astrazione, concentrazione, raccoglimento e contemplazione. La parte finale del canto è dedicata all’esaltazione di chi pratica questa disciplina (con il ruolo di Yogin), in quanto è superiore a chi si dedica alle austerità in quanto riesce a padroneggiare la propria energia vitale. Dal Beato Signore procedono due ordini, e cioè quello naturale e quello spirituale. La sua natura si divide in otto modalità, vale a dire i cinque elementi (terra, acqua, fuoco, aria, etere) e tre funzioni (mentale, intellettuale e personalizzante).

Il canto IX è chiamato “Disciplina della scienza regale” (peraltro inseparabile dal Dharma, quindi dalla legge cosmica e morale) e del regale segreto; benché sempre attivo, il Beato non ha alcun legame con l’atto. Inoltre l’entità delle offerte fatte conta poco; solo l’intenzione è importante. I precetti del VII vengono ripresi nel X (“Disciplina delle manifestazioni divine”): in esso il lettore si trova di fronte a un inno al Beato Signore proferito da Arjuna e poi al suo corrispettivo a parti inverse, in cui Krishna elenca una lista delle proprie manifestazioni seguendo il procedimento per cui si proclama sempre il più eminente di un dato gruppo di esseri o di oggetti. Le epifanie del Beato Signore verranno descritte in modo sintetico nel capitolo successivo (“Visione dell’Onniforme”) in cui, peraltro, questi dona ad Arjuna uno sguardo divino per sopportare una simile visione. Gli ultimi quattro versetti sono preparatori in quanto viene proclamata la superiorità della devozione (la Bhakti). L’insegnamento ricevuto e accettato permette, come il pensiero autonomo, di affrancarsi dalle trasmigrazioni e dalla morte (cap. XII) Nell’ordine naturale delle cose, tutto è composto dai tre “guna” (qualità) e si giunge alla conclusione che, nello stato evoluto, uno prevale sempre sugli altri, ad eccezione di questo caso (in cui le qualità di cui sopra devono essere superate); il Beato aggiungerà nel cap XVII che la fede, come gli altri sentimenti umani, ha una colorazione diversa a seconda dell’influenza di questo o quel costituente naturale.

Una volta passati al di là delle qualità e giunti al Brahman, si accede dunque al “Bhagavant” (Persona suprema), tant’è che il canto XV si intitola “Disciplina della Persona suprema”. Il XVI, invece, serve per distinguere gli essere divini da quelli demoniaci (asurici), ma anche per respingere ateismo e materialismo. Particolare rilievo hanno tre monosillabi: OM (la famosissima sillaba mistica che riassume tutto il Veda), tat (pronome dimostrativo specialmente usato nella frase “Tat tvam asi” ossia “tu sei questo”) e sat (participio presente della radice as, “essere”, traducibile con “l’esistente”). Nell’ultimo capitolo, “Disciplina della rinunzia liberatrice”, il Pandava (ossia Arjuna) stabilisce la distinzione fra la rinunzia pura e semplice e l’abbandono del frutto degli atti. In modo sintetico vengono ripresi alcuni concetti dell’opera, fra cui lo svadharma, ossia il dovere individuale di casta, che concerne il campo della realizzazione e non appare solo come un obbligo morale.

L’insegnamento di questo testo si basa essenzialmente sulla rinuncia al frutto dell’atto; la stessa, tuttavia, non implica il non agire. Ciascuno deve sforzarsi di compiere il proprio dovere spirituale con cuore puro ed animo distaccato; respingendo dunque ogni dubbio e compassione, lo kshatriya Arjuna si lancia di nuovo nella mischia e fa trionfare le sue armi e la sua volontà. Nel testo, dunque, si potrebbe trovare una domanda la cui la risposta è stata ampiamente spiegata (ossia senza pensare al frutto dell’azione): per che cosa Arjuna combatte?

A un lettore attento sicuramente viene in mente il testo Per che cosa combattiamo? del 1944. Esso appartiene a quella particolare letteratura nazionalsocialista dedicata alla propaganda e, nello specifico, alla formazione della visione della guerra e del mondo. Tuttavia, per una migliore comprensione del riutilizzo della Gita in questi ambienti è necessario fare riferimento a un testo del 1978, e cioè And time rolls on. Si tratta delle memorie di Savitri Devi, giornalista e ideologa, che ha dedicato la nona parte del terzo capitolo alla descrizione dei vari tipi di Yoga, ma soprattutto all’interpretazione che fu fatta in certi ambienti militari in Germania negli anni Quaranta del cosiddetto Karma Yoga (Yoga dell’azione). Nel biennio 1936-1937 lei stessa si trovò ad affrontare i sacrifici legati all’Hatha Yoga (ossia quella particolare disciplina che si basa su cosa noi facciamo sul nostro corpo) anche se i suoi tentativi furono ampiamente stroncati dal suo maestro (un bramino che, ai tempi, era curatore del Museo di Lahore).

Solo avendo prima fatto questa premessa è possibile analizzare con spirito critico il riadattamento fatto in Germania degli insegnamenti della Gita, nello specifico nel predetto testo Per che cosa combattiamo?. Sono parecchie le analogie all’apparenza, ma bisogna sempre tener presente che era la prospettiva tedesca dell’epoca a servirsene. Secondo essa, ad esempio, la formazione spirituale era importante alla stessa stregua di quella militare. Cfr. Gita II, 31: «E considera anche il dovere del tuo stato: non dovresti, tremando, appartarti, poiché per l’uomo di guerra, secondo la legge sacra del tuo stato, non vi è bene superiore alla battaglia».

Uno dei nemici della Germania nazionalsocialista divenne, soprattutto dopo il giugno 1941, la rottura del patto Molotov-Ribbentrop e l’avvio dell’operazione Barbarossa, la Russia bolscevica, la quale era accusata di seguire una concezione materialista della vita secondo cui, per l’appunto, tutto era materia o comunque in funzione della medesima. A tal proposito Gita recita (XVI, 8): «Esse professano che l’universo è senza realtà, senza fondamento, senza un Signore sovrano, senza coesione reciproca dei propri elementi e non ha il desiderio – e che altro? – per unica causa». La Weltanschauung nazionalsocialista era invece descritta nel testo summenzionato come «la legge che vincola l’ufficiale», ma soprattutto come ciò che «fornisce all’uomo e al popolo tedesco la legge per vivere in maniera conforme alla propria natura e con ciò adempiere il compito datogli dal Creatore». Al punto 29 di quel testo si chiarisce il significato dell’adempimento del proprio dovere: non bastare a se stessi, ma servire la comunità. A tal proposito Gita recita (XVIII, 59): «Se, riferendoti alla tua individualità, tu pensi “Io non combatterò”, sarà quella una decisione fallace. La tua natura ti soggiogherà». Lo svadharma, ossia il dovere individuale di casta, esercita una forza coattiva nel campo della realizzazione e non è solo un obbligo morale, e la fondazione di una civiltà è qualcosa di più di una semplice soddisfazione dei bisogni di vita primari.

Il concetto di onore veniva rappresentato come il centro dell’essenza germanica. Per converso, si legga Gita II, 33-34: «Ma se non affronterai questo giusto combattimento, rinuncerai al dovere del tuo stato, all’onore e ti troverai nel peccato. E inoltre la gente racconterà il tuo imperituro disonore e, per un uomo rispettabile, il disonore è peggio della morte». Si può vedere che la coerenza dello spirito ha lo stesso significato concettuale di quella dell’anima mettendo a confronto le frasi dal testo nazionalsocialista, che recita «Alla fine, se noi rimarremo fermi, la vittoria sarà nostra. Questo lo sappiamo con certezza, perché siamo consapevoli della nostra missione», e il brano da Gita II, 23: «Le armi affilate non la tagliano, il fuoco non la brucia, l’acqua non la bagna, né il vento la prosciuga».

Nel Novecento non furono solo i tedeschi a farvi diretto riferimento, ma anche il fisico statunitense Julius Robert Oppenheimer, il “padre” della bomba atomica, il quale  ricordava il passo che recita: «Io sono il tempo che fa deperire i mondi, perché io sono completamente sviluppato» (Gita XI, 32). Con molta probabilità, l’insegnante di sanscrito di Oppenheimer aveva scelto di tradurre «il tempo che fa deperire i mondi» con “morte”, tant’è che il famoso scienziato disse «Now I became Death, the destroyer of worlds» in data 16 luglio 1945, ovvero quando fu testimone della prima detonazione di un’arma atomica. Fece riferimento a ciò perché la deflagrazione gli fece ricordare lo stesso Krishna, che non è una divinità associata soltanto alla creazione, ma anche alla distruzione.

La Gita fu anche punto di riferimento per il poeta Rudyard Kipling, il quale nel componimento Se scrisse una serie di precetti per suo figlio, tra cui «Se sai incontrarti con il successo e la sconfitta e a trattare questi due impostori allo stesso modo», chiudendo con questa raccomandazione: «Considerando uguali piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e disfatta, raccogli le tue energie per il combattimento; così non patirai alcun male» (Gita II, 38).

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