Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
Th. Jefferson, J. Madison, Quanto costa la democrazia? Debito pubblico e generazioni future
introduzione e cura di A. Giordano
Rubbettino, Soveria Mannelli 2021, pp. 112, €12.00.

In base al diritto naturale, ogni generazione è nei confronti di un’altra tanto indipendente quanto lo sono reciprocamente due nazioni.
Th. Jefferson

I miglioramenti effettuati dai morti costituiscono un debito per i viventi che ne godono i frutti. E questo debito non può essere soddisfatto se non tramite un’adeguata obbedienza alla volontà di quanti realizzarono i miglioramenti.
J. Madison

Quanto costa la democrazia? Debito pubblico e generazioni future è quello che può definirsi un libro intelligente, giacché tratta temi attuali e dirimenti secondo un taglio storico, ovvero alla luce di un importante querelle svoltasi tra la fine del Settecento e il primo Ottocento tra due giganti quali Thomas Jefferson e James Madison. Con traduzione, cura e corposa introduzione di Alberto Giordano, esso raggruppa i principali testi del dibattito sul debito pubblico, la giustizia intergenerazionale e i costi della democrazia intercorso tra i due Founding Fathers. Entrambi concordavano sull’esistenza di doveri nei confronti della posterità, nota il curatore – storico del pensiero politico presso l’Università di Genova – ma in modo diverso.

Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti tra il 1801 e il 1809, infatti, considerava il debito pubblico un vero e proprio fardello immorale, giacché limitante la libertà di scelta di ciascuna generazione – sulla perniciosità del debito pubblico si erano già spesi precedentemente Davide Hume e Adam Smith. Secondo lui, ogni generazione aveva pieno diritto di riscrivere la Costituzione e darsi proprie regole, senza dunque essere vincolata al passato. Il debito di una generazione di individui, in tal modo, non poteva pesare sulle spalle dei successori. Secondo Madison, successore alla Presidenza tra il 1809 e il 1817, il debito andava necessariamente contenuto, ma pragmaticamente taluni debiti potevano essere utili per i posteri. Inoltre, pensava Madison, lo stravolgimento continuo delle norme giuridiche e della Costituzione avrebbe potuto delegittimare complessivamente il sistema politico, erodendo così quel consenso tacito su cui ogni regime politico almeno un po’ fa affidamento.

Come scrive Jefferson nella prima lettera riportata nel volume (Parigi, 6 settembre 1789) e spedita a Madison, «la terra appartiene in usufrutto alla generazione vivente», secondo un presupposto autoevidente di diritto naturale (si badi come Jefferson parli di “usufrutto” e non di “proprietà”, differenziandosi così da John Locke). Al cessare di una generazione, che Jefferson calcolava nella durata media di vita di 19 anni – rifacendosi alle tabelle elaborate dal naturalista francese Louis Buffon – la terra, i debiti contratti e così anche le norme che tale generazione si era data cessavano di essere valide. In sostanza, secondo Jefferson la generazione A, cronologicamente precedente alla generazione B, non poteva in alcun modo vincolarla alla sua volontà. In tal senso, per lo statista virginiano «nessuna società può creare una costituzione perpetua e neppure un diritto perpetuo», giacché le mani dei morti non possono in alcun modo disporre l’esistenza dei vivi. Qualora una costituzione durasse più di 19 anni, ovvero la durata media di vita di una generazione, come sopramenzionato, si tratterebbe «di un atto di forza e non di giustizia».

Secondo Madison, la dottrina jeffersoniana, pur stimolante, alimenta più di qualche scetticismo. Infatti, come ebbe modo di rispondergli direttamente in una lettera inviata datata 4 febbraio 1790, il radicalismo jeffersoniano avrebbe messo a repentaglio la tenuta, di per sé già precaria, di un ordinamento politico. Emerge dunque con nettezza, come commenta Giordano, una diversa visione della natura umana nei due pensatori: fiducioso nello sviluppo dell’intelletto umano e nel progresso della storia, Jefferson, scettico e pessimista, o forse solo realista, Madison – si pensi solo al celebre Federalist Paper n. 51. «Un ordinamento istituzionale soggetti a così frequenti revisioni – si domanda quindi Madison – non diventerebbe troppo discontinuo e acerbo per suscitare quei pregiudizi in proprio favore che costituiscono un salutare appoggio anche per il governo più razionale?». E ancora Madison, a proposito della radicale “rottura” intergenerazionale: «Queste revisioni periodiche non potrebbero forse ingenerare pericolose fazioni, che altrimenti non avrebbero ragione di esistere e potrebbero porre in agitazione l’opinione pubblica ben più frequentemente e violentemente di quanto sarebbe auspicabile?». Se Jefferson, insomma, fa del “volontarismo” il metro della sua visione, vincolandolo però a un’acuita forma di responsabilità – e autogoverno, base di una vera e sana democrazia – di ciascuna generazione nei confronti di se stessa, Madison, certamente non ai livelli di Edmund Burke – sul cui pensiero il curatore si sofferma per qualche pagina, ponendolo nel dibattito con Thomas Paine, quest’ultimo vicino a Jefferson – pone enfasi sull’importanza della continuità tra le generazioni.

Sebbene per lungo tempo Jefferson non si profuse in tale dibattito, soprattutto per via dei suoi impegni politici, con una lettera a Wayles Eppes (28 giugno 1813) riprese le sue riflessioni asserendo che «la terra appartiene ai vivi, non ai morti. In base al diritto naturale, la volontà e le facoltà esercitate da un individuo cessano alla sua morte. […] Ogni generazione conserva l’usufrutto della terra per l’intera durata della propria esistenza. Quando tale esistenza cessa, l’usufrutto passa alla generazione seguente, libera e priva di legami, e così via per sempre, in successione da una generazione all’altra. Possiamo considerare ogni generazione come una nazione distinta, che ha il diritto, con deliberazione della maggioranza, di vincolare se stessa ma sicuramente non le generazioni successive, non più di quanto possa vincolare i cittadini di un altro Paese». Ma è nell’ultima lettera riportata che emerge con nitore il repubblicanesimo maturo di Jefferson, in cui, come afferma Giordano, «veniva istituito un legame quasi simbiotico tra esercizio delle libertà democratiche e sovranità di ciascuna generazione».

Scrisse infatti a Samuel Kercheval (12 luglio 1816) che un vero ordinamento repubblicano consta di individui-cittadini che hanno eguale voce in capitolo nella direzione degli affari di tale ordinamento, e che sono in grado di farlo, badando alla propria persona e alla proprietà di cui dispongono liberamente. Certamente, annota Jefferson, solo in una piccola città o comunità è possibile prendere parte direttamente alle questioni politiche. Ma sulla base di una propensione fiduciosa nel progresso umano, Jefferson ritiene che solo la capacità di autogoverno possa preservare il repubblicanesimo, e non già misure di ingegneria istituzionale e costituzionale: «E allora dove potremo rinvenire il nostro repubblicanesimo? Di certo non nella costituzione, ma solamente nello spirito del nostro popolo». Secondo Jefferson, sul cui pensiero, come ricorda Giordano, figurano diverse interpretazioni – da un lato L.M. Bassani, Il pensiero politico di Thomas Jefferson (Giuffré 2002), che legge la funzione primariamente economica e politica di proprietà nel pensiero del virginiano; dall’altro R.K Matthews, Tha Radical Politics of Thomas Jefferson (University Press of Kansas 1986), che legge il pensatore come un critico radicale della diseguale distribuzione della proprietà – è solo dal basso che si può creare, non ingegneristicamente ma spontaneamente, una società capace di “stare in piedi” in modo adeguato: «Dai semplici cittadini, e non dai ricchi, dipende la salvaguardia della nostra libertà. E per preservare la loro indipendenza, non dobbiamo permettere che i nostri governanti ci schiaccino sotto il peso di un debito perpetuo. Dobbiamo operare la nostra scelta tra sobrietà e libertà da un altro, e prodigalità e servitù dall’altro».

Alla fine, sostiene Giordano, è possibile una cordiale sintesi che vada a comprendere il meglio dei due giganti del pensiero politico: dal lato di Jefferson, «il riconoscimento del vulnus democratico rappresentato da un’ottica di breve periodo e la necessità di non riversare sulle generazioni future debiti e scelte ambientalmente  disastrose»; dal lato di Madison, «l’imperativo di porre in atto e rispettare degli obblighi ben precisi non solo da parte dei contemporanei ma anche dei posteri, incarnata nella richiesta stessa di inserire nella nostra carta costituzionale i principi di giustizia intergenerazionale e i vincoli che ne derivano». E proprio da tale conciliazione, sostiene il curatore del volume, potrebbe giungere un fecondo impulso per uno sviluppo futuro più sostenibile e responsabile, ovvero attento alle generazioni future.

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