Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia. Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio(Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.
Italo Calvino: «… una triologia… tre gradi d’approccio alla libertà». Le tre storie: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959).
Negli anni Quaranta e Sessanta il neorealismo si impone nell’arte e conduce una lotta all’avanzata nichilista della borghesia senza bandiere. Gli elementi del neorealismo sono l’avvicinamento al mondo popolare, l’uso di un linguaggio immediato e tangibile. Questa la cartina tornasole applicata dagli scrittori calpestando le orme. La sua investitura fideista, settaria, comporta il rischio dell’uniformità. E il popolo che fa? Dai surrogati dell’autarchia ora fa le bolle con il chewing gum e balla il bughi bughi.
Alberto Asor Rosa è crudele, accusa gli scrittori di finto mecenatismo. Esercitano un risarcimento della propria infelicità, scrive. E spiega che nella riscoperta dell’umiltà dei novelli servi della gleba, graziati ma sempre servi, trovano la consolazione al loro continuo, ininterrotto dolore. Quaresime perenni. Solo Calvino cercherà di salvarsi: «non si devono amare le Recanati, i luoghi della solitudine».
Il neorealismo vanta antenati importanti: Gli indifferenti di Moravia del 1929, Gente di Aspromonte di Alvaro del 1930. Per la loro datazione destano stupore e gettano ombre sui giovani autori. Questi ripudiano il passato, dittatura e guerra, che ha dato loro la maturità. Lo considerano un vestito da gettare e invece è come una pelle fatta di memoria. Rubiamo un’allegoria di Pavese, la facciamo nostra: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Ecco, c’è la necessità di un paese che per noi è il passato.
Calvino è un convinto assertore del movimento neorealista che definisce un insieme di voci. Nel suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (1947) non si sottrae alla ruvidezza del momento storico, all’aspra lotta partigiana ma le rane agli spari si fanno mute e instillano paura. Riesce a far convivere la realtà con la poesia. Scopre il soggettivo, crea un amalgama felice che lo innalza sugli altri autori. Nella recensione del libro, Pavese coglie i bagliori del suo futuro: «La vita partigiana è favola di bosco, diversa», afferma. E scorge risonanze di Kipling, Dickens. Non c’è solo questo, pochi anni e Calvino si permetterà alcune licenze dal famoso impegno sartriano, cede all’immaginazione con Il trittico degli antenati.
Giacomo Scarpelli racconta di un Calvino che, avvolto da nuvole ariostesche e voltairiane, impugna un canocchiale indirizzato al mondo moderno e propone delle fiabe. Il visconte Medardo di Terralba partecipa ad una guerra contro i Turchi. Appartiene a una famiglia nobile del Genovesato e viene nominato tenente. «Gli ufficiali s’incipriavano le ascelle e si facevano vento con ventagli di pizzo». Avviene la battaglia, i cristiani sono pochi «fanti male in gamba». Il Visconte assalta un cannone ma una cannonata lo precede, lo dimezza. Malgrado il corpo diviso vivrà. Discute con i portatori della lettiga sul prezzo, ritiene giusto di pagarne la metà.
Nel dopo offre funghi velenosi al nipote e la balia Sebastiana: «Di Medardo è ritornata la metà cattiva». Purtroppo interviene il Buono, la parte sinistra del corpo che si dimostra peggio del Gramo, la parte destra. Alla vicenda partecipa Pietrocchiodo, un costruttore di patiboli, ci sono i lebbrosi e i profughi ugonotti.
La critica condivide il successo della breve storia e nel Visconte ritrova l’uomo alienato dalla società. Il cammino che percorre invano a cercare la sua integrità. Emilio Cecchi invece lo identifica ne il Dr. Jekyll e Mr. Hyde, il bene e il male che si annidano nell’uomo.
Cinque anni dopo arriva Il Barone rampante. Cosimo Piovasco di Rondò abbandona la famiglia autoritaria e si arrampica su un albero. Rifiuta il piatto di lumache e il fratello: «lo vedemmo che s’arrampicava su per l’elce». Il padre: «Ti farò vedere io, appena scendi!». Cosimo: «E io non scenderò più!». Mantiene la parola. La parabola di una fuga dai comandi di una società repressiva e il rifugio nella natura.
Cosimo si adatta a far da vedetta agli incendi, un compito apprezzato dalla Generalessa. In testa ha l’idea di una società universale, riunisce le confraternite sotto l’albero e predica ai Perfetti Arrotini, agli Illuminati Conciatori di Pelli. Trascorre una vita, i medici e infine il prete devono accomodarsi sui rami. «Cosimo visse sugli alberi, amò sempre la terra. Salì in cielo». Questo avviene con l’aiuto di una mongolfiera riottosa agli aeronauti affannati. Neppure la morte riporta Cosimo a terra.
Non basta, altri due anni e prorompe Il cavaliere inesistente. C’è solo la corazza el Aginulfo? Carlomagno passa in rassegna i paladini, chiede loro nome e casato. Arriva davanti a un cavaliere dall’armatura bianca: «E voi chi siete?» Aginulfo snocciola una lunga filza di nomi. Il condottiero insiste per vedere il volto. Il cavaliere temporeggia e poi cede: «Io non esisto, sire». E mostra l’elmo vuoto. Nei pettegolezzi del campo è ferraglia alla quale non viene la rogna. C’è Bradamante, l’amazzone guerriera, che si schioda per fare pipì e Rambaldo si innamora per la sua nudità. I compagni lo mettono in guardia: «Quella o si passa i generali o i mozzi di stalla!». Priscilla, una vedova castellana, circuisce Aginulfo che deve ricorrere a tutti i sotterfugi per evitare il letto. Un invito sugli spalti evita l’impaccio e l’alba lo salva. Sul finire c’è un intrigo di madre, fratello e incesto con un contorno di specifiche amorose. «Se infelice è l’innamorato che invoca baci di cui non sa il sapore, mille volte più infelice è chi questo sapore gustò appena e poi gli fu negato». Con Aginulfo si perviene alla alienazione totale che lo rende forestiero a se stesso e a tutto quello che lo circonda.
Calvino conferma le nostre impressioni. All’inizio affresca storie di partigiani: «un po’ crudele e un po’ spaccone. Ci davo dentro a tutto spiano con la brutalità neorealista». Osserviamo una dualità esistente, nello stesso periodo scrive sulla speculazione edilizia e una nuvola di smog per l’inquinamento. Con le storie degli antenati usa uno stile ironico e favoloso. Si libera delle scorie di una tragica storia, non favola. Non può ammetterlo ed allora dichiara che non ripudia il precedente, ha aggiunto nuove percezioni imputabili ai tempi nuovi. Disamina l’uomo contemporaneo ricordando che per Marx è alienato, per Freud represso.
Nel 1957 per i fatti d’Ungheria si è dimesso dal partito comunista. La liberazione della fantasia è da imputarsi a questo? Va a vivere a Parigi quasi volesse cambiare ambiente e troncare certi legami soffocanti del nostro paese. Si abbandona a sperimentalismo che qui gli verrà ottusamente rimproverato.
Proviamo simpatia per il Visconte, il Barone e Aginulfo e li ringraziamo per il tempo lieto procurato. Li immaginiamo a Villa Borghese a contendersi con le loro gesta palco e pubblico. La letteratura, gran cuoca della storia, è uno scrigno prezioso ma contiene poche favole. Troppi autori dimenticano la pentola sul fuoco provocando danni e mani bruciate.