Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Meister Eckhart rappresenta uno dei momenti più significativi della storia del Lògos. Egli, come Socrate e Bruno, rappresenta quell’unità profonda, radicale, tra vita e pensiero, tra azione e spirito, tra carne e verità. Come i succitati, egli ha posto al vertice della sua esistenza, facendone la stella polare del suo peregrinare terreno, il valore assoluto della verità. In nome della luce della sapienza non ha temuto di essere bollato dai suoi contemporanei come un eretico, un traditore della fede cattolica. Nel 1326, infatti, mentre a Colonia, nello studium generale, svolgeva la sua intensa attività di predicatore, fu aperto a suo carico dall’arcivescovo Enrico di Virneburg un processo per eresia. Eckhart fu così chiamato a comparire di fronte all’inquisizione locale per difendersi e, eventualmente, ritrattare le sue tesi. Il maestro domenicano fu accusato di aver insegnato una dottrina quasi speculare a quella della setta del Libero spirito, la quale negava il valore dei sacramenti e l’autorità ecclesiastica. Il 24 Gennaio del 1327, Eckhart protestò contro le ingiustizie e le illegalità commesse durante il processo di Colonia, appellandosi al Papa, che in quel momento soggiornava ad Avignone, per essere giudicato dalla massima autorità ecclesiastica. Il 13 Febbraio di quell’anno, nella Chiesa dei domenicani, Eckhart pronunciò, con una pubblica dichiarazione in latino e tedesco, la sua assoluta aderenza all’ortodossia cattolica. Successivamente, partì per Avignone, dove, nei due mesi seguenti, si tenne il processo. Ma il 27 Marzo del 1329 papa Giovanni XXII promulgò la bolla In agro dominico con la quale condannò 28 proposizioni tratte dall’opera del maestro domenicano. A quel tempo, però, Meister Eckhart era già morto. La bolla dichiarò che, alla fine della sua vita terrena, il maestro ritrattò il contenuto delle sue proposizioni, confessando la sua appartenenza totale alla fede cattolica.
La condanna per eresia, l’avvenimento esteriore più significativo e sofferto della vita del domenicano, ci fa comprendere la potenza eversiva di un pensiero estremamente fecondo che affonda le sue radici nell’esperienza dello spirito. Per Eckhart, come per Hegel che del domenicano si professerà debitore, l’oggetto della religione e della filosofia è il medesimo: la conoscenza sperimentale, vivente, delll’Assoluto. Dio, il fine ultimo della ricerca speculativa, non è un oggetto, un’alterità in rapporto a un soggettività finita e separata, ma l’intima sostanza dell’umano. Il compito dell’uomo, per la mistica di cui Eckhart è fulgida espressione, è quello di conoscere il proprio sé, trascendendo tutte le determinazioni finite e parziali che si addensano attorno al nucleo della nostra persona. Sapendo che la conoscenza di sé è, al tempo stesso, conoscenza di Dio e di tutte le cose. Anima e Dio non sono due poli opposti, ma i termini inscindibili di un’unica realtà. Seguendo Agostino, suo maestro prediletto, Eckhart ci dice che Dio è quanto di più intimo vi sia nell’animo umano. Ma, oltre Agostino, riproponendo l’esperienza stessa dello Cristo, marca maggiormente l’assoluta identità fra l’anima e Dio. Lo spirito dell’uomo e quello di Dio non sono conosciuti come se fossero oggetti della conoscenza, separati dal soggetto conoscente. Dio, la profondità insondabile del mio sé e della realtà tutta, non è un concetto, ma il contenuto di un’esperienza interiore. Il compito di colui che ricerca la verità non è quello di conoscere razionalmente Dio e l’anima, ma quello di diventare, esistenzialmente, spirito, generando nel grembo del proprio essere quel Lògos eterno che, in ultimo, lega l’essere dell’uomo e quello di Dio. Nella mistica di Eckhart, come osserva Maria Zambrano, si produce un conoscere che è un essere, dal momento che l’oggetto della nostra tensione conoscitiva non è un oggetto, ma la vita, la vita autentica, ossia la vita dello spirito. Per il maestro domenicano, come per ogni grande maestro, il pensiero è pensiero della vita. Pensiero che nasce dalla sorgente della vita e alla vita fa ritorno. Vita che si cerca e si vuole attraverso la fatica del concetto, tramite l’affannarsi della ragione che cerca cause e fini dell’agire. Martin Heidegger, che della mistica eckhartiana rappresenta uno dei massimi eredi, a tal proposito definì Eckhart non solo Lesemeister (cioè, maestro di dottrina), ma Lebemeister (maestro di vita). Giuseppe Faggin, il primo studioso italiano a tradurre l’opera di Eckhart e a scrivere su di lui una monumentale monografia (Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante), scrisse che è impossibile occuparsi della vita esteriore del maestro, dal momento che tutta la sua vita è racchiusa nella ricchezza spirituale della sua esperienza interiore. L’ineffabilità dell’atto spirituale differenzia il mistico tanto dal filosofo quanto dall’artista. Il mistico, osserva Faggin, non è artista, perché la sua esperienza interiore non trova dimora in nessuna espressione, in nessuna opera. L’artista, invece, è vincolato alle sue forme, s’identifica e si perde nella sua opera. Al tempo stesso, il mistico, pur portando a compimento lo spirito autentico della filosofia, si distacca da quest’ultima perché non pretende di tradurre integralmente, nell’ambito della riflessione, l’esperienza dell’unità profonda dell’anima con Dio. Egli, il mistico, utilizza sì i concetti, ma solo come cifre di un mistero irriducibile: un mistero che, è vero, si consegna alla luce della parola, ma sempre per prenderne le distanze. Per il mistico, anche per il mistico speculativo, quale fu Eckhart, la logica è solo un varco. E il pensiero, il pensiero verace, il pensiero che promana dal cuore dell’assoluto, deve distendersi fino al suo limite estremo. Allora, e solo allora, la logica assolve alla sua funzione metafisica, quella di indicare l’impossibilità di una integrale sussunzione dell’essere nei gangli delle categorie della mente. Insomma, la mediazione si scontra con un’immediatezza di segno diverso da quella grezza della sensazione. Tale immediatezza non costituisce il presupposto empirico dell’attività conoscitiva. Essa è il risultato di un percorso di progressiva spoliazione di tutto ciò che impedisce la semplicità dell’anima, l’ardere dell’unità che avvince l’essenza dell’uomo all’essenza divina.
Il maestro domenicano intende espungere dal messaggio cristiano ogni aspetto mitico. I dogmi della Trinità e dell’Incarnazione non possono essere assunti per relegare il mistero cristiano nella contingenza dell’evento storico. Cristo non rappresenta il divino che si è incarnato in un tempo e in un luogo specifici. Egli è l’immagine del divino che s’incarna nell’eternità dell’istante; quell’istante nel quale l’anima trascende il proprio attaccamento alla carne per divenire pura ricettività. Richiamandosi ad Aristotele, e alla sua dottrina dell’intelletto attivo, Eckhart afferma che, così come l’intelletto possiede la facoltà di rendersi vuoto affinché possa ricevere dall’esterno le immagini che lo impressionano, così l’anima deve preservare la sua verginità affinché possa accogliere l’irruzione del Lògos.
La storia del Dio-Uomo diviene in questo modo il simbolo della generazione eterna del Verbo, del divino, nell’anima distaccata. Il Figlio di Dio nasce continuamente nello spirito che, hegelianamente, ha dismesso la sua rigida unilateralità. Come ammonisce Silesius, poeta mistico ispirato dal maestro domenicano, Cristo non deve nascere a Betlemme, ma nel cuore dell’uomo.
Emerge, dunque, nella riflessione del domenicano, quanto Heidegger sosteneva di ogni grande architettura filosofica. Essa ruota sempre attorno a un pensiero fondamentale, un pensiero-matrice, che genera tutti gli altri pensieri. Così Eckhart, utilizzando la forma del sermone o quella del trattato, sembra insistere sempre sull’insegnamento, di plotiniana memoria, del distacco. Principio e fine del filosofare è il distacco da sé e da tutte le cose che, per utilizzare il lessico di Marcel, attengono alla dimensione dell’Avere e non dell’Essere. È facile distaccarsi dalle cosiddette cose terrene, dai legami materiali ed affettivi. Ma ben più difficile è prendere congedo dall’origine tacita di ogni attaccamento, quell’amor sui che nell’uomo rozzo, privo di educazione spirituale, assurge a valore supremo. Per questo motivo, Eckhart attribuisce una grande importanza all’umiltà, al suo significato sapienziale, non solo etico. Essere umili, infatti, non vuol dire tanto riconoscere i propri limiti sul piano conoscitivo e morale, ma realizzare l’assoluto decentramento dell’egoità. Tale riconoscimento non è un’azione prodotta dal soggetto, il frutto di un lunga catena di deduzioni, ma un’esperienza che giunge, per così dire, dall’alto, quasi fosse un miracolo. Si può dire che il distacco è la verità dell’essere che si auto-svela nell’auto-coscienza dell’uomo. La verità irrompe nella rete del linguaggio, nel cerchio della soggettività (senza la quale resterebbe muta, puro silenzio), ma è più grande delle parole che tentano di esprimerla e dell’io che la riceve. Seguendo il Vangelo, Eckhart afferma che solo la verità ha il potere di liberare e di trasformare davvero la vita di un uomo. Nel sermone Gesù entrò, il domenicano ipotizza che l’intelletto abbia la facoltà di accogliere tutte le immagini, anche quelle appartenenti all’intelletto di Dio. La libertà, osserva il Maestro, non consiste in questa presunta facoltà, ma nella capacità di trascendere ogni legame a ognuna di queste immagini. La libertà, il distacco, non coincide dunque con l’innocenza, con una supposta purezza, ma con il potere di sciogliere tutti i legami finiti che vogliano imporsi come assoluti. L’attaccamento, l’Eigenschaft, la tensione della mente ad appropriarsi dei fenomeni interiori ed esteriori, ostacola l’erompere dello spirito. Lo spirito non è una sostanza fissa, un substrato della personalità, un’essenza, bensì l’atto attraverso il quale la ragione si congeda dalla brama del possesso, dai concetti di io e mio. V’è, allora, una sottile differenza tra la conoscenza intellettuale, dall’accumulo del sapere, e la sapienza, la conoscenza che distacca. Il riferimento eckhartiano ad una conoscenza così vasta da contenere tutte le immagini, tutte le rappresentazioni intellettuali, richiama alla memoria l’inno alla carità di San Paolo. Qui l’apostolo ribadisce la sterilità di una conoscenza intellettuale incapace di poggiare sulla forza trasformatrice dell’amore: conoscere tutte le lingue del mondo, possedere tutta la scienza capace di indagarlo, non serve a niente se non si è nati di nuovo. Si badi bene che l’amore menzionato in questi versi folgoranti non è l’amore inteso come passione, come desiderio che incatena all’oggetto desiderato, ma l’amore che sopraggiunge in virtù della spoliazione della propria individualità empirica (l’opposizione tra io empirico e spirito che tanta fortuna e centralità avrà nei sistemi di Fichte, Hegel e Schelling affonda le sue radici nella mistica tedesca), come frutto e intima sostanza dell’auto-trascendimento. L’amore che crede, spera e sopporta ogni cosa è l’amore distaccato del Cristo, il quale ha dato la vita per i suoi amici. Quest’amore che non chiede nulla in cambio, che vive del suo incondizionato donarsi, è il frutto più maturo dell’esperienza dello spirito. La cultura e le opere possono nella misura in cui legano al tempo, a un prima, costituito dal progetto, e a un dopo, costituito dalla ricompensa. L’uomo vecchio, l’uomo dell’attaccamento, agisce soltanto in vista dell’utile, solo se intravede la possibilità di un accrescimento del proprio ego. In questo modo, non vive nell’istante, nella realtà assoluta del presente, ma nel passato e nel futuro, sempre fuori di sé. Il distacco, dunque, è un nuovo modo di rapportarsi all’essere e al tempo, un nuovo modo di abitarlo. Esso è l’architrave di un insegnamento spirituale ed etico al contempo. Infatti, il primo significato di uno dei termini chiave per indicare l’operazione del distacco, gelâzenheit (in tedesco moderno Gelassenheit), è morale. Esso indica primariamente l’atteggiamento di chi non guarda più le cose sotto il segno dell’utilità, ma sotto il segno della nudità. Il distacco è lasciar-essere ogni cosa, lasciarla al suo essere, al suo mistero indicibile. Questa postura teoretica ed esistenziale caratterizza tanto la dottrina dell’anima quanto la teologia eckhartiane, tenendo ben in mente l’artificialità della separazione fra questi due domini speculativi. La scoperta del fondo dell’anima, Grund der Seele, e l’attingimento del fondo senza fondo, l’Ab-grund della Gottheit sono il medesimo evento. Un evento in cui giunge al suo apogeo la pratica del lasciar-essere. Così come il lasciar-essere nei confronti delle cose consiste in un esercizio di epochè, di trascendimento di tutti i significati che velano la nuda realtà di ogni ente, così la dottrina eckhartiana dell’anima mira al superamento di tutte le sue potenze, ponendo fine, così, a tutte le teorie sull’anima; affermando risolutamente l’impossibilità di formulare un discorso su di essa, giacché, come Dio, è senza nome – namenlos. Per Eckhart l’anima, necessariamente, deve perdere se stessa, ridursi a nulla, affinché in questo smarrirsi, in questa nientificazione, possa trovare Dio. L’anima deve perdersi per ritrovarsi; Dio deve essere negato affinché dalle ceneri della sua negazione spunti il suo volto autentico:
«Solo quando l’anima diviene creatura essa ha un Dio. Se essa perde di nuovo il suo carattere di creatura, Dio resta in se stesso quello che è. E il più grande onore che l’anima possa fare a Dio è abbandonarlo a se stesso e liberasi di lui» (L. Cognet, Introduzione ai mistici renano-fiamminghi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 104.)
Non v’è, come abbia già accennato, un oggetto chiamato anima contrapposto a un altro oggetto chiamato Dio. La scienza dell’anima non può essere ridotta al sapere scientifico che indaga oggettivamente i fenomeni naturali. Essa è un sapere esperienziale imperniato sull’operazione, teoretica e morale insieme, del distacco. Bisogna abbandonare il Dio che è frutto della nostra fallace immaginazione se si vuole esperire davvero l’abisso insondabile della deità al fondo del reale di noi stessi. L’intelletto, dunque, in senso forte, è spirito. E lo spirito, lungi dall’essere una fantasmagoria, un quid indefinibile e indefinito, è la forza capace di padroneggiare il niente, di condurre il cammino dell’intelligenza alla nientificazione di ogni finito, nulla compreso. Lo spirito è l’atto stesso del trascendere e questo trascendere, questo distacco, è intelletto è amore.
Ma l’amore in Eckhart, lo abbiamo già visto, non è un sentimento, ma una virtù. Questa sottile distinzione avrà eco straordinaria nel pensiero di Simone Weil e di Iris Murdoch, che alla Weil esplicitamente si richiama. L’amore non è, secondo il domenicano, un sentimento caotico, un’esperienza di sconvolgimento interiore vissuta passivamente. L’amore è un atto dell’intelligenza, un atteggiamento che coinvolge la totalità dell’anima. Esso non si rivolge a un bene finito, ma al Bene infinito. A quel Bene, in virtù del quale, tutte le cose possono dirsi buone. L’impianto platonico è del tutto evidente. L’amore, come nel Convito, si dirige alla mutevolezza del corpo per elevarsi, progressivamente, alla perfezione dell’Idea, della struttura intelligibile dell’essere. Ma ciò che manca in Platone è il carattere eminentemente dialettico dell’amore. L’amore è distacco, trascendimento del finito. Ogni desiderio che incatena l’anima, rendendola schiava di oggetti finiti, particolari, brucia soltanto quando emerge quello che Spinoza chiamava l’amor intellectualis Dei, il desiderio dell’Assoluto. Soltanto desiderando l’Assoluto, la sua abbacinante verità, è possibile relativizzare e contenere tutti gli altri desideri. Il male, e il dolore che ne consegue, consiste nell’assolutizzare ciò che è relativo, nel chiamare infinito ciò che è finito. La liberazione dalle passioni avviene tramite il dominio dell’intelligenza, passione attiva per eccellenza, per usare ancora il lessico spinoziano. Solo chi non ama niente, paradossalmente, può amare tutto. Ossia, solo chi ama il Tutto, l’Assoluto, l’assoluta verità, può amare davvero le creature. Poiché il suo amore, in Dio, non si configura più come tensione, volontà di possesso, ma come lasciar-essere. Chi ama davvero, secondo Eckhart, cessa di amare un oggetto altro. In verità, seguendo il domenicano, ci si accorge che non c’è un io amante e un tu amato. Non si tratta di amare questo o quello, ma di essere l’Amore. Dove c’è l’Amore, in senso forte, c’è un vuoto ad accoglierlo. L’Amore entra solo nell’anima che ha obliato se stessa. Nell’Amore riluce la verità del cristianesimo, la sua dialettica. L’Amore di Dio, infatti, è amore nel duplice senso del genitivo. Nell’amare Dio è Dio che ama e si ama attraverso l’Uomo. L’Amore, allora, è il Logòs stesso, il Figlio, la rivelazione del ritmo trinitario immanente al dispiegarsi del reale. Esperienza dell’Amore/distacco è esperienza dello Spirito, dell’onnipresenza di Dio, «supremo distacco», in tutte le cose. Questa esperienza universale, transculturale, è, nel linguaggio cristiano adoperato da Eckhart, «generazione del Verbo», nascita di Dio, Parola originaria al fondo di tutte le parole, nel vuoto dell’anima. La teologia mistica di Eckhart non concerne un presunto sapere oggettivo di Dio. Non vi può essere teologia, discorso su Dio. Si può solo essere, incarnare, nel distacco, il Verbo ineffabile di Dio. Si può conoscere davvero soltanto quello che si è, quello che si incarna e si genera nel fondo dell’anima. Ma questa generazione, questo amore/distacco, è, ancora una volta, una duplice generazione. È, precisamente, l’umanizzazione di Dio, il suo generarsi nel vuoto dell’anima, ed è la divinizzazione dell’umano, il suo farsi vuoto per ricevere il sigillo del divino. Questo duplice processo, che è valso ad Eckhart l’accusa di panteismo, rappresenta il superamento tanto del dualismo, l’assoluta separazione di anima e Dio, quanto del monismo, l’assoluta identità di anima e Dio. Seguendo l’interpretazione di Schürmann, si può dire che l’identità posta da Eckhart fra anima e Dio non mira ad affermare l’assoluta indistinguibilità dei due termini, ma ad affermarne la non-alterità, la non-dualità. Dio non è né immanente né trascendente, ma immanente e trascendente insieme. Questa unità, però, non è data, ma è da farsi, in itinere, perpetua auto-donazione. A riguardo Schürmann distingue finemente tra identità statica, la totale risoluzione dell’infinito nelle sue determinazioni finite, e identità peregrinale, il perpetuo farsi Uno da parte dell’Uno. L’Assoluto, il Verbo, non è né uno né due, ma non-due. La non-dualità, però, è solo un nome per descrivere la creatio continua del Lògos, la sua inesausta gestazione e incarnazione. Dio non ha creato in un punto remoto della storia e del cosmo, ma è, ad ogni istante, questa eterna generazione. Secondo Eckhart, bisogna prendere sul serio, fino in fondo, l’annuncio evangelico. Il vangelo, lo rilevava Simone Weil, non contiene una teologia, un discorso logico-filosofico su Dio, ma uno stile di vita radicalmente nuovo. La verità, per il domenicano, non è né la parola professata dalla Chiesa né la parola del testo sacro, ma la Parola originaria che rifulge nel Grund der Seele. Il locus revelationis, come è intuibile dal discorso che Gesù rivolge alla Samaritana, non è nessun luogo e nessun tempio esteriori, ma quel tempio interiore edificato dal soffio dello spirito e dalla pietra inossidabile della verità. Eckhart, accusato ingiustamente di eresia, è stato il primo ad accogliere la radicalità del messaggio cristiano. L’uomo è chiamato, come dirà Dante, suo contemporaneo, a indiarsi. E, attraverso la Théosis, la divinizzazione dell’anima, dare avvio alla divinizzazione del mondo. Il vangelo non è un fuoco appiccato duemila anni fa. La sua fiamma, la fiamma inestinguibile dello Spirito, si propaga in eterno.