Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.

A cura di Giusy Capone

  1. «Poi Zeus sposò la lucente Themis, che diede alla luce Horai ed Eunomia, Dike e la fiorente Eirene, colei che dà significato ai travagli degli uomini mortali». Così Esiodo. Nel complesso momento storico che viviamo quale significato assume il termine “Pace”?

Lo spiegano voci antiche come quelle di Esiodo e Pindaro: come scrive il cardinale Matteo Maria Zuppi nella prefazione al mio ultimo libro Il viaggio di Irene. Per una storia della pace (Avagliano, Roma 2023), il pensiero degli antichi spesso sembra più lucido di quello di tanti contemporanei. La madre di Irene, dea della Pace, è Themis, dea della Giustizia universale; e il padre è Zeus, colui che stabiliscedi un nuovo ordine cosmico. Le sorelle di Irene sono Eunomia, il Buon governo, e Dike, la Legge, la giustizia del diritto che presiede alle leggi degli uomini. Pindaro descrive Themis mentre alle fonti di Oceano la vanno a prendere le Moire, le dee del destino che filano le nostre vite. Ed ecco il significato, ecco il legame: la Giustizia, madre della Pace, sta nel destino degli uomini, e va insieme al Buon governo e alla Legge morale. Inoltre, nella statua di Cefisodoto il Vecchio riprodotta in copertina, la dea Irene tiene tra le braccia il piccolo Pluto, simbolo di ricchezza e abbondanza, che dunque si trovano soltanto in tempo di Pace. Non bastasse, il mito greco racconta che furono la dea della Pace e le sue sorelle, le Ore (Horai), ad accogliere Afrodite, dea dell’amore, mentre nasceva dalla spuma del mare. Queste connessioni mitiche rendono conto del significato della Pace in ogni momento storico, ancor più in quello che stiamo vivendo: la Pace non è soltanto assenza di guerra o compromesso frutto di un’alleanza, ma è un principio fondante dell’ordine universale, si unisce per parentela di sangue al Buon governo e alla Giustizia, reca ordine, abbondanza e armonia. Come disse padre Ernesto Balducci, grande diffusore di una cultura che contrastasse il concetto distorto di progresso che ci ha portato fin qui: «la Pace non è un’utopia per idealisti, ma è un principio di realtà».

  1. Simone Weil, ricordando Platone, scrisse: «Per noi la suprema giustizia è l’accettazione della coesistenza insieme a noi di tutti gli esseri e di tutte le cose che di fatto esistono». Anche dei nemici?

Certamente. Simone Weil, dal pensiero profetico e luminoso, analizzò l’Iliade come poema della forza, e si richiamò a Platone in un suo scritto dal titolo significativo La Grecia e le intuizioni precristiane. Accogliere la suprema giustizia, che poi è il comandamento di Gesù “ama il prossimo tuo come te stesso”, significa ammettere e accettare la coesistenza di tutti gli esseri e le cose, anche di quello che non ci piace. Dunque accettare di avere dei nemici come un male necessario che limita la nostra potenza ed equilibra il mondo: non è lecito desiderare che non esistano nemici, perché se lo si desidera, si proverà ad annientarli. È necessario invece, per vivere bene, riconoscerli e rispettarli. In un momento storico in cui il superamento del limite sembra diventata una virtù invece che quel peccato supremo, nemico della Pace, che nella Grecia antica veniva severamente punito dagli dèi, l’affermazione di Simone Weil sottolinea che la giustizia e la pace possono anche derivare da un’alleanza, scritta e codificata, che però deve essere volontà collettiva di non oltrepassare il limite. Il nemico impone un limite da rispettare. E, come ricorda Eraclito, perfino «il Sole non oltrepasserà i suoi limiti, altrimenti le Erinni, al servizio della Giustizia, lo coglierebbero in flagrante crimine». Le Erinni sono guardiane del limite, e puniscono chi non lo rispetta: oggi, le vediamo aggirarsi ovunque.

  1. La filosofia occidentale formula una “filosofia della guerra” ma non una “filosofia della pace”. Dove risiedono le ragioni di una siffatta scelta, almeno fino al Settecento?

In realtà, ed è quello che ho cercato di evidenziare scrivendo il libro, una filosofia della pace esiste fin dall’antichità, se si vuol seguire la letteratura, che è la madre della filosofia. Anche se oggi, come in molte altre epoche, la guerra infuria e la pace è, diciamo, un “pensiero debole”, la pace ha comunque percorso tutta la storia dell’umanità. Basterebbe ricordare le parole che, nell’Iliade, Andromaca dice ad Ettore: «Non rendere orfano il figlio, non fare della tua donna una vedova». O il comandamento che Atena impone ad Achille furioso: «Vengo dal cielo per impedire il tuo impeto. Poni fine alla lite e non brandire la spada». O ancora le parole di Creso nelle Storie di Erodoto: «Nessuno è così folle da preferire la guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra invece i padri seppelliscono i figli».

Aristofane, nella sua commedia intitolata proprio alla dea Irene, si erge in favore della pace in modo assoluto – siamo intorno al 400 a.C. – e prende una posizione nettissima: Irene, dopo essere stata liberata dal contadino Trigeo dalla prigione in cui la teneva il demone della guerra, rifiuta sacrifici cruenti e trasforma le lance in pali per reggere le viti, le creste degli elmi in spazzole, gli scudi in recipienti. Anche questa è filosofia. Ma si è dovuto aspettare il Settecento e Kant per un vero e proprio trattato sulla pace. E forse le ragioni le spiega Tucidide quando afferma che il desiderio di accrescere la propria potenza è caratteristica indissolubile della società umana organizzata politicamente, e non può che comportare il desiderio perenne di annientare il rivale. Si torna alle parole di Simone Weil: accettare il nemico. Pensieri fondanti per una filosofia della pace si ritrovano tuttavia anche prima di Kant: in Francesco D’Assisi, Petrarca, Erasmo da Rotterdam. Del resto Kant, devoto solo alla Ragione, dimenticava qualsiasi senso del sacro. Le leggi umane, l’organizzazione giuridica, non bastano a mantenere la Pace. Indubbiamente, seguendo Kant, il perfezionamento morale dell’uomo passa attraverso l’espulsione della guerra dalla Storia, ma la Storia sempre sposta i suoi confini, e quel che era morale ieri rischia di non esserlo più oggi, quel che era politico secoli fa oggi può non esserlo più, e così via. Dunque, non basta la ragione, la narrazione storica, ci vuole un senso del sacro che superi lo spazio e il tempo, una sacralità da ritrovare nella natura che ci vive intorno, nel volto dell’Altro come diceva Lévinas, negli dèi che sono uguali tra loro ma insegnano il rispetto delle differenze, e del limite. Allora, come il contadino Trigeo, possiamo liberare la dea della Pace dalla prigione in cui Guerra e Tumulto l’hanno rinchiusa.

  1. Virginia Woolf così si espresse all’alba del secondo conflitto mondiale: «Nella guerra attuale lottiamo per la libertà, ma la otterremo solo se distruggiamo gli attributi maschili, la violenza, e l’idolatria del potere». È compito della donna instaurare la pace?

La Woolf – ispirandosi alla figura di Antigone – si riferiva a un cambio di mentalità, a un salto culturale necessario a cui le donne potrebbero contribuire in modo fondamentale, a costo della disubbidienza a leggi fin troppo umane e contrarie a quelle universali e sacre. Lo stiamo vedendo anche con la sanguinosa lotta in corso in Iran, partita proprio dalle donne. Un grande cambiamento culturale è necessario, per un pensiero critico che consenta di superare le divisioni, le posizioni, l’umana sete di potere e di dominio, e quindi riporti la Pace sul suo trono di principio universale. Spesso le donne si sono fatte portatrici di questo pensiero. Oltre a Simone Weil, si deve ricordare Etty Hillesum, che prima di morire ad Auschwitz, scrisse: «Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà trovata da ognuno in sé stesso, se ogni uomo sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo».

Nonostante questi fulgidi esempi, non è solo della donna il compito di instaurare la pace: ci sono, e ci sono state, donne dal pensiero contrario, che parlano di armi e di riarmo, di respingimento e non di accoglienza, usano parole di guerra e non di pace. Ne abbiamo molti esempi: governatrici più o meno simili alla Thatcher, o – se vogliamo – più seguaci di Atena, la dea che nacque già armata dalla testa del padre, che di Artemide con la sua rigorosa verginità mentale, o di Afrodite che generò Armonia.

  1. Quanto, a suo avviso, il connubio linguaggio e violenza ha consentito il dilagare degli estremismi ideologici?

L’impoverimento del linguaggio a cui stiamo assistendo, specchio di quello culturale, certamente è responsabile dell’estremizzazione di quelle che forse non si possono neanche più chiamare ideologie, perché hanno perso ogni sacralità e sono diventate solo strumentali. Roberto Calasso chiama “innominabile attuale” questi decenni del nuovo millennio, intendendo l’età in cui «ciò che prevale è l’inconsistenza, un’inconsistenza assassina». Il sociologo Franco Ferrarotti ritiene che l’homo sapiens sia già stato sostituito dall’homo sentiens, tecnologicamente bombardato da una miriade di messaggi e stimoli slegati e frammentari ma potentissimi emotivamente: per Ferrarotti, l’homo sentiens ha perso la razionalità socratica e la logica analitica ed è mosso da impulsi pre-razionali, neotribali ed emotivi. Internet, con l’avvento dei social network, da possibile spazio di libertà in cui gli uomini potevano stabilire relazioni orizzontali senza padroni, è diventato un potere economico, politico e sociale oligarchico e verticale, concentrato nelle mani di pochissimi. Sussiste un pericolo ancor più grave dell’estremizzazione, ed è l’assolutizzazione. Aldo Capitini, che fu soprannominato il Gandhi italiano, già agli albori degli anni Quaranta capì il rischio della «assolutizzazione della politica e dell’economia». Non è proprio quando il linguaggio si fa più povero, polarizzato, privo di possibilità di confronto, che i cittadini sono più deboli e si aprono le porte di ogni guerra?

  1. Colui che è capace d’esprimersi non ha necessità di appellarsi alla violenza: vige una cesura netta tra linguaggio e violenza?

Dovrebbe invece vigere una decisa affinità tra linguaggio e non-violenza. Luciano Canfora mette al centro l’educazione, e afferma: «Gli studenti condannati a una preparazione scarsa o apparente, o addirittura all’ignoranza, diventano più facilmente schiavi del potere. Sono cittadini debolissimi, indifesi, aperti a ogni influenza improvvisata e chiassosa». Tutto questo è contrario ad Irene, la dea della Pace. Il linguaggio della politica è diventato povero e violento, e ci travolge: politica viene dal greco politiké e indica tutto quello che attiene alla città-stato, e quindi ai suoi cittadini, che siamo noi. Parlare il linguaggio della Pace significa seguire il pensiero costruttivo degli uomini e delle donne citati nel libro, un pensiero che dovrebbe entrare in tutte le scuole e nelle istituzioni. Le azioni politiche di Aldo Capitini, a cui si deve la marcia Perugia-Assisi, miravano a modificare una società ingiusta attraverso la non-violenza, che diventa in lui non solo una testimonianza, ma anche un «metodo in grado di influire sull’azione sociale e politica, contro quella nefasta saldatura tra deriva tecnocratica e principio della forza che accomuna l’Oriente comunista e l’Occidente capitalista». Giorgio La Pira, tra i principali artefici della Carta Costituzionale e per tre volte sindaco di Firenze, diceva che il suo preciso dovere era nei confronti di chi soffre: «intervenire in tutti i modi  e con tutti gli accorgimenti che l’amore suggerisce e che la legge fornisce perché quella sofferenza sia lenita». Parole che richiamano quelle di Antigone a Creonte: «Sono nata per condividere amore, non odio». Non dimentichiamo che Papa Francesco ha definito il perdurare della guerra come «il vero fallimento della politica». Nello stesso modo, la violenza è il vero fallimento del linguaggio.

  1. Quali sono le attuali possibili derive autoritarie del nesso linguaggio-violenza?

Le rispondo con una frase del poeta francese Paul Valéry: «Supponiamo che l’immensa trasformazione che noi stiamo vivendo, e che ci sta cambiando, si sviluppi ancora, alteri alla fine ciò che rimane dei nostri costumi, disponga in altro modo i bisogni e i mezzi di vita; presto la nuova era produrrà uomini che non saranno più legati al passato da nessuna abitudine mentale. La storia non offrirà loro che racconti strani, quasi incomprensibili: perché niente, nel loro tempo, avrà avuto un qualche esempio nel passato». Quando non si comprende più la complessità del nostro linguaggio, la molteplicità delle nostre tradizioni, e non ricordiamo quella contemporaneità dell’antico di cui parlava lo scrittore Giuseppe Pontiggia, le derive autoritarie ci stanno già di fronte.

  1. La Cultura corre il rischio d’essere investita dalla violenza della comunicazione?

Come da uno tsunami. È una comunicazione violenta perché priva di profondità, di analisi e di autentico confronto. E quel che più è allarmante è quando la violenza e l’autoritarismo si vestono di cultura e si dipingono di un concetto assai distorto di inclusione, parola con cui ci si sciacqua continuamente la bocca mentre cresce a dismisura la platea degli esclusi e il divario tra ricchezza e povertà. Quanti diritti sociali ci sono già stati strappati fingendo di darci in cambio quelli civili, che invece vanno insieme? Non vorrei neanche parlare del “politicamente corretto” o della cancel-culture ma è un esempio purtroppo calzante. Imporre una sorta di cambiamento che non è quello culturale auspicato da Virginia Woolf o Simone Weil che descrivo nel libro, ma è quello all’acqua di rose che predica la riscrittura di romanzi o la stortura del linguaggio, è una violenza gattopardesca che non cambia nulla. Invece di diffondere le parole di Antigone si cancellano quelle di Shakespeare; invece di ascoltare le parole dei poeti si bandisce Dickens dagli atenei inglesi; invece di insegnare che nel mito greco operano potenze femminili primigenie come la Giustizia, la Memoria, la Terra, la Pace, siamo pieni di panchine rosse, eppure le donne continuano a morire ammazzate dai loro uomini. E allora concludo con le parole del cardinale Zuppi, dalla prefazione al mio libro: «I nazionalismi, i pregiudizi, l’ignoranza, il potere economico e politico, i poteri occulti, la concentrazione di potere in poche persone, il commercio di armi, i totalitarismi che si impadroniscono dell’individuo: ecco, sono tutte ragioni pericolose quanto le guerre, perché sono loro il terreno di cultura e coltura della tempesta, la preparano, la giustificano, la rendono perfino “giusta”». Queste ragioni pericolose sono la comunicazione violenta che oggi ci investe, nemiche di tutto ciò che è sacro: la Natura, la Memoria, la Giustizia, la Cultura, la Pace.

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David Fiesoli è nato e vive a Prato. Laureato in Psicologia all’Università di Padova, è ricercatore presso il Centro Internazionale di Studi Europei “Sirio Giannini”. Studioso di letteratura, mito, e cultura greca, ha scritto per le pagine culturali di diversi quotidiani, settimanali e mensili. Tra le sue pubblicazioni: Il vincolo ricurvo (Napoli, Marotta, 1997), Il segreto di Talete, in «Kamen’» n. 16 (Piacenza 2000), il Discorso di Ofelia, in Autori contro la guerra (Editori Associati, Roma 2003),  Il viaggio di Irene. Per una storia della Pace (Avagliano, Roma 2023).

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