Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
M. Žantovský, Havel. Una vita
La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 682, € 25.00.
«Presumo che voi non mi abbiate eletto a quest’ufficio per farmi continuare a raccontare bugie». Quel 1° gennaio 1990 a Praga l’aria era gravida di immense aspettative. Il nuovo presidente Václav Havel stava parlando alla nazione. Fedele al suo stile bohémien, Havel aveva registrato il discorso la sera precedente, per essere libero di trascorrere il veglione tra vecchi amici e bere birra in gran quantità. Il mattino successivo, stordito dall’alcol, non sarebbe stato in grado di parlare al suo popolo appena liberatosi da quattro decenni di socialismo reale.
Nel discorso di capodanno si condensano i tratti essenziali di quest’uomo così estraneo alla mentalità politica corrente: un anti-politico senza potere, e proprio per questo un grande politico con un irresistibile potere, il potere morale. Uno di questi tratti era l’amore per la verità, la vita calata nella verità. «Per quarant’anni avete sentito in questo giorno dai miei predecessori una serie di variazioni sullo stesso tema»: le magnifiche sorti progressive della società socialista. Verità ufficiale, cioè cumulo di menzogne: «Il nostro Paese non è affatto in buone condizioni», versa anzi in stato catastrofico materiale e morale. Il popolo cecoslovacco ha vissuto per decenni nella paura, nel conformismo e nella menzogna; è ora che le coscienze anestetizzate si ridèstino e imparino a vivere coraggiosamente nella verità e autenticità.
Le settimane immediatamente precedenti erano già entrate nella storia; l’autunno 1989 aveva riscattato la Primavera di Praga ma se ne era anche profondamente differenziato perché quella lontana generosa stagione aveva tentato una riforma del sistema ma pur sempre entro il socialismo (il “socialismo dal volto umano” di Dubček). Ora invece la “Rivoluzione di velluto” non stava riformando nulla; stava demolendo, per ricostruire su basi completamente diverse. Che tutto ciò stesse accadendo senza spargimento di sangue sembrava un miracolo, e così pure il destino personale di Havel: ancora a maggio ʼ89 egli languiva in carcere e adesso si ritrovava Capo dello Stato, nominalmente eletto il 29 dicembre da un parlamento fantoccio (tutto composto, ironia della sorte, da comunisti) ma in realtà sollevato in alto a furor di popolo, grazie all’indiscusso prestigio morale conquistatosi in decenni di dissidenza politica e prolungati soggiorni nelle patrie galere.
A distanza di oltre trent’anni dal “formidabile” anno 1989 molte delle idealistiche speranze di Havel si sono dissolte. Havel, presidente dal 29 dicembre 1989 al 3 febbraio 2003, lo sapeva già da prima dell’anno 2000 e non lo nascondeva al resto del Paese. In una allocuzione al parlamento (9 dicembre 1997), passata alla storia come il discorso del “cattivo umore”, tratteggiava un quadro impietoso della classe politica e della società ceche, con un potere politico sempre più «nelle mani di persone indegne la cui sola preoccupazione è avere un tornaconto personale anziché tutelare gli interessi del popolo». Queste «persone indegne» sedevano in parlamento e il loro voto sarebbe stato necessario a Havel per conquistare la rielezione alla presidenza. Cosa che poi ottenne. Una ben strana ricerca del consenso.
L’ideale di Havel di una democrazia umanistica contraddistinta dal primato della libertà antidogmatica e delle spontanee realtà associative rispetto all’ordine politico strutturato in sistema e articolato in apparati di coercizione non si è realizzato né nel 1989 né dopo. Ma la memoria di quell’Ottantanove quale momento “alto” ed esemplare di libertà e il ricordo dello stesso personaggio Havel, genialmente eccentrico, visionario ma non utopista, meritano di essere consegnati alle nuove generazioni. Lo impone un dovere di completezza storiografica; e lo impone l’esigenza di antidoti ai subdoli totalitarismi del XXI secolo.
Un contributo davvero fondamentale alla custodia e trasmissione di questa memoria ci è offerto dalla torrenziale biografia Havel di Michael Žantovský. L’opera (del 2014, e oggi tradotta in italiano) è stata scritta da chi ha conosciuto da vicino il personaggio. Žantovský infatti è stato portavoce del Forum Civico nel 1989, poi portavoce del Presidente Havel sino al 1992, ambasciatore ceco negli Usa e direttore della Biblioteca presidenziale “Václav Havel”. Il volume regala aneddoti e curiosità sulla vita del Nostro; inoltre propone interessanti digressioni sulla psicologia di Havel (di formazione, Žantovský è un medico psichiatra).
Ma i veri pregi del libro riguardano la ricostruzione critica – corredata da una attenta analisi di testi, documenti e testimonianze – dei “tre” Havel: il drammaturgo, il dissidente e lo statista. Una tripartizione da accogliere con cautela perché, come argomenta l’Autore, l’artista drammaturgo Havel è inestricabilmente legato al dissidente Havel, e a sua volta lo statista Havel nella sua azione politica sarebbe inconcepibile senza il talento artistico e la tensione etica degli altri due Havel. La creatività artistica del giovane drammaturgo si rivela sin da subito incompatibile con il deprimente conformismo delle verità di regime. La giovanile Festa agreste, che conobbe uno stupefacente successo e assicurò al suo autore la prima notorietà, metteva velatamente a nudo l’assurdità e l’incoerenza «delle infinite lotte e trasformazioni delle istituzioni del regime comunista, le sue epurazioni e condanne» (p. 105). La dissidenza si ritrova già nelle sue commedie. Non è ancora dissidenza politicamente attrezzata ma l’aria di libertà contestatrice che si respirava nel piccolo mondo dei teatri praghesi degli anni Sessanta (il “Teatro Balaustra” divenne un centro di irradiazione del dissenso) risultava particolarmente congeniale a Havel.
Privo di formazione scolastica accurata (per le sue origini borghesi non gli fu consentito di accedere agli studi universitari e rimase sempre un autodidatta, seppure di genio), egli alimentava febbrilmente la sua vulcanica creatività con prepotenti esigenze di libertà e originalità. In lui la dissidenza e l’anticonformismo possedevano una dimensione esistenziale molto prima che intellettuale o politica. Anche da Capo dello Stato rimase fondamentalmente un uomo del dissenso, cioè della libera creatività. Ma, intanto, negli anni Sessanta Havel seppe differenziarsi dagli altri artisti “puri” perché ebbe la capacità «di intrecciare i molteplici stimoli del suo lavoro teatrale con qualcosa di simile a un sistema filosofico» (p. 121). E qui veniamo al “secondo” Havel, all’intellettuale attivo dapprima sulle riviste d’avanguardia (il periodico semiclandestino Tvář), successivamente nella cultura del samizdat (con la creazione e conservazione dei testi che risultano molto più importanti della pubblicazione, quasi sempre interdetta).
La partecipazione di Havel agli eventi della Primavera di Praga fu molto defilata. Una costante del suo pensiero e delle sue azioni da dissidente era infatti il convincimento della irriformabilità del socialismo reale. Pur rispettando Dubček sul piano personale, non lo apprezzava sul piano politico; né nutriva fiducia nelle capacità riformatrici di quei comunisti che si illudevano di poter agire dentro e non contro il sistema. La “normalizzazione” che seguì all’invasione sovietica del 1968 gettò gli ambienti della dissidenza politica nel torpore della depressione (si respirava «un’atmosfera oscura, l’apatia che assomigliava a uno stato di semi-anestesia», p. 170), Anche Havel cadde nell’oblio della noia esistenziale, da cui cercò di riscattarsi impiegandosi come manovale in un birrificio: esperienza di un solo anno (il 1974), che però permise a lui (figlio di borghesi) di comprendere meglio la società cecoslovacca vista e vissuta dal basso.
L’anno successivo Havel indirizzò una lettera aperta al Capo dello Stato Gustáv Husák nella quale presentava una analisi veridica della situazione di asfissìa morale e esistenziale in cui versava la Cecoslovacchia. Senza giri di parole Havel denunciava «la sistematica repressione di ciò che è spontaneo, originale e individuale. C’è calma nel Paese, sì, ma è la calma dell’obitorio o della tomba» (p. 198); e tuttavia nessun potere, per quanto oppressivo e burocraticamente strutturato, avrebbe potuto alla lunga paralizzare la spontaneità della vita. Una lettera coraggiosa, aperta alla speranza quando tutto per i dissidenti sembrava procedere per il peggio. La lettera apparentemente passò inosservata, ma dopo il 1989 si apprese invece che essa aveva impensierito non poco i vertici del Partito comunista causando un inasprimento del regime di sorveglianza. Eppure la Cecoslovacchia con gli Accordi di Helsinki si era impegnata al rispetto delle libertà civili e dei diritti umani ivi menzionati.
Ovviamente il regime non rispettava gli impegni assunti. Lo si vedeva bene ogni giorno. E lo vide benissimo Havel quando nel 1976 assistette all’arresto ingiustificato dei musicisti del complesso rock contestatario Plastic People of the Universe e al processo-farsa che ne seguì. Non si poteva continuare a vivere nel letargo del socialismo reale. Certamente non lo potevano gli spiriti creativi e anticonformisti. Agli inizi di gennaio 1977 Havel, il filosofo Jan Patočka e altri intellettuali redassero un documento – Charta 77 – con il quale si richiamava il governo cecoslovacco al rispetto degli Accordi di Helsinki. Subito dopo quegli stessi intellettuali fondarono col medesimo nome del documento un comitato civico.
La neo-costituita Charta 77 proclamava la fede «nella valenza dell’impegno civico» (p. 221) e la fiducia di poter rimodellare la società come una realtà aperta, pluralista e non ideologicamente orientata. Insomma: una contestazione del monopolio politico e ideologico del Partito comunista. Havel accettò il ruolo di portavoce di Charta 77, con tutti i rischi conseguenti. E infatti già il 5 gennaio 1977 egli e molti altri furono arrestati. Il Politburo del Partito denunciò Charta 77 come sovversiva. Di quei mesi Havel serbò sempre memoria del destino tragico che attendeva l’altro portavoce del sodalizio, l’anziano filosofo Jan Patočka: sottoposto a lunghi e snervanti interrogatori, morì per crisi cardiaca il 13 marzo 1977, non prima di aver scritto un opuscolo apologetico di Charta 77, denso di concetti e di vibrante protesta etica. Havel soffrì molto per la morte del filosofo e se ne sentì responsabile (era stato proprio lui a proporlo come secondo portavoce di Charta 77). Eppure, nonostante la repressione, Charta 77 era tutt’altro che finita: «la sua popolarità e il suo carisma furono notevolmente incrementati» (p. 238) in patria e all’estero.
Ma l’apporto forse più duraturo di Havel alla dissidenza antisovietica giunse nel 1978, col saggio-manifesto Il potere dei senza potere. Come evidenzia Stefano B. Galli nella prefazione, con questo saggio si rivela la robustezza (per quanto asistematica) del pensiero di Havel, il quale approda all’inedita categoria del “post-totalitarismo” superando di slancio le teorie di Arendt e Brzezinski. Nei regimi post-totalitari il potere è meno violento, meno ideologizzato ma molto più sofisticato perché impone ai cittadini una adesione formale e quotidiana ai vuoti cerimoniali dell’ideologia. Scrive Havel: i cittadini per quieto vivere «tollerano la loro vita con e dentro la menzogna e così confermano il sistema, realizzano il sistema, fanno il sistema, sono il sistema» (p. 257). Insomma: il sistema si regge perché i cittadini vivono alienati da se stessi, rinunciano alle proprie identità più autentiche. Ma la risposta potrà arrivare proprio da questi cittadini, scuotendoli dal torpore, affrancandoli dalla paura e facendo loro riacquistare l’identità e la capacità di vivere nella verità. Questa capacità – sono ancora parole di Havel – sarebbe «la bomba atomica che dà potere a chi non ha potere» (p. 257) e farebbe sgretolare il regime in un attimo.
Parole profetiche. La rivoluzione di velluto segnò la riacquistata capacità di cechi e slovacchi di vivere nella verità e gridare al potere: “il re è nudo”. Nel 1978 i tempi non erano ancora maturi ma si deve all’opera sotterranea della dissidenza la creazione delle “strutture parallele”, una polis delle innumerevoli attività sociali e culturali non autorizzate e nelle quali chi vi partecipava a proprio rischio e pericolo ritrovava la verità e la propria identità. Quando le strutture parallele si fecero massa il regime si sciolse come neve al sole.
La parte finale del saggio di Žantovský è dedicata agli anni del post-comunismo, all’Havel statista accreditato negli ambienti internazionali, all’Havel il cui contributo alla transizione dal socialismo alla liberaldemocrazia non può essere sottovalutato. Ma furono anche, per lui, anni di dolorose disillusioni. Subì nel 1992-93 la separazione della Slovacchia ma seppe gestirla con intelligenza e prudenza (si evitò il tragico destino della ex Jugoslavia); subì la preponderanza politica del primo ministro (poi suo successore alla presidenza) Václav Klaus, uomo politico energico e ruvido; ma soprattutto si sentì travolto, lui umanista sino al midollo, dallo strapotere tecnocratico e finanziario. Eppure nel 1997 egli seppe lanciare un messaggio di speranza oggi attualissimo e col quale Havel vive ancora nella coscienza degli Europei. Lasciamo a lui la parola: «al di là di una lettura macroeconomica o tecnocratica del mondo, il terreno più fecondo per qualsiasi tipo di progresso economico è fatto da ciò che non può essere calcolato dai contabili: lo stato di diritto, l’ordine etico, un clima sereno di convivenza» (p. 602).