Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
L. Zanatta, Fidel Castro. L’ultimo re cattolico  
Salerno Editrice, Roma 2020, pp. 440, €23,00.

Le società libere dell’Occidente, in cui i poteri sono divisi e lo Stato è laico, costituiscono una singolarità della storia. I rivoluzionari che sognano la liberazione totale fanno solo anticipare il ritorno ai costumi antiquati del dispotismo (Raymond Aron).

Chissà perché a volte la realtà fatica a essere vista per quella che è. Viene trasfigurata, manipolata, sovvertita col pensiero, attraverso l’immaginazione. Talvolta è difficile accettarla. Soprattutto quando vi sono condizioni e fatti che non piacciono, che proprio non riescono a essere digeriti. Ma con questa, prima o poi, bisogna fare i conti, volenti o nolenti. Epperò vi è chi si ostinerà sempre a cercare di trascenderla, negandola e tentando di risvoltarla secondo un proprio piano che va esteso e, quindi imposto, agli altri. Il mito di Fidel Castro s’inserisce in quest’alveo.

Si chiede Loris Zanatta – storico dell’America Latina presso l’Università di Bologna, campus di Forlì – come sia possibile che Fidel tanto abbia attecchito e continui a vivere di un’aura mitica e gloriosa. In Fidel Castro. L’ultimo re cattolico (Salerno Editrice, pp. 440, € 23) lo storico ripercorre le vicende del Líder Màximo soprattutto attraverso le sue parole. Infatti, se di biografie e volumi dedicati a questo straordinario (nel senso che, nel bene e nel male, la sua impronta rimarrà impressa nel flusso storico) personaggio ne esistono – apologetiche, più che altro – d’altro canto, però, le fonti cubane sono, scrive Zanatta, un tabù: difficilmente vengono rese disponibili.

La cosa curiosa, si diceva, è la impressionante carica salvifica e profetica che la sua figura emana. Infatti, partendo dalle conclusioni, Zanatta riporta un episodio avvenuto qualche anno in un bar vicino a casa. Una barista cubana cercò di dissuaderlo dal comprare la bibita dell’Impero (USA), ovvero la coca cola: «Si poteva non finire a parlare di Fidel? Era donna di mondo, scaltra e socievole; ma guai a toccarle Fidel: “scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”. “Si vede che lei non è povero”, liquidò le mie rimostranze. Aveva ragione: non sono povero; nemmeno ricco; sono un “piccolo borghese”, avrebbe detto Fidel, figlio di lavoratori; la povertà, nella mia esperienza, non è pegno di virtù, non implica superiorità morale; è semmai uno stato da cui cercare di emanciparsi per via dello studio, del lavoro, dell’impegno. Per vivere meglio; avere gratificazioni; essere utile; soprattutto per essere più libero. L’aneddoto non sarebbe rilevante se non si prestasse a riflettere su Fidel, su questo lungo viaggio nella sua vita. E non solo su Fidel: su Cuba, sul castrismo, sul populismo latino e ciò che essi rappresentano nell’immenso mare della storia universale. Il Fidel della barista cubana, dei devoti pronti a sfoderare la spada per difenderlo da chi, come me, alle devozioni è insofferente, non è una figura mondana: è un eroe religioso» (p. 366).

Castro per tutta la vita ebbe un compito: moralizzare la vita del suo popolo – con un certo afflato universalistico, peraltro, come solo chi è mosso da pulsioni totalitarie può concepire: la sua idea era quella Buona e Giusta da esportare in tutto il globo; i nemici non erano semplici avversari, ma incarnavano il Male, erano dunque moralmente abietti e ripugnanti e, in quanto tali, andavano abbattuti per far spazio alla luce, la sua – e portare la felicità in terra. Castro, insomma, non era solo un rivoluzionario, ma un vero e proprio profeta, un sacerdote che doveva redimere l’esistente sulla base della sua religione: mai come nel suo caso, forse, la storia del personaggio è fondamentale per comprendere gli sviluppi del pensiero maturo. Perché sì, scrive Zanatta, «Fidel è innanzitutto gesuita, poi rivoluzionario, infine marxista» (p. 15).

Castro nacque nel 1926 nella parte orientale di Cuba, quella più tradizionale, campagnola e arretrata dell’isola (il padre era un contadino galiziano, poi proprietario terriero). Da subito maturò una profonda ostilità per la città: luogo di depravazione morale, perdizione, vizi e corruzione. Da ciò si capisce subito l’odio viscerale nei confronti della modernità, del liberalismo, del capitalismo, della borghesia: da un lato vi è il Bene, incarnato dagli umili, puri e autentici, dall’altro il Male che si annida nella modernità capitalistica occidentale. Questo manicheismo di fondo, che è poi la matrice essenziale dei populismi, e in particolare di quelli latinoamericani (si veda il volume che dedicò al fenomeno populista uscito per Carocci nel 2013), lo accompagnerà fino alla fine: la battaglia eterna è quella tra Luce e Oscurità, senza alcun possibile compromesso. Tale dogmatismo, che sfociò in una vera e propria visione etico-religiosa dell’esistente, dove la politica non era altro che una semplice costola della religione, si dovette anche alla profonda influenza che gli derivò dalla madre, profondamente credente. Ma il vero punto di svolta fu l’accesso al collegio gesuita di Dolores nel 1938.

Infatti, dopo una parentesi in un collegio in cui molti dei rampolli della borghesia orientale andavano, la scuola dei gesuiti gli sembrò un sogno: dalle risse e dall’aria mefitica che doveva condividere coi suoi ex ricchi compagni, passò a un ambiente «scandit[o] dai tempi della vita religiosa di quei gesuiti spagnoli. convento e caserma, disciplina militare e rigore morale: così era quel mondo austero, severo, maschile» (p. 14). In tale periodo, insomma, introiettò un po’ quei punti di riferimento che, in parte, aveva già cominciato ad apprezzare e che saranno i punti cardine del suo percorso: Sparta era il polo di attrazione, Atene il suo detestato oppositore. Da rigettare era il mondo capitalistico, egoista e lussurioso, individualista e materialista: la via erano «la vita contadina del padre, la religiosità della madre, la furia antiliberale dei gesuiti» (p. 16).

Pertanto il marxismo che incontrò all’università fu solo un abito che successivamente fu aggiunto all’impianto religioso del suo pensiero: ornamento più che sostanza prima. La figura chiave che congiunse questi due tratti in Fidel fu José Martí: padre della patria che si era immolato per liberare Cuba dalla Spagna. Analogamente, Fidel doveva liberare Cuba dal giogo occidentale e, in particolare, statunitense (p. 21). Il nemico, in fondo, era il medesimo tanto per la cristianità ispanica quanto per il comunismo: il liberalismo laico. «Martí – scrive Zanatta – univa Cristo a Marx ed entrambi a Fidel: anche noi vogliamo moltiplicare pani e pesci, pagare salari uguali a tutti, cacciare i mercanti dal tempio» (p. 22). Ma la realtà prestò si vendicò dei progetti economici di Castro.

Il mercato come “procedimento di esplorazione dell’ignoto e correzione degli errori” ovviamente non era da lui accettato: bisognava eliminare la fame, moltiplicare il benessere e così conquistare la felicità terrena. Ma come? L’economia altro non era che una questione morale, come tutto del resto. In sostanza, lo stato (ovvero Fidel) doveva moralizzare la vita: riduzione del prezzo dei servizi pubblici, aumento dei salari, taglio degli affitti. Pur non sapendo nulla di economia, era convinto che bastassero le alte intenzioni etiche per mondare l’esistente dei peccati capitalisti. Voleva creare un’economia autarchica, ma divenne totalmente dipendente dagli aiuti sovietici. Mise Guevara alla Banca Nazionale: «di economia era digiuno; ma a moralismo gli teneva testa. Aveva già deciso di finirla con l’economia di mercato; di governare coi comandamenti» (p. 82). Sennonché, poi, nel 1962 venne introdotta la libreta, ovvero la tessera del razionamento: doveva essere per poco, ma durò per sempre (p. 113). Voleva sconfiggere la logica del capitalismo, ma le parole prima o poi si devono confrontare con i duri fatti della realtà: alla fine, nel 2005 Cuba importava l’80% del cibo consumato, contro il 20% del 1956 (p. 350). Ma la dimensione economica della sua rivoluzione panlatina e messianica va di pari passo con la visione etico-religiosa che aveva dell’organizzazione politica.

La parola chiave in questo senso è unanimismo: «Lo stato era un organismo formato da corpi sociali, professionali, territoriali. Ogni individuo era inquadrato in uno o più di essi. Su tutto vegliava Fidel: re e papa, autorità politica e spirituale, garante dell’unanimità. Era l’opposto dello stato liberale: agli individui opponeva i corpi, al pluralismo l’unanimismo, alla separazione dei poteri e delle sfere temporale e spirituale la fusione: apparteneva alla famiglia dei corporativismi cattolici. Non a caso voleva un popolo disciplinato «come un esercito», perno dell’organicismo ispanico era uno stato etico che imponeva la sua morale; uno stato confessionale che puniva gli infedeli» (p. 98). La libertà promessa altro non era che rigida disciplina imposta, l’eguaglianza sfociava in una rigida e inscalfibile gerarchia, il benessere promesso altro non era che povertà e misera condivise da tutti.

Particolarmente esemplificativo il ruolo che l’educazione doveva rivestire. Cuba, in buona sostanza, era una chiesa, Fidel il suo sacerdote e profeta. Pertanto, l’educazione era indottrinamento, il pensiero critico lasciava lo spazio all’ideologia. Le statistiche delle organizzazioni internazionali circa l’istruzione cubana sembravano prodigiose: ma i laureati giunti negli USA avevano deficit formativi ingenti. Com’era possibile? Presto detto: «I docenti cercavano disperati frasi di Martí e Fidel per illustrare la loro materia. In molti campi era proibita la ricerca: erano capitalisti» (p. 241). Quando la scuola diventa megafono della Verità unica, nulla di buono può scaturire.

Castro doveva portare prosperità e felicità a Cuba. Come l’aneddoto di Zanatta che ha per protagonista la barista insegna, le lenti di un’ideologia che si fa vera e propria religione riescono facilmente a manipolare la realtà. Tuttavia, scrive lo studioso, «misurato col metro dello storico, lo scarto tra ciò cui ambiva e ciò che ha creato è abissale: l’appuntamento con lo sviluppo è fallito e Cuba ha scalato a ritroso le graduatorie della prosperità; la conversione del mondo alla sua fede è costata guerre, vite e risorse senza produrre risultati tangibili; la pretesa di edificare una comunità unanime ha causato repressioni croniche, espulsioni bibliche, isolamento dal mondo. L’uguaglianza tanto esibita è un miraggio dietro cui troneggiano i tipici tratti gerarchici, familistici, corporativi del retaggio ispanico. Per non dire di tutte le altre antiche tare che il castrismo ha acuito o riprodotto: patrimonialismo, autoritarismo, inefficienza, burocratismo, machismo, doppia morale, corruzione» (p. 367). La sua missione salvifica antiliberale, antioccidentale e anticapitalistica, essendo un progetto onnicomprensivo, e pur non avendo raggiunto i risultati attesi, ha però sacrificato tutto: il benessere economico stesso, il pluralismo, la libertà individuale e la ricerca della felicità personale, le deviazioni dalla linea retta che Fidel aveva in mente – su questo, ad esempio, non possono essere sottaciuti l’incremento di suicidi e di fughe dall’isola, così come, la moralizzazione totale non poteva risparmiare le “deviazioni sociali”: prostitute e omosessuali vennero rastrellati.

Lo stato castrista, insomma, fu l’antitesi di uno stato di diritto: uno stato etico impregnato di cattolicità ispanica fu quello a cui più si avvicinò. In questo senso, la chiave di lettura di Zanatta, che vede Castro come un autentico erede della tradizione gesuita, piuttosto che un classico marxista, farà sicuramente discutere (date anche le similitudini con chi siede oggi al soglio pontificio, così come le analogie con Peron e Chavez: su questo, però, sarà utile un’attenta lettura di un altro più recente volume dello stesso Autore, ovvero Il populismo gesuita, Laterza 2020). Secondo Zanatta, comunque, l’accostamento tra le missioni gesuite in Paraguay tra il Seicento e il Settecento, volte a creare una compatta identificazione tra autorità politica e autorità religiosa, data soprattutto la formazione di Fidel, non è una mera ubbia mentale: è la realtà. Una realtà che, però, fu ben diversa dal paradiso promesso: «Come già qualcuno osservò sulle missioni dei gesuiti, così potremmo dire noi di Fidel e del suo regno: «questo vantato regime può essere buono per angeli, ma non risponde alla destinazione che gli uomini hanno sulla terra». Pur di non rassegnarsi a tale evidenza, spinto dal fanatismo della fede, Fidel giustificò in nome della perfezione i più brutali mezzi, scatenò in nome di pace e amore odio e guerra, sacrificò all’astratta salvezza delle anime la libertà dell’individuo» (p. 372). Dopo aver letto il volume dello storico dell’America Latina, forse si potrebbe riprendere in mano L’oppio degli intellettuali di Raymond Aron e soffermarsi sulla conclusione della seconda parte del libro, Idolatria della storia: «La politica non ha ancora scoperto il segreto per evitare la violenza. Ma la violenza diventa ancora più inumana se si considera al servizio di una verità contemporaneamente storica e assoluta».

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