Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

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È noto che Giovanni Boccaccio avesse una passione viscerale nei confronti di Dante, tanto da aver svolto personalmente un grande lavoro filologico di ricostruzione e di diffusione del poema (anche se non scientificamente impeccabile). Lavorò tanto anche sulla ricostruzione della biografia del poeta e sulla genesi del suo capolavoro. Molto importante è, ancora oggi, la grande mole di testimonianze e documenti che il certaldese riuscì a recuperare, sebbene non tutte le notizie da lui reperite possono essere considerate attendibili. Tra i documenti più discussi c’è la cosiddetta “epistola di frate Ilaro”. Molti sono i dubbi sulla sua autenticità, dovuti anche al fatto che non è stato possibile comprovare l’effettiva esistenza dell’autore.

In questa lettera un presunto frate Ilaro narra che una notte, al convento di Santa Croce del Corvo in Lunigiana, bussò alla porta un signore sconosciuto, che alla domanda su cosa stesse cercando, rispose concisamente “pace”. Il frate, che aveva aperto la porta al forestiero, cominciò a tempestarlo di domande, curioso di scoprirne l’identità. Alla fine Ilaro raggiunse il suo scopo: lo sconosciuto altri non era che Dante Alighieri. Il poeta, contando di recarsi ad partes ultramontanas, voleva fermarsi al monastero del Corvo per potervi passare la notte.

Frate Ilaro, trovandosi di fronte a un così alto personaggio, senza indugio cominciò a lodarne il lavoro e a incalzarlo di domande, come il più accanito degli ammiratori. Che Dante fosse già così famoso non deve stupire: la sua opera era molto conosciuta negli ambienti culturali di tutta Italia. In più la Lunigiana, dove si trovava il monastero, era sotto il controllo dei Malaspina, famiglia con cui Dante ebbe sempre ottimi rapporti.

Tra le domande che frate Ilaro pone al suo idolo, una riguarda un poema che stava scrivendo, ma di cui già erao stati diffusi i primi canti: stiamo ovviamente parlando della Commedia; dell’Inferno, per la precisione. La domanda che assillava la mente del frate era la seguente: come mai scrivere un’opera del genere in volgare? I temi trattati al suo interno, poiché teologici, erano molto alti. Non sarebbe stato meglio, quindi il latino?

La risposta di Dante, riportata da Ilaro, fu a dir poco spiazzante, e fa comprendere pienamente il perché la veridicità di questa lettera sia uno dei temi più spinosi della filologia dantesca. Secondo l’epistola, infatti, Dante avrebbe affermato di aver effettivamente cominciato, in un primo momento, a scrivere il suo poema in latino, ma di aver poi accantonato il progetto, a vantaggio della lingua volgare. A riprova di ciò, sono riportati anche i primi due versi e mezzo (esametri):

Ultima regna canam fluvido contermina mundo,
spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt,
pro meritis cuicunque suis

Se l’epistola fosse vera, quindi, quella riportata sarebbe l’unica testimonianza scritta dell’incipit latino della Commedia.

Ora, addentrarsi nella questione filologica del testo risulterebbe complesso e, probabilmente, anche poco proficuo. La parte interessante del racconto, e che rimane tale a prescindere dalla sua veridicità, è proprio la domanda che frate Ilaro pone a Dante: perché non in latino?

Chiunque sia l’effettivo autore della lettera, evidentemente aveva molto a cuore il quesito. Il punto toccato dal presunto frate Ilaro era, nel primo ventennio del XIV secolo (e lo fu anche dopo), uno di quelli su cui più infuriava il dibattito sulla Commedia. L’opera, sin dai primi canti, aveva avuto una diffusione mai vista. Se una qualsiasi opera, prima dell’invenzione della stampa, era considerata famosa se presente in un numero di trenta, quaranta manoscritti, ad oggi è possibile contare più di settecento manoscritti contenenti la Commedia. In poche parole, un bestseller ante litteram.

Se l’opera ebbe molto successo in ambito popolare, i cosiddetti esponenti della cultura alta erano tutti rimasti interdetti dalla scelta, appunto, della lingua. In volgare era lecito scrivere poesie d’amore, poemi di carattere cavalleresco… Insomma, qualsiasi cosa che potesse avere caratteristiche ludiche e di intrattenimento. La Commedia, invece, affrontava ben altri argomenti, ben altre discipline. Agli studiosi del tempo, sembrava un comportamento decisamente irresponsabile, dare certe dottrine “in pasto” al popolo.

Ora, è difficile per noi capire l’enorme importanza del conflitto linguistico che Dante inaugurò con il suo lavoro. Ancora di più, comprendere le implicazioni politiche che stanno dietro a queste scelte. Al di là dell’incipit latino, infatti, la scelta di Dante appare assolutamente in linea con il suo precedente lavoro intellettuale. Si prenda, a titolo di esempio, uno dei lavori più importanti dell’opera dantesca: il Convivio. L’intento dichiarato dall’autore è quello di analizzare alcuni dei suoi componimenti poetici in virtù delle dottrine filosofiche e delle scienze naturali. Anche in questo caso, la lingua usata è il volgare. L’intento del lavoro è spiegato nella prima sezione, ed è sostanzialmente contenuto in questa frase del poeta: «Movemi timore d’infamia, e movemi disiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può» (I, II, 15). Il principio regolatore dell’opera è quindi, in un certo senso, divulgativo; ma chi sono quegli “altri” che non possono più veramente assolvere a questo compito?

Il riferimento di Dante è proprio al mondo della cultura “alta”, monopolio, al tempo, dei chierici. La lingua delle discussioni teologiche, filosofiche, scientifiche, è il latino. Il problema, però, è che la conoscenza della “lingua grammaticale” sta andando perdendosi tra i laici. Con “laici”, ovviamente, non s’intende il popolo, gli individui di bassa estrazione sociale: in quel caso, la conoscenza del latino era da escludere quasi a priori. Ci si riferisce, piuttosto, ai nobili e ai governatori, ovvero alla vera e propria classe dirigente del tempo. Ormai pochi di loro hanno una solida conoscenza del latino.

Se il veicolo linguistico sta andando perdendosi, è necessario però preservare la conoscenza di certe dottrine. Per questo, è fondamentale “allenare” il volgare, al fine di poterlo utilizzare per nuove esigenze espressive e per comunicare a destinatari con nuove e differenti esigenze. Successivamente, infatti, troviamo scritto: «Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente si può vedere come lo latino avrebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. Ché la bontà d’animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la letteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati» (I, IX, 4-5).

L’intento di Dante, con il Convivio e con altre opere, è quello di creare una solida cultura laica, che possa servire ad una robusta formazione dottrinale delle nobiltà governative. Certo, questo non significa rinnegare la lingua latina: in altri trattati scientifici successivi, come il De vulgari eloquentia e la Monarchia, Dante utilizza la lingua “grammaticale”, e, per quanto non dimostrabile, è possibile che davvero la primissima stesura del poema dell’aldilà fosse in esametri virgiliani. Non si dimentichi, poi, le egloghe attribuite a Dante, inviate a Giovanni del Virgilio: unica, grande testimonianza di versi latini danteschi.

Il latino era per Dante una lingua artificiale, cristallizzata, studiata a tavolino come mezzo di comunicazione universale (di ciò era convinto davvero: persino nella Roma virgiliana, secondo lui, il latino non era la lingua del popolo). Se il latino quindi era un magnifico cristallo, la lingua volgare era come un fiore: variabile, mortale e delicato, ma comunque bellissimo. E come tutti i fiori, necessitava di essere coltivato, curato, in modo tale da tenersi vivo. Ecco, dunque, la risposta alla domanda del presunto frate Ilaro: perché un poema del genere in volgare? Perché questa è una lingua valida, meritevole. La Commedia era la prova fattuale di questo: la sua stesura latina si era presto arenata, il cambio di lingua, grazie alla sua duttilità espressiva,  aveva sciolto le ali al poema.

L’orgoglio con cui Dante rivendicava la sua scelta nelle contese coi letterati del tempo (alcuni dei quali lo accusarono addirittura di aver scelto il volgare per incapacità di comporre in esametri), probabilmente gli costò l’incoronazione con l’alloro poetico. Al suo posto, l’ambita cerimonia, da poco tornata in auge, ebbe come protagonista il poeta latino proto-rinascimentale Albertino Mussato. Deluso da questa scelta, Dante rimase però sempre convinto, in cuor suo, di aver scritto con la Commedia un’opera imperitura, contrariamente a Mussato, e che il tempo gli avrebbe dato infine ragione. Così è stato.

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