Antonio Magliulo (1962) è professore ordinario di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università degli Studi di Firenze. Membro della European Society for the History of Economic Thought (ESHET) e della Associazione Italiana per la Storia del pensiero economico (AISPE). Fa parte anche dell’Editorial Board della rivista «History of Economic Thought and Policy». Oltre a numerosi articoli e saggi su riviste nazionali ed internazionali, tra le sue pubblicazioni più recenti: Il pensiero dei padri costituenti: Ezio Vanoni (Il Sole 24 Ore, Milano 2013); Gli economisti e la costruzione dell'Europa (Editrice Apes, Roma 2019); A History of European Economic Thought (Routledge, London 2022).

Roberta De Monticelli, su “il manifesto” del 20 marzo scorso, ha ricordato la proposta avanzata da Mikhail Gorbaciov di costruire una “casa comune europea” per ristabilire un clima di fiducia e collaborazione tra Russia e Occidente scongiurando una drammatica e storica frattura. Si tratta di un episodio poco noto o forse dimenticato che riveste oggi una nuova importanza. In un saggio in corso di pubblicazione ho cercato di ricostruire l’intera vicenda anche nel tentativo di recuperare una lezione utile per i nostri difficili tempi. Qual è la lezione da ritrovare?

Il 18 dicembre 1984 un giovane e sconosciuto membro del Politburo sovietico, Mikhail Gorbaciov, intervenendo davanti al Parlamento britannico, disse: «Qualunque cosa ci divida, viviamo sullo stesso pianeta e l’Europa è la nostra casa comune». Pochi mesi dopo, nel marzo del 1985, quel giovane politico fu eletto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico, destinato a diventare l’ultimo Presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Pochi mesi prima, nel gennaio del 1985, Jacques Delors era stato eletto Presidente della Commissione Europea.

Quelli di Gorbaciov furono anni di speranza, per l’Europa e per il mondo intero. Fu avviato un processo di distensione internazionale, cadde il Muro di Berlino, che segregava interi popoli, e si ricercò un nuovo e più equo ordine europeo e internazionale. Gorbaciov, riprendendo la felice e forse estemporanea espressione utilizzata a Londra, avanzò la proposta di costruire una “casa comune europea” per i popoli stanziati nel grande spazio compreso tra l’Atlantico e gli Urali. La proposta suscitò interesse, speranze, perplessità, timori, alla fine fu lasciata cadere, ma contribuì a chiarire la natura profonda, storica, delle relazioni tra le due Europe. Anche questa vicenda, come tante altre, è demarcata dalla caduta del Muro di Berlino avvenuta nel novembre 1989.

Per quattro anni, dalla primavera del 1985 all’autunno del 1989, in più occasioni, pubbliche e riservate, Gorbaciov continuò a rilanciare la sua proposta di una “casa comune europea”. In realtà, più che di una “Casa comune”, si trattava di un “Condominio a due blocchi separati”: uno, a est, abitato dai paesi socialisti e l’altro, a ovest, popolato dai paesi capitalistici. Gorbaciov voleva salvare il socialismo e aveva capito che, per tentare di salvarlo, occorreva innanzitutto promuovere un processo di distensione internazionale in modo da spostare ingenti risorse finanziarie dalla ipertrofica e improduttiva industria militare alla esanime industria civile interna. L’immaginato Condominio avrebbe dovuto assumere la forma giuridica di una Grande Confederazione, dall’Atlantico agli Urali, governata dal Consiglio d’Europa e cioè da un organismo preposto a svolgere poche ed essenziali funzioni lasciando il massimo dell’autonomia ai singoli Stati nazionali. Il 1° agosto 1989, e quindi poche settimane prima della caduta del Muro, nel corso dei lavori della prima sessione del Soviet Supremo dedicata a questioni di politica estera, il leader sovietico disse: «Il Consiglio d’Europa può diventare una delle strutture portanti della futura casa comune europea, il luogo dove mettere a punto assieme importanti iniziative» (M. Gorbaciov, La casa comune europea, Mondadori, Milano 1990, p. 197).

Si potrebbe legittimamente osservare come la proposta di una Casa comune fosse funzionale (o strumentale) al reale obiettivo di salvare il socialismo. Il punto oggi interessante è che Gorbaciov riteneva possibile una pacifica convivenza in Europa perché tutti i popoli stanziati nel grande spazio compreso tra l’Atlantico e gli Urali erano europei, e lo erano in virtù di una comune radice cristiana: europei perché cristiani. Oggi può apparire sorprendente, ma è così: solo pochi anni fa, Mikhail Gorbaciov, il leader del comunismo mondiale, si sentiva o si dichiarava europeo e riconosceva come anche i popoli dell’Unione Sovietica, compresi gli ucraini, fossero europei in virtù della comune origine cristiana.

Rileggiamo le sorprendenti parole del leader russo contenute nel best-seller Perestrojka apparso nel 1987:

In Occidente c’è chi cerca di “escludere” l’Unione Sovietica dall’Europa. Ogni tanto, automaticamente, identificano l’Europa con l’Europa occidentale. Tutto questo non può cambiare le realtà geografiche e storiche. I legami commerciali, culturali e politici della Russia con altri stati e nazioni europei hanno radici profonde nella storia. Noi siamo europei.

La Russia diventa europea quando, nel 988, si converte al cristianesimo. Ancora Gorbaciov:

La vecchia Russia era unita all’Europa dal cristianesimo, della cui venuta sulla terra dei nostri avi l’anno prossimo si celebrerà il millenario. La storia della Russia è parte integrante della grande storia europea.

Infine, europei sono anche i distinti popoli che appartengono all’Unione Sovietica: «I russi, gli ucraini, i bielorussi, i moldavi, i lituani, i lettoni, gli estoni, i careli e altri popoli hanno dato tutti un grande contributo allo sviluppo della civiltà europea» (M. Gorbaciov, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Mondadori, Milano 1987, p. 255).

Negli anni che precedono la caduta del Muro, Gorbaciov si rivolge ai leader dei maggiori paesi occidentali (Stati Uniti, Francia e Inghilterra) e ignora Delors, Presidente della Commissione Europea, il quale, a sua volta, ignora Gorbaciov. Solo nell’annuale discorso pronunciato nel gennaio 1989 davanti al Parlamento Europeo, Delors, per la prima volta, prende in esame la proposta di Gorbaciov e delinea una proposta alternativa. Per Delors, la Grande Europa dall’Atlantico agli Urali non può essere né una Casa comune né un Condominio a blocchi separati. Dev’essere invece un “Villaggio” con al centro la Casa comune, già in costruzione, abitata dai Dodici paesi che compongono la Comunità Economica Europea, aperto ad accogliere altri vicini.

Il 9 novembre 1989 cade il Muro e tutto cambia, in Europa e nel mondo. Il 31 dicembre, nel messaggio augurale di fine anno, il Presidente francese Mitterrand lancia o rilancia l’immagine di un’Europa a cerchi concentrici, col primo cerchio formato dai Dodici paesi della Comunità Economica Europea, la cui architettura istituzionale avrebbe dovuto essere rafforzata o completata in via prioritaria, e un secondo cerchio aperto agli altri paesi del Vecchio Continente, uniti in una Confederazione per sviluppare una politica di pace, sicurezza e cooperazione economica.

In questo storico frangente emerge drammaticamente il dilemma, che ancora attanaglia l’Europa, tra approfondimento (o rafforzamento) della governance comunitaria e allargamento ad altri paesi. Emerge anche un’alternativa visione tra Mitterrand, più incline a privilegiare un approccio intergovernativo che assegna maggiori poteri al Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo, e Delors che avrebbe invece voluto potenziare le istituzioni comunitarie, a cominciare dalla Commissione Europea. Nell’annuale discorso pronunciato davanti al Parlamento Europeo nel gennaio 1990 Delors chiarisce che nella sua visione dell’Europa, diversa da quella di Mitterrand, la Russia avrebbe potuto accedere al secondo anello della Confederazione solo quando, nel primo anello, fosse nata una vera Unione politica tra i Dodici paesi della Comunità Economica Europea.  Insomma, occorreva prima ultimare la Casa comune già in costruzione e poi aprire il Villaggio a nuovi residenti per sviluppare proficue relazioni di buon vicinato.

La storia termina come sappiamo. L’8 dicembre 1991 i leader di Russia, Bielorussia e Ucraina firmano gli Accordi di Belovezh che sanciscono la fine dell’Unione Sovietica. Il giorno successivo, a Maastricht, inizia la riunione del Consiglio Europeo che si conclude, il 10 dicembre, con l’approvazione del trattato istitutivo dell’Unione Europea. In pochi giorni, muore l’Unione Sovietica e nasce l’Unione Europea.

La riflessione suscitata dalla proposta di Gorbaciov ci lascia almeno due utili insegnamenti.

Il primo, la Grande Europa, dall’Atlantico agli Urali, esiste davvero, non è un’invenzione politica o propagandistica. È piuttosto una comunità di destino unita da comuni interessi e valori. Come disse Giovanni Paolo II: l’Europa respira con “due polmoni” (orientale e occidentale). E come ripeté più volte Gorbaciov: “siamo europei”.

Il secondo insegnamento è che la Grande Europa, la comunità di destino che si estende dall’Atlantico agli Urali, non può essere governata né da un’unica (grande) istituzione paneuropea, sia essa federale o confederale, né da una miriade di (piccoli) Stati nazionali. Attende invece di essere governata da una Confederazione (o Comunità) di Federazioni e di democratici Stati nazionali ovvero da una molteplicità di differenziate e coordinate istituzioni, con al centro un nucleo di paesi che, dopo aver condiviso la moneta unica, dia vita ad un’autentica Unione politica federale: un’Unione che, ispirandosi al principio di sussidiarietà, sappia rispettare e armonizzare le diverse identità nazionali. In questo quadro emerge la grande incognita della Russia: che ne sarà di quel paese quando uscirà di scena, e prima o poi avverrà, Vladimir Putin?

La speranza è che, in quel momento, e se possibile anche prima, riaffiori nella memoria collettiva la riflessione degli anni che sconvolsero il mondo e si riapra la possibilità di un dialogo e di una collaborazione anche con la Russia.

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