Ivo Stefano Germano è docente di Media digitali e Strategie della comunicazione politica e istituzionale presso l'Università del Molise. È autore di numerosi saggi e articoli scientifici, nonché monografie, tra cui: #Quartierinogauchecaviar. Sneackers rosse eppur bisogna andar, Pendragon, Bologna 2018; Aside Story. La fatica delle vacanze (con S. Borgatti), goWare, Firenze 2017; New Gold Dream. E altre storie degli anni Ottanta (con D. Masotti), Pendragon, Bologna 2013.

Lo sai che più si invecchia
più affiorano ricordi lontanissimi

F. Battiato, Mesopotamia

Ora che si va diradando il clamore. Proprio ora che l’afflato scende di un tono o due forse, forse è possibile, almeno, con rispetto e prudenza, parlare di Franco Battiato. Prima di tutto, oltre la memoria che ognuno serba scrupolosamente sull’immensità della musica di Battiato bisogna ribadire, una volta per tutte, che scegliere e seguire la musica di Battiato abbia rappresentato una precisa opzione estetica. Un doppio ringraziamento per aver trascorso pomeriggi e sere a cantare canzoni, dai testi raffinati e profondi, con sotto agli occhi le tavole di Corto Maltese. Soprattutto, per le parole diverse da tutte le precedenti, mai più ritrovate. Straordinarie. Uniche. A tredici anni non capisci molto del maestro Giusto Pio, di musica classica, di un cantautore, già da molti dischi, però, capisci quando una finestra si spalanca sull’anima, di Alberto Radius, Angelo Carrara e così via elencando. Mi piaceva e, in un certo senso, mi placava ascoltare canzoni difficili, al tempo spesso, mi beavo, ingenuamente, quando vedevo i suoi dischi scalare posizioni in classifica. Meglio ancora ritrovarmelo a Discoring, Popcorn, SupeclassificaShow.

Nei mie tredici anni, scuole medie, d’un tratto capisci che giunge la musica di un violino fra alberghi a Tunisi, pieni, uomini di una certa età che offrono sigarette turche… il resto lo sapete. Siede sui tappeti, sa estraniarsi, vive in diagonale. Opposto, mai complementare al turgore esistenzialista di Fabrizio De André, a Gianna Nannini che “si sente l’America”, a Francesco Guccini, Dalla e De Gregori, a tanto altro, a tutto il resto. L’era del cinghiale bianco contrassegnò la profonda lungimiranza di una scelta estetica: un modo più di un mondo. Prima di ogni libro, ricerca, traiettoria euristica, cosmogonia, c’era la consapevolezza dei tredici anni, cioè non avere nulla a che spartire con uno di 18, men che meno con uno di 25, perché questi, più grandi di me di qualche anno, erano ancora figli del loro tempo, ma secondo me fuori dal tempo. Non ascoltavano Battiato, ma ancora i cantautori e nenie politico-ideologiche. Erano altro da me, non erano a colori. Non riconoscevano le cose che riconoscevo io, grazie ad un ellepì di Franco Battiato.

Io sono stato un tredicenne del mio tempo che, in un cinema teatro, da solo e in silenzio era capitato dentro il concerto di Franco Battiato seduto sul tappeto, con occhiali Persol, o Ray Ban. Sempre con gli occhiali da sole, anche quando pioveva, come la ragazzeria, fra i tredici e i sedici anni, a quel tempo. Tra Oriente e Occidente, un po’ qua e un po’ là. Alieno ad ogni rivendicazione identitaria, a totem e taboo, per scorrere, divenire fra le stagioni della vita. È chiaro che ognuno abbia il suo Battiato. Ad abundantiam. Proprio ora che il clamore tende a diminuire è ancor più il caso di esclamare: “a ognuno un suo Battiato”. Con Milva, Alice, Giuni Russo, suprema, Ombretta Colli. Gilgamesh e altre opere liriche, i dipinti firmati con lo pseudonimo Süphan Barzani. A comporre una vera e propria estetica che si ritrova appieno in un capolavoro di libro: Tecnica mista sul tappeto. Conversazione autobiografica con Franco Pulcini. Non per smania filologica, figuriamoci, ma si tratta di un libro entusiasmante, non a caso, tipico parallasse cronologico del maestro Sufi, pubblicato nel 1992, cioè l’anno della vertigine assoluta del concerto di Baghdad, in pieno embargo, in conseguenza della prima guerra del golfo. Successivamente trasmesso su Videomusic la notte di Natale.

Due anni dopo, di nuovo a Bologna, la “Messa Arcaica”, presso la Basilica di Santa Maria dei Servi con l’accompagnamento dei Virtuosi Italiani, di bellezza struggente, in ogni nota. Anticonformista, d’accordo. Soprattutto pop. Da trattare con grande rispetto per il pop, cioè senza intellettualismi, sovrastrutture, filtri di ogni sorta. Al maestro Franco Battiato, uomo colto che ha edificato bellezza. Dentro e fuori mondi lontanissimi. Vivendo in diagonale.

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