Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.
Recensione a: S. Nadler, L. Shapiro, Quando persone intelligenti hanno idee stupide. Come la filosofia ci salva da noi stessi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022, pp. 226, € 19,00.
È finito il tempo dell’orgoglio delle idee assurde ed eccentriche. Ciò da cui partono i due filosofi americani Steven Nadler e Lawrence Shapiro è la sensazione che sia accaduto un evento invisibile, dalla portata straordinaria: l’irrazionale ha tracimato gli argini della sua inoffensività. Dilaga il cattivo pensiero, si diffonde sempre di più la riluttanza a basarsi sulle prove, piuttosto che su informazioni disordinate prese rapidamente qua e là, nel confuso mondo dell’overdose informativa. Trionfano gli spericolati della confusione tra vero e falso, malpensanti irremovibili, menti chiuse e tribali che non sanno quello che pensano.
Non lo sanno, ma non possono essere perdonati; dobbiamo farla finita, sembrano insistere i due filosofi statunitensi, con l’innocenza morale delle opinioni. Il delirante nesso 5G-Covid, quello tra vaccini ed autismo, l’inesistenza del cambiamento climatico, gli alieni e chissà quale loro trama occulta: il falso, benché rivelato come tale, si propaga come un morbo e diventa un dramma politico. Eccoli i nostri tiranni: sono coloro che di fronte all’evidenza contraria non esitano a difendere le proprie posizioni ostinatamente, come affetti da «testardaggine epistemica». Non si sentono imputabili ed anzi si sentono liberi di prendere le più scriteriate risoluzioni ideologiche. Chi è affetto da questa malattia della ragione procede pubblicamente a testa alta ed è riluttante al ravvedimento. Ma perché puntare il dito contro libere persuasioni?
Nadler e Shapiro replicherebbero che le nostre democrazie non possono sopravvivere ad una valanga di bufale e stupidaggini: «Una società che non attribuisce un valore più alto alle credenze giustificate rispetto a quelle infondate è un luogo pericoloso in cui vivere». Non è più il tempo di fare spallucce e spegnere i timori con la semplice e consolidata tolleranza del diritto di credere a ciò che si vuole, perché le nostre società non possono più prosperare senza «cittadini epistemicamente responsabili, quelli cioè che hanno a cuore la verità». Non possiamo più limitarci a segnalare l’errore, dobbiamo ammonire l’immoralità di questo tipo di fideismo renitente al metodo: «Ciò significa che riconosciamo delle colpe in coloro che scelgono di credere a qualcosa sulla base di prove insufficienti quando ciò comporta un danno o ne aumenta la probabilità» (p. 38). Non sono sempre persone poco istruite, non sono impossibilitati ad informarsi, sono testardi cognitivi che preferiscono restare aggrappati al loro pensiero magico, piuttosto che seguire l’esempio della filosofia, per una vita illuminata dall’esame critico. Non hanno a cuore la verità, preferiscono la fedeltà alle proprie superstizioni.
Ma la cura esiste, la saggezza pratica è ancora possibile. Esiste un’etica dell’acquisizione delle opinioni, una responsabilità delle convinzioni, che ci può proteggere da un molesto agire alla cieca. Da Socrate al matematico William Clifford, da Cartesio a Popper, diversi sono i filosofi che hanno indicato la strada giusta per stare alla larga dagli affidamenti precipitosi e dalle evidenze inadeguate. Sono loro ad averci mostrato come costruire argomentazioni formalmente valide e ragionamenti che evitino le petizioni di principio, le induzioni enumerative con campioni limitati e le abduzioni frettolose (Sherlock Holmes riesce a capire che il dottor Watson è stato poco prima in Afghanistan, ma non erano escludibili altri luoghi assolati). A richiamare poi l’attenzione di Nadler e Shapiro sul pervasivo bias di conferma, per colpa del quale tendiamo a dare maggior peso alle osservazioni che confermano la nostra tesi (trascurando le smentite, o come dicono loro, i defeater), è Francis Bacon, che all’inizio del Seicento pensava all’astrologia ed alle divinazioni e che ancora oggi potrebbe smascherare i nostri negligenti culturali. Grazie alla ricchezza della storia della filosofia messa in campo da Nadler e Shapiro, ed agli esempi di accurata e corretta indagine della verità, possiamo ancora salvarci, possiamo resistere, possiamo evitare che speranze, vantaggi personali e mitologie vincano ed umilino la ragionevolezza e l’umiltà epistemica che servono ad ogni buon cittadino.
L’ignoranza, le esigenze emotive ed i radicamenti non sono più accettabili come scuse; le polveri sottili del cattivo pensiero, sfuggite al nostro governo, possono contaminare i nostri concittadini. La sapienza è saggezza pratica, il pensare bene è vivere bene, è attivismo morale e civile, è la vita esaminata di socratica memoria, modello auspicabile per tutti. Negli anni Ottanta lo storico Cipolla scrisse a proposito delle «leggi della stupidità» e gli scrittori Fruttero e Lucentini si lamentarono della «prevalenza del cretino». Nello stesso decennio il filosofo americano Harry Frankfurt dedicava un saggio a qualcosa che, con la sua indifferenza alla realtà, minaccia il vero molto più di quanto facciano le menzogne: le stronzate (bullshit). Chiunque le diffonda (i bullshitter) non ha interesse alla verità ma vuole solo impressionare gli ascoltatori.
Umberto Eco, nel 2015, si scagliò contro le «legioni di imbecilli» che infestavano il web, ma già nel 1961 ritrasse il famoso presentatore televisivo Mike Bongiorno come un uomo mediocre che non sentiva alcuna curiosità culturale, non si vergognava di essere ignorante ed anzi consentiva agli spettatori di glorificare la propria pigrizia mentale. In realtà molti secoli prima di Internet, della televisione e della società di massa Eraclito separava gli svegli dai dormienti. Ma oggi questi dormienti non stanno mai zitti ed anzi producono una babele digitale quotidiana, ossia quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiamerebbe «imbecillità iperdocumentata», poco dubbiosa e molto assertiva ed impudica. C’è qualche intellettuale che parla di populismo epistemico e c’è chi rivendica un diritto alla verità, chi perfino propone un superamento della democrazia per una forma più libera dall’ignoranza, l’epistocrazia. In conclusione, possiamo chiederci se la terapia proposta da questo libro sia la più felice e feconda di risultati.
Com’è presumibile che sappiano anche gli autori, una persona posta dietro il mirino di critiche così severe (uno degli articoli di Nadler precedenti al libro si chiamava American stupidity), non si trova nelle condizioni migliori per accettare un pacifico dialogo al fine di correggere il proprio modo di conoscere. Ma oltre a questo punto di carattere preliminare, quante volte ci hanno ripetuto, dal David Hume citato velocemente nel libro ai più attuali Herbert Simon e Daniel Kahneman, che molto raramente prendiamo decisioni in modo deduttivo e razionale? Crediamo davvero che sia saggio proporre la saggezza razionalista a masse di persone trascinate da ondate di automatismi, abitudini, vantaggi, passioni, desideri, interessi ed appartenenze molto materiali e per niente cerebrali? Perché i due autori del testo stentano a chiedersi se questa pubblica, diciamo così, logos-fobia, non abbia solo radici cognitive (curabili dunque con medicine filosofiche), ma anche sociali, economiche, emotive, psicologiche?
Non è la prima volta che l’intellettualismo si propone come ricetta etica (Socrate è uno dei punti di riferimento di Nadler) e come soluzione di problemi che non sono solo intellettuali, ma proprio per questo la storia recente ha già mostrato che per uscire dalla caverna del terrapiattismo o delle fantasie sugli Ufo il modus ponens è una strategia che non funziona. Quanto al rumore anti-epistemico provocato dai social negli ultimi anni (post-verità è un termine nominato dal dizionario Oxford come parola dell’anno nel 2016), può darsi che l’élite intellettuale ne sia stata traumatizzata ed abbia voluto correre ai ripari, anche con un sacrosanto ritorno all’alfabeto della logica, alle basi del ragionamento. Testi come quello qui recensito, durante un’ancora lunga alfabetizzazione ai nuovi media, contribuiscono a creare una cultura che prenda davvero a cuore il problema, memori però di quel vecchio aforisma di Elias Canetti, che diceva che «l’uomo ha raccolto tutta la saggezza dei suoi predecessori, eppure guardate quanto è stupido!».