Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Negli ultimi mesi è stato pubblicato un libro importante. Lo è per l’ambizione che già si evince dal titolo ma soprattutto perché riassume in modo accessibile anche ai non specialisti, decenni di ricerche e riflessioni dei due autori. Sto parlando di Che cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, pubblicato da Cortina.

Il libro è scritto da Vittorio Gallese, neuroscienziato noto per la sua scoperta dei neuroni specchio, e Ugo Morelli, psicologo, saggista, studioso di scienze cognitive e docente universitario. Il testo si muove lungo un’intersezione affascinante tra neuroscienze, filosofia, psicologia e antropologia culturale, cercando di esplorare le radici dell’esperienza umana. I due autori combinano le loro rispettive competenze per offrire una visione complessa e articolata dell’umano, che impasta diverse prospettive disciplinari secondo un approccio non riduttivista della persona.

Lo sfondo su cui si basa il testo, che lungo le pagine viene raccontato con dovizia di particolari, è il mutato paradigma neuroscientifico negli studi sull’esperienza cosciente. Dagli anni ’50 agli anni ’80 dello scorso secolo, infatti, la mente umana è stata studiata a partire da un’ipotesi di ricerca che la voleva simile a un computer: il cervello sarebbe l’hardware che fa emergere il software, la mente, che funzionerebbe elaborando le informazioni che giungono dal mondo esterno sotto forma di rappresentazioni dell’ambiente che ci circonda. Si ricevono informazioni in entrata (percezione), queste vengono elaborate, e l’individuo reagisce con una certa risposta (azione), in base al principio che “se è motorio non può essere cognitivo, e se è cognitivo non può essere motorio”.

Tale prospettiva, definita anche “internalista”, tiene assai poco conto del corpo e delle emozioni, considerando la mente come un circuito chiuso che risponde agli input attraverso output. Negli ultimi tre decenni, però, la ricerca ci ha mostrato un panorama più complesso. Anche grazie al lavoro di Vittorio Gallese (e di altri neuroscienziati italiani), possediamo oggi una mole di dati consistente in virtù dei quali possiamo dire che la nostra esperienza cosciente del mondo (il fatto, in altri termini, di muoverci nel mondo essendo coscienti del mondo, a differenza degli oggetti che adoperiamo) è incarnata. Ciò vuol dire che il cervello è di certo fondamentale affinché vi siano dei soggetti, ma che tale elemento va compreso in una dinamica più ampia che ha al centro il corpo nella sua relazione dinamica con l’ambiente e con gli altri soggetti. In tale orizzonte, allora, il movimento non serve solo a portare in giro una macchina che pensa. La nostra intelligenza è incarnata. Ciò vuol dire che azione e percezione sono facce della stessa medaglia. Abbiamo evidenze ampie e non falsificate che tutto nasce dal movimento: «Sappiamo con sempre maggiore evidenza che le cosiddette parti motorie del cervello sono parte integrante degli apparati che ci permettono di riconoscere quello che c’è attorno a noi, dagli oggetti animati, al modo in cui mappiamo lo spazio, al senso che diamo alle azioni e alle esperienze altrui» (p. 30).

Dalla centralità del corpo in movimento a quella della relazione il passo è brevissimo. È impossibile, difatti, concepire un io senza un noi. Prima che un’affermazione di carattere etico, si tratta di una condizione evidenziata in modo massiccio dalla ricerca. Questa ci dice che il movimento è strettamente connesso alla relazione che continuamente stabiliamo con gli altri e con le cose del mondo. Lo spazio è sempre noi-centrico. La scoperta degli ormai celebri neuroni specchio mostra proprio come lo spazio possa avere anche una dimensione, per così dire, sociale:

Quella scoperta fornisce il correlato neurofisiologico che permette di descrivere la relazione a livello microscopico dei neuroni, neuroni che ci connettono all’altro a livello pre-intenzionale e pre-linguistico […] Lo stesso neurone che presiede al controllo del mio movimento e delle mie azioni mi permette di mappare in un modo molto particolare l’agire altrui.

Riusciamo così, attraverso la cosiddetta simulazione incarnata, a cogliere le emozioni dell’altro, non attraverso una comunicazione di carattere cognitivo, ma sentendolo dall’interno come nostro (empatia). Ecco perché se vediamo qualcuno che si dà una martellata sul piede, la sua smorfia diventa la nostra smorfia, e anche noi siamo attraversati da un brivido, sebbene in forma attenuata rispetto al dolore che sta provando la persona effettivamente colpita dall’attrezzo.

La reciproca co-appartenenza, chiariscono gli autori, non implica neppure per un istante la rinuncia alla specificità dei soggetti, in una sorta di fusione dei diversi “io”: i due che si connettono nella relazione non smettono di essere due. Questi ultimi, però, emergono da una noità che li precede e li segue lungo tutto l’arco della loro parabola esistenziale; questo vale per i singoli individui delle specie come per le specie stesse:

C’è una noità a livello biochimico, una comunanza da cui poi il tipo di organizzazione assume forme diverse nei differenti rami dell’albero evolutivo, concretizzandosi in maniera differente nelle diverse specie animali. La graduale uscita dalla fase simbiotica avviene grazie al movimento. È attraverso il movimento, che va di pari passo con lo sviluppo dei centri nervosi che lo determinano e controllano, che si formano le varie mappe sensorimotorie nel nostro cervello (p. 58).

Da questo sfondo si formerà poi la coppia soggetto-oggetto dell’esperienza comune. Tale spazio noicentrico, letto in chiave psicologica, non è altro che il senso comune, spiegano gli autori (p. 59). Nella simbiosi e nell’autismo, per motivi opposti, l’individuo non è più produttore di senso in quanto espulso dallo spazio noicentrico fatto di intenzioni, credenze, e idee condivise. Più che identità, allora, dovremmo forse parlare, con gli autori, di diventità, dal momento che il cammino si soggettivazione non è mai terminato una volta per tutte.

Il corpo e il soggetto che è il proprio corpo sono frutto anche dei discorsi che precedono ogni individualità, che in un certo qual modo, la mettono al mondo: «noi siamo in gran parte linguaggio. Il problema è capire che il linguaggio non è un punto di partenza, ma semmai un’emergenza evolutiva. Il linguaggio lo si ritrova a ogni livello, anche se solo ci si chiede come siamo arrivati al linguaggio. “Corpo”, “relazione”, “mente”… sono tutte parole; lo stesso vale per “sé” o “altro da sé”, per “soggetto” e “io”. Anche quando parliamo di naturalizzazione, quindi, non possiamo certo mettere tra parentesi il linguaggio» (p. 23). Biologia e cultura, dunque, si intrecciano senza che l’una possa essere ridotta all’altra e viceversa.

Il primato della relazione e del movimento implica il primato dell’azione sulla contemplazione. Prima di essere coscienze che sorvolano il mondo come uno spettacolo da decifrare, siamo soggetti che si muovono in un ambiente con scopri pratici da realizzare: siamo corpo, azione, emozioni. Tutto ciò, fanno notare gli autori, ha delle grandi ripercussioni in ambito pedagogico, dove non è più possibile non tener conto del paradigma incarnato per continuare con metodi didattici logocentrici, pensati per intelligenze senza corpo.

Al ruolo delle emozioni, Gallese e Morelli dedicano un capitolo molto interessante, in cui, a partire dalle teorie di Darwin e dalla storia dei loro effetti, ricostruiscono in modo rapido ma efficace il dibattito sul tema, facendo emergere la complessità dell’argomento. Il fulcro del discorso, comunque, cade sull’errore di aver considerato le emozioni solo come fattore perturbatore della razionalità: «Emerge, invece, sempre più evidentemente che noi non prendiamo decisioni sulla base delle esperienze che abbiamo vissuto, ma sulla base dei ricordi che abbiamo di quelle esperienze. Quando si cerca di comprendere cosa induce a una scelta in contesti dominati dall’incertezza e con limitate risorse individuali, scopriamo che la mente umana esegue due tipologie di pensiero: razionale e intuitivo» che seguono percorsi con caratteristiche diverse e sono portatoti di vantaggi o svantaggi a seconda del contesto. La nostra razionalità è procedurale e intarsiata sistematicamente di emozioni, quindi, come tale è incarnata.

L’essere incarnato, però, non impedisce al soggetto che siamo di trascendersi, di andare oltre sé stesso superando i vincoli spazio-temporali attraverso costrutti simbolici e in generale attraverso l’esperienza estetica, cui il testo dedica pagine molto dense ed anche eticamente impegnate: «L’attraversamento del dolore del presente non ce lo può togliere nessuno, si tratta di un esame di realtà necessario. Possiamo però provare a iscrivere i nostri cuori nella libertà dell’attività creatrice e vederci scivolare insieme ad altri nel paese dei vivi. La relazione estetica con il mondo si può intendere come il contrario dell’indifferenza, fino a vedere e sentire il vuoto e il pieno del mondo, per poterne cogliere una germinalità possibile e la genesi dell’innovazione» (p. 220).

La categoria della relazione, come già sottolineato, attraversa tutto il libro: essere umani significa essere in relazione. Tale categoria, allora, sostituisce quella classica della sostanza, soprattutto se la pensiamo in connessione al concetto di diventità richiamato in precedenza. Nel testo di Gallese e Morelli i filosofi maggiormente richiamati sono quelli della scuola fenomenologica (a partire dal maestro Edmund Husserl e poi Maurice Merleau-Ponty) e quelli del pragmatismo americano (Charles Sanders Peirce, William James e John Dewey). A questi riferimenti filosofici importanti, manca a nostro avviso  ̶  lo diciamo non come critica agli autori ma come tentativo di arricchire la discussione  ̶  la prospettiva della filosofia personalista. Per la filosofia personalista, infatti, la relazione è proprio la categoria fondante una teoria articolata della persona. Quest’ultima è tale proprio in quanto caratterizzata da una irriducibile relazionalità fondamentale. Scrive infatti così il filosofo francese Emmanuel Mounier, uno dei principali esponenti del personalismo:

Mentre la prima preoccupazione dell’individualismo è quella di centrare l’individuo su sé stesso, la prima preoccupazione del personalismo è di decentrarlo, al fine di collocarlo nelle aperte prospettive della persona. […] Le altre persone non limitano la persona, ma anzi le permettono di essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu, e quindi il noi viene prima dell’io, o per lo meno l’accompagna. […] Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite, che essere significa amare.

In tale discorso, per il personalismo il corpo svolge un ruolo decisivo, oltre i riduzionismi sia del materialismo che dello spiritualismo, che qui non possiamo approfondire ma che sarebbe interessante far giocare con le pagine di Gallese e Morelli.

Tale essenziale essere-in-relazione, però, chiariscono i filosofi del personalismo, non deve far pensare a una rete di rapporti che assorbe in sé i propri nodi, come anticipato più su. Al contrario, quanto più la relazione è vissuta in modo autentico tanto più la soggettività emerge nella sua specificità, entro una dinamica di proporzionalità diretta tra sviluppo della relazionalità e progresso nella personalizzazione. Il personalismo è stato il tentativo, anche politico, di pensare la persona oltre i limiti dell’individualismo liberal-borghese e del collettivismo di stampo socialista, per fondare una dimensione comunitaria incentrata sulla irriducibilità della dignità dei soggetti, in grado cioè di legare l’io al noi senza annegarlo nella massa sociale amorfa o nell’impersonale del naturalismo. Tale afflato etico emerge a nostro avviso anche nel lavoro di Gallese e Morelli, che non è riducibile a semplice raccolta ragionata degli studi neuroscientifici e psicologici degli ultimi decenni (cosa di per sé già benemerita), ma si spinge, sulla base delle attuali conoscenze, a delineare prospettive di impegno concreto affidate alla responsabilità degli esseri umani contemporanei, alle prese con un’epoca di enormi cambiamenti e di forte instabilità globale. Proprio in epoche come la nostra, la domanda su chi sia l’essere umano, viene nuovamente posta con forza: da una parte, infatti, gli enormi progressi tecnologici, i grandi potentati economici transnazionali e il crescente allargamento della nostra conoscenza della natura, sembrano sempre di più relegarci, in quanto individui, ai margini dei processi cosmici, naturali, socio-politici; dall’altra, di contro, sentiamo montare sempre di più il richiamo alla responsabilità personale per fermare le possibili spirali di pericolo, anche grave, in cui l’umanità sembra potersi impigliare o essere già impigliata. Come tenere insieme questi due aspetti, l’impersonale della potenza che ci precede e il personale della libertà che ci appella? Siamo dei “volenti non volutisi”, ha detto Pietro Piovani: mi sembra una sintesi mirabile dell’enigma dell’uomo, per sintesi e profondità, in quanto tiene insieme l’aspetto passivo e quello attivo, che coabitano al livello biologico e a livello culturale, a formare quell’intrico di condizionamenti e libertà dinanzi al quale il libro di Gallese e Morelli ha il merito di collocarci, sforzandosi di farci pensare una libertà che libera nella misura in cui accetta i legami profondi col mondo, con sé e con gli altri.

Loading