Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Viviamo in una di quelle finestre storiche in cui la grande cronaca s’impone al nostro quotidiano più spesso che in altri periodi. In principio è stata la pandemia, che ancora lascia strascichi nel dibattito giornaliero; poi l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che purtroppo va avanti da più di trenta mesi; infine, la guerra in Medio Oriente, che dal 7 ottobre 2023 abita ininterrottamente le rassegne stampa mondiali e ha avuto ultimamente preoccupanti evoluzioni, come il nuovo fronte del conflitto tra Israele e Libano, con il coinvolgimento diretto dell’Iran. Su tutti gli altri fatti, economici, politici e culturali, naturalmente si riflette la luce (o forse il buio, dovremmo dire) dei tragici conflitti in corso.

In tale scenario, c’è chi prosegue la propria vita indifferente a tutto, lasciando sullo sfondo le tempeste, che al massimo sono interferenze nel corso della routine. Ma c’è anche dell’altro, qualcosa come una smania, un’eccitazione, una sorta di FOMO. Quest’acronimo del gergo cool sta per Fear of Missing Out: ci si riferisce alla paura e all’ansia sociale di essere esclusi da esperienze ed eventi. Chi ne è affetto, ad esempio, pare non riesca a restare a casa neanche una sera (mi sa che la modesta entità del mio stipendio mi difende dal contagio). Ecco, quando la cronaca prende un’accelerata come negli ultimi anni, in molti (anche chi scrive) sembrano presi da una FOMO declinata però sull’attualità storica.

Indipendentemente dalle prospettive di ciascuno, a volte anche incompatibilmente diverse, ciò che sta succedendo nel mondo, con l’intensificarsi dei conflitti, dei missili e della massa dei morti, degli odi, spinge tutti a chiedersi “cosa dobbiamo fare?”, “come se ne esce?”, “perché succede?”, “perché non riusciamo a venirne a capo?”. Così, una buona parte di noi si tuffa nel flusso delle news, guarda le edizioni speciali, ascolta gli esperti. Alcuni si mettono a scriverne e a parlarne su un giornale, un blog, ci scrivono un libro. Gli influencer culturali, ovviamente, producono video appositi: Covid, Ucraina, Israele, Russia, sionismo, antisionismo, migranti, crisi climatica ecc., ce n’è per tutti. Appena succede qualcosa di rilevante, tempo una settimana, e arriva “l’approfondimento” che il presente reclama. Per ogni crisi c’è un piccolo gruppo di esperti cooptato in tv per commentare ogni fase dell’emergenza.

Certo, l’impegno quotidiano è indifferibile, bisogna pur mangiare, e tuttavia psicologicamente passa in secondo piano: un argomento più urgente ora s’impone, richiama le nostre energie. Le riviste accademiche si organizzano per numeri monografici. I docenti portano i quotidiani a scuola, si legge l’editoriale coi ragazzi, si fa il debate, “non possiamo mica ignorare la storia?” si ripete nelle sale professori con espressioni pregne di gravitas.

Ho sentito dire da fonte affidabile, che un direttore di dipartimento di un’università di questo Paese, l’anno scorso avrebbe voluto chiedere al consiglio di sospendere tutti i corsi  ̶  non so se la legge lo consente ma conta il pensiero  ̶  per dedicare un intero semestre a dibattiti sulla “pace” perché “dobbiamo dare un segnale forte, la storia non può restare fuori dalle aule universitarie”. Appunto, di nuovo.

Ebbene, tale attivismo dello spirito contiene senza dubbio molte cose buone, non possiamo negarlo. Tolta la fisiologica percentuale di narcisismo, ideologismo e banale utopismo, molti sono animati dai classici buoni propositi. Ciononostante, a mio avviso, tutto questo porta con sé un grave pericolo. Le crisi – politiche, morali, culturali, antropologiche – non si innescano tanto per mancanza di attualità, ma anche per mancanza di distanza dall’attualità, per micro disattenzioni al proprio dovere quotidiano (“dovere” è termine troppo duro, moralistico? Vogliamo fare “vocazione”?), per lacune nella meditazione autentica delle questioni fondamentali, disattenzione alla tessitura delle relazioni comunitarie, scarso impegno nella formazione di persone dalla testa ben fatta, per la qual cosa servono Newton, Darwin, Platone, Weierstrass, Kant, Tacito, Caravaggio, Dante, Boltzmann, insomma tutta roba non proprio di stretta attualità.

Queste trascuratezze si sommano e diventano come tessuto adiposo che inquina l’organismo, ne appesantisce i gangli, lo affanna, lo rende incapace di arrampicarsi sulla cronaca per guardare un po’ più lontano, lo rende vulnerabile agli agenti patogeni che prima o poi riprendono a circolare per la storia.

Esistono già alcuni termini che si avvicinano a designare ciò di cui stiamo parlando, quali ad esempio “presentismo” o “infocrazia”. Credo però si possa aggiungere altro. Il presentismo, infatti, causato dall’overdose di informazioni di cui disponiamo, è in una certa maniera una dimensione subita. Esiste però pure una condizione scelta, che vorrei denominare attualitudine, che consiste nell’eleggere l’immediatezza come via più certa per la conoscenza. Stare il più possibile attaccato ai fatti, dentro i fatti, magari essere i fatti: questa sarebbe la conoscenza di più alto rango. Non è forse un caso che proprio oggi sia in voga, in certe frange della nostra cultura legate alla critica sociale radicale, l’assioma in base al quale se non vivi sulla tua pelle una certa esperienza, la tua parola su quella esperienza sarà sempre meno appropriata di chi la vive dall’interno: se, ad esempio, non sei una persona di colore, non potrai mai esprimerti con cognizione di causa sul razzismo.

Questa logica, qualora fosse portata alle estreme conseguenze, ovviamente impedirebbe qualsiasi reale comunicazione tra esseri umani, visto che nessuno sarà mai esattamente al posto mio né io al posto di un altro, ma tant’è. Imparentato con ciò, anche se alla lontana, è il mito contemporaneo dell’experience. Hotel, Spa, ristoranti, tour operator, guru spirituali: tutti offrono l’esperienza, ovviamente “a 360 gradi”, immersiva, totalizzante. Promettono di conficcarci nelle cose. Siamo verticali, ma vorremmo essere orizzontali, per utilizzare dei versi di Sylvia Plath.

L’attualitudine ci consegna alla fissazione di “stare sul pezzo”, con la quale ci distraiamo dall’opera più importante, che consiste nel nascosto lavorio quotidiano della manutenzione della realtà. Quest’opera si può fare solo se si vive un po’ fuori sincrono rispetto alla storia e al fluire delle cose, ritardando la risposta allo stimolo. Dev’essere questo che i filosofi intendevano dire con “il saggio è colui che si prepara a morire”: il saggio, cioè, non ha stabile dimora nella cronologia, si decentra rispetto al presente potenziale e vive nel presente attuale.

No, non c’è alcun refuso: per sconfiggere l’attualitudine serve il presente attuale. Cos’è questo presente attuale e qual è la differenza col presente potenziale? La differenza tra i due presenti è la medesima che sussiste tra l’infinito potenziale e l’infinito attuale. L’infinito potenziale è rappresentato da classi indefinite: dato un insieme finito qualunque di elementi, c’è sempre un elemento da poter aggiungere (pensate ai numeri naturali). L’infinito potenziale è un in-definito. L’infinito attuale è un infinito, appunto, sempre in atto, sottratto alla successione, ed in quanto è sempre in atto è inaggirabile. Pensate alla coscienza, al fatto cioè che abbiamo esperienza del mondo sempre come un contenuto della nostra coscienza (io vedo il mare, io provo dolore, io sto guidando la macchina ecc.).

Qualora voleste uscire dalla vostra coscienza ed esperire il mondo da un altro punto di vista, sareste sempre comunque una coscienza sul mondo, poiché non c’è modo di fare esperienza di qualcosa se non come coscienza (un sasso, infatti, per quanto ne sappiamo, non sa di essere un sasso, magari collocato su una spiaggia siciliana). Orbene, anche col presente è la stessa cosa: non si esce dal presente. Quando ricordo eventi passati o mi proietto nel futuro, è sempre dal e nel presente che ricordo il passato o immagino il futuro, come ci ricorda Agostino d’Ippona nelle Confessioni.

Viviamo tutti, dunque, questa doppia dimensione: c’è il presente potenziale, vale a dire il presente degli eventi sul calendario, delle successioni cronologiche, infinito perché ogni minuto si aggiorna l’inventario dei fatti (dal citofono che sta suonando alle dichiarazioni di guerra); c’è il presente attuale, l’eterno presente, quello del che c’è della vita, del puro accadere di esserci, del fatto che qualcosa c’è, il presente progressivo in atto in cui siamo immersi. Questo puro fatto di esserci pone le domande fondamentali, senza le quali non ci sono religione, filosofia, arte o scienze: perché c’è qualcosa anziché il niente? da dove ha origine tutto ciò? perché il male? perché la guerra? c’è un fine nel nostro innamorarci, odiarci, combatterci e poi morire?

È nel presente attuale che siamo più vicini alle fonti della vita. Per questo l’autentica nostalgia è sempre nostalgia del presente, di questo presente, dal quale alcuni di noi vivono lontani anche per tutta la vita.

In una lettera del 1929, Ludwig Wittgenstein, che aveva pubblicato pochi anni prima il famoso Tractatus logico-philosophicus, scrive che la parte più importante della sua opera è quella non scritta, poiché le parole possono dirci come il mondo è (quindi, aggiungiamo noi, cosa succede giorno per giorno), ma che il mondo “è” appartiene all’ambito del mistico, di ciò che deve essere rimuginato nel silenzio. Sotto l’attualità potenziale della cronaca scorre l’attualità attuale della vita. La vita, per parlare un po’ ad effetto, inizia quando il “mondo” finisce, nel senso che è ciò che scorre ininterrottamente (il presente attuale) sotto i fatti del mondo: è altro da questi ma non sta in una dimensione altra, bensì sempre sotto il nostro naso. Purtroppo spesso siamo distratti, e in certi momenti storici, come quello in cui viviamo, siamo distratti un po’ di più.

Il punto è che per preparare un “dopo” più pacifico, umano, vivibile o anche solo più umanamente decente, probabilmente occorre ricordarsi di non stare appiccicati alle “edizioni straordinarie” e continuare a fare bene il proprio mentre attorno si smania per non mancare l’ultimo lancio di agenzia. Non ci salverà né il ritiro dal mondo in un esilio tranquillo, né l’apostolato del Citizen journalism (uno dei prodotti più ambigui di questo inizio secolo), ma la capacità di portare avanti il presente potenziale senza perdere contatto col presente attuale: è da questo che si attinge il respiro lungo che serve nelle piccole o grandi crisi. Non c’è nulla di più “pratico”.

Se quando il mondo avrà terminato uno dei suoi ciclici giri attorno alla follia, ci troverà a coltivare il terreno giusto, allora si potrà ripartire meglio di ieri, in caso contrario la crisi si prolungherà.

Se quanto detto fin qui ha un minimo di sensatezza, bisognerebbe andarci piano con l’attualità anche in ambito formativo. Attualmente non c’è fatto di cronaca che non trovi subito qualcuno pronto all’istituzione di un corso o di una giornata apposita per affrontarlo. Per non parlare poi della didattica sempre pronta a setacciare i gusti dei “giovani d’oggi” per agganciare la loro attenzione. So di andare abbastanza controcorrente e di passare per bieco conservatore, eppure credo che se c’è una cosa che l’istruzione debba fare è insegnare la presa di distanza dal presente nella mediazione riflessiva a lento rilascio. Non dico, ovviamente, di coibentare la scuola per non farvi entrare la cronaca, di farne un museo da cultura libresca. Ciò è lontano dalla mia mentalità. Affermo semmai che occorre aggiustare il filtro in entrata, renderlo più selettivo.

Quando è morto Alain Delon, un docente, sui social, lamentava il fatto che i giornali del giorno dopo parlassero troppo dell’attore: “ma i ragazzi di oggi che ne sanno di Alain Delon?”, diceva.  Ognuno ha diritto alla propria opinione, eppure anche conoscere i miti dei propri genitori attempati addestra lo sguardo alla profondità. Questa voglia di immediatezza favorisce il “Grande indifferenziato”, per citare la giornalista Guia Soncini, che usa questa espressione nel suo brillante saggio Questi sono i 50. La fine dell’età adulta. Il “Grande indifferenziato” sarebbe quel blob informe in cui adulti e giovani parlano la stessa lingua, si vestono allo stesso modo, frequentano gli stesso posti, ascoltano la stessa musica, vedono gli stessi film. Per parlare ai giovani non è necessario parlare come i giovani. Per introdurli alla coltivazione del presente attuale  ̶  cos’altro dovrebbero fare gli adulti?  ̶  occorre farne anzitutto degli interlocutori, e per fare ciò è necessario lasciare che si differenzino dai più grandi senza eccessive invasioni di campo.

E così, alla fine di questa riflessione, forse riesco a rispondere a quel redattore di un importante quotidiano nazionale che un giorno, quand’ero fresco di laurea e con una cotta per il giornalismo, mi fulminò: «guarda che la filosofia non c’entra nulla col giornalismo». Sono sicuramente differenti, eppure, per dirla in modo molto sbrigativo, un pensiero senza attualità è vuoto, ma un’attualità senza pensiero è cieca. Presente potenziale e presente attuale, per battere il demone dell’attualitudine.

Loading