Cristian Leone (1992) si è laureato all’Università di Roma Tre nel 2015 in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, conseguendo poi la laurea magistrale in Storia e Società nel luglio del 2018. Attualmente è dottorando di ricerca presso l’Università degli studi Guglielmo Marconi di Roma. Ha pubblicato La via di Sorel al socialismo (pref. di D. Breschi, Luni Editrice, Milano 2022).

Recensione a
R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma
vol. III, il Mulino, Bologna 2021, pp. 548, €36.00.

Una monumentale opera sulle origini del fascismo, questo rappresenta Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma di Roberto Vivarelli. L’autore traccia in tre volumi, con una corposa, completa e rigorosa documentazione, tutti gli avvenimenti che hanno portato, dalla Grande guerra alla marcia su Roma, Mussolini al potere. Vivarelli, in questo terzo libro, oltre alla narrazione dei semplici fatti di cronaca si sofferma particolarmente sulle ragioni dell’avanzata squadrista e sull’interpretazione del fascismo. Approcciarsi all’opera di Vivarelli, nell’epoca dei social e delle semplificazioni, non è affatto facile ma è doveroso per chiunque voglia conoscere, con cognizione di causa e senza pregiudizi di sorta, un periodo così determinante della storia d’Italia.

L’autore riesce a fornire, forse per la prima volta in maniera completa, una descrizione imparziale ed oggettiva di quegli anni. Solitamente una certa storiografia, per ragioni più politiche e ideologiche che storiche, tende ad astrarre il fascismo dal contesto in cui si è generato. Vivarelli non commette assolutamente questo errore e, collocando l’ascesa del movimento di Mussolini in un preciso spazio temporale e geografico, dedica centinaia di pagine a descrivere il clima creatosi in Italia nel primo dopoguerra, concentrandosi particolarmente sulle violenze dei “sovversivi” durante il biennio rosso: «Non aiutano a capire le cose coloro che, per un pregiudizio ideologico, presentano di quegli anni un quadro in bianco e nero, dove i socialisti appaiono soltanto vittime e non mai i violenti aggressori quali si proposero di essere ed effettivamente furono» (p. 15).

Sia chiaro, l’autore non afferma mai che in Italia c’è, in quegli anni, un reale pericolo rivoluzionario. Escludere la possibilità di un sovvertimento violento dell’ordine costituito non può, però, ignorare l’esistenza di una situazione esplosiva dovuta a continue violenze verbali e fisiche da parte di una forza politica apertamente anti-italiana che non perde occasione per infangare e umiliare, ovunque possibile, il sentimento nazionale: «Una guerra civile dichiarata ma non combattuta, perché priva di concrete finalità in attesa di una rivoluzione concepita come un evento naturale, creava necessariamente una situazione che non poteva durare a lungo. Da un lato, il clima di minacce e di intimidazioni, che la propaganda socialista non si stancava di alimentare, prima di offendere gli interessi feriva profondamente i sentimenti. Quando anche non si trascendesse a vie di fatto, come spesso avveniva, la violenza era perenne in uno stillicidio continuo di abusi e di provocazioni, che avvelenavano la vita quotidiana dei cittadini e provocavano di per sé desideri di rivalsa e propositi di reazione» (p. 20).

La volontà di reagire alle violenze dei “sovversivi” sorge ben prima del fascismo. Nascono ovunque, in tutta Italia, per opera della borghesia conservatrice e liberale, associazioni e leghe patriottiche locali che, armate e non, tentano di opporsi al dominio dei “rossi” i quali, in alcune aree del paese, danno vita a vere e proprie «baronie» in cui la legge dello Stato viene di fatto annullata: «Succedeva così che, chiusi nelle loro isole territoriali, i socialisti pretendessero di organizzarvi, in attesa di una improbabile rivoluzione, una loro comunità sociale, del tutto disgiunta dalla comunità nazionale nella quale non ci si riconosceva, e intollerante al suo interno dei diritti di qualsiasi minoranza» (p. 148). È in questo clima, favorito da un sentimento pubblico di rabbia e sconforto, che il fascismo acquista i suoi primi consensi di massa: «Lo sviluppo del movimento fascista e il suo tasso di aggressività sono tanto maggiori proprio laddove i socialisti si erano più saldamente affermati» (p. 149).

L’autore non vuole fornire una giustificazione alle aggressioni fasciste, ritenute in molti casi eccessive e inopportune ma vuol far comprendere come, in quel contesto, tali violenze fossero ritenute legittime da un’opinione pubblica stanca ed esasperata dai continui abusi a cui assiste impotente da anni. L’elemento che costituisce l’inserimento del fascismo nelle forze della reazione è, infatti, di carattere nazionale e non politico. Non si combattono i socialisti perché socialisti ma in quanto negatori della Patria e dei suoi valori. Lo scontro è tra il tricolore e la bandiera rossa, è questo il magnete che consente al fascismo di attrarre a sé un’opinione pubblica così eterogenea, presentandosi, non con l’intenzione di abbattere lo Stato liberale, come in realtà vuole, ma come l’unica forza politica capace di ristabilire l’ordine costituito: «Se si ammette, e a me sembra un dato di fatto, che la carta vincente del fascismo sia stata la difesa dello stato nazionale, apparirà evidente che i più diretti responsabili della vittoria di Mussolini siano stati coloro che quella difesa resero legittima. Non si tratta di dare credito ad ipotesi di un pericolo rivoluzionario, che un esame dei fatti rivela in realtà inesistente. Si tratta piuttosto di prendere atto di che cosa fu, in quegli anni, e nelle nostre pagine lo abbiamo illustrato ampiamente, il socialismo massimalista, cioè il socialismo italiano tout court, le sue frenesie, le sue violenze, le sue viltà, i suoi dichiarati propositi di non voler far parte della comunità nazionale. Senza le follie del massimalismo, la reazione fascista e il suo successo rimarrebbero inesplicabili» (p. 487).

L’abilità di Vivarelli non consiste solo nella capacità di saper inserire il fascismo nel contesto italiano di riferimento ma anche nell’interpretare un movimento che si afferma sulla scena nazionale per reazione ma che con la reazione non vuole assolutamente essere confuso. L’autore, infatti, sottolinea il carattere di novità assoluta del fascismo, consistente nell’essere un fenomeno di massa con la volontà di mobilitare non il ceto medio, non la classe, ma l’intero popolo. La “svolta a destra”, in questa lettura, non viene identificata come un appiattimento del fascismo sulle posizioni della destra borghese e conservatrice: «Se c’era una cosa che Mussolini certo non voleva, e con ragione, era che il fascismo fosse visto come un movimento della destra, il che avrebbe reso impossibile il tipo di mobilitazione che lui si proponeva» (p. 40).

Il fascismo, considerato come movimento intrinsecamente antiliberale e solo contingentemente antisocialista, viene rappresentato come una peculiarità italiana in grado di fornire una risposta alla debolezza dello Stato liberale, incapace di gestire la propria trasformazione in Stato democratico e di affrontare il problema dell’inserimento delle masse nello Stato nazionale. Lo Stato liberale, secondo l’autore, preso atto della situazione esplosiva, avrebbe dovuto porsi a capo della reazione, avocando a sé il monopolio della violenza e presentandosi come l’unico difensore legittimo dello Stato nazionale, vanificando e fermando così l’opera delle squadre fasciste.

Il «fallimento del liberalismo» consiste nell’incapacità dello Stato creatosi nel primo dopoguerra di creare le premesse necessarie per l’instaurazione di una sostanziale e non soltanto formale democrazia liberale. Proprio la mancanza di questi presupposti determinanti ha permesso al fascismo di gestire la nazionalizzazione delle masse calpestando il metodo democratico e liberale basato, secondo l’autore, sulla responsabilità e la libertà personale. Qual è, dunque, la più grande lezione che si può imparare dal fascismo?

Vivarelli risponde così: «La lezione che lo studio delle origini del fascismo è ancora in grado di darci, come un costante monito, è che le libere istituzioni, anche quando se ne assumano le forme, non possono fiorire laddove non si sia preliminarmente attuata una rivoluzione liberale, nei suoi aspetti non solo economici ma e soprattutto intellettuali e morali, il che implica la volontà dei cittadini di vivere da persone libere» (p. 505).

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