Recensione a: L. Althusser, Per Marx, a cura di M. Turchetto, intr. di É. Balibar, trad. di Aa.Vv., Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 225, € 18,00.
Per Marx e oltre Marx. Dopo il XX Congresso del Pcus (1956), che per il movimento comunista mondiale fu trauma ma fu anche slancio, nella complessa e aperta contingenza degli anni Sessanta, uno dei più rigorosi filosofi marxisti elabora un’interpretazione delle opere di Marx che le libera da vari miti teoretici invalidanti e restituisce significato, obiettivi e complessità a opere come i Manoscritti economico-filosofici, L’Ideologia tedesca, Il Capitale. Il risultato è l’apertura del paradigma marxiano non alle ‘scienze umane’ ma all’epistemologia e alla metafisica.
Anche tramite una diversa periodizzazione delle opere, Louis Althusser – in Per Marx (a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano-Udine 2008) – individua infatti alcuni concetti fondamentali per una lettura più rigorosa del marxismo.
Avremo dunque la seguente classificazione:
1840-1844: Opere giovanili;
1845: Opere della rottura;
1845-1847: Opere della maturazione;
1857-1883: Opere della maturità (p. 35).
I concetti che ne scaturiscono sono teoria, rottura epistemologica, surdeterminazione.
Althusser insiste di continuo sulla necessità della teoria non soltanto per l’azione politica ma per lo stesso stare al mondo. «I marxisti sanno che nessuna tattica è mai possibile se non riposa su una strategia – e nessuna strategia, se non riposa sulla teoria» (p. 211). E questo anche a partire dalla indicazione di Lenin per il quale «senza teoria, niente pratica rivoluzionaria» (p. 146) ma generalizzandola e rendendo la teoria pervasiva di ogni altro aspetto del mondo, rendendola di per sé prassi, rendendola quello che sempre una buona teoria è: rivoluzionaria delle condizioni esistenti.
È da una diversa teoria che si genera la rottura epistemologica che definisce «la tesi corrente dell’hegelismo del giovane Marx» come «un mito» (p. 35), in quanto Marx sarebbe stato invece prima kantiano-fichtiano e poi feuerbachiano; alcuni elementi di Hegel cominciano ad apparire soltanto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. In ogni caso la celebre formula del «rovesciamento» della dialettica hegeliana da parte di Marx sarebbe una «finzione» (p. 100) poiché attribuisce a Marx una intenzione che fu di Feuerbach.
Il rovesciamento della dialettica, e altre analoghe formule, rimangono sempre all’interno della dialettica hegeliana e non potrebbero mai condurre a una filosofia scientifica della storia, che è l’obiettivo perseguito da Marx. Per questo egli rompe in modo chiaro e ripetuto con ogni filosofia della coscienza e con ogni antropologia, elaborando a partire dal 1845 una «critica radicale delle pretese teoriche di ogni umanesimo filosofico» (p. 199).
Il frutto di questa distanza dall’hegelismo e del radicale rifiuto dell’umanesimo è un’apertura alla complessità della storia e degli eventi che rimuove la dimensione psicologica, volontaristica e ‘spirituale’ a favore invece della necessità insita nei processi dei quali gli umani non sono le guide ma una semplice parte. Si tratta di un elemento fondamentale, la cui scoperta e argomentazione produce una vera e propria esultanza teoretica e anche stilistica: «Forse, non rientra in questo ordine di cose gioia più grande che assistere così, in una vita nascente, una volta detronizzati gli Dei delle Origini e dei Fini, alla genesi della necessità» (pp. 66-67).
Il rifiuto del monismo economicista, il riconoscimento del pluralismo delle ragioni e della complessità dei modi che generano e fanno la storia umana, è chiamato da Althusser surdeterminazione e ha il suo effetto più significativo nella riconduzione dell’economico – ‘la produzione’ – a un elemento solo ‘in ultima istanza’ determinante ma che agisce insieme a molti altri: «Questa surdeterminazione diventa inevitabile, e pensabile, dal momento in cui si riconosce l’esistenza reale, in gran parte specifica ed autonoma, irriducibile dunque ad un puro fenomeno, delle forme della sovrastruttura e della congiuntura nazionale ed internazionale» (p. 104).
Il concetto di ideologia viene fortemente illuminato dalla surdeterminazione. Ogni società esistita e ogni società pensabile si compone «di un’attività economica di base, di un’organizzazione politica e di forme ‘ideologiche’ (religione, morale, filosofia ecc.). L’ideologia fa dunque organicamente parte, in quanto tale, di ogni totalità sociale» (p. 203). Solo una cattiva ideologia può immaginare società senza ideologia, mondi nei quali l’ideologia in quanto tale (non le sue diverse e contrastanti manifestazioni storiche) viene sostituita dalla ‘scienza’.
La scienza delle società è tale perché riconosce la costitutiva pervasività dell’elemento ideologico, ‘sovrastrutturale’:
Tale utopia, ad esempio, è al principio dell’idea che la morale – che è per sua essenza ideologia – potesse essere sostituita dalla scienza o divenire sempre più scientifica; che la religione potesse essere spazzata via dalla scienza, che in qualche modo ne prenderebbe il posto; che l’arte potesse confondersi con la conoscenza o diventare ‘vita quotidiana’, ecc. E per non aggirare la questione più cocente, il materialismo storico non può concepire che la stessa società comunista possa fare a meno d’ideologia, che si tratti di morale, di arte o di ‘rappresentazione del mondo’ (p. 203).
L’ideologia forma gli umani, pervade i corpimente, è condizione del permanere della prassi e di ogni sua metamorfosi.
Uno degli effetti di lunga durata della rottura epistemologica e della surdeterminazione, individuati da Althusser come costitutivi della filosofia di Marx, è la tesi ancor più strettamente epistemologica che con una formula di Sellars (e Husserl) possiamo definire il rifiuto del «mito del dato», dell’elemento positivistico che precipita nel riduzionismo scientista.
Althusser osserva che
quando una scienza si costituisce, per esempio la fisica con Galileo, o la scienza dell’evoluzione delle formazioni sociali (materialismo storico) con Marx, lavora sempre su concetti esistenti, su ‘Vorstellungen’ cioè su Generalità I, di natura ideologica, preliminari. Non lavora su un puro ‘dato’ oggettivo, che sarebbe quello del ‘fatto’ puro e assoluto. Il suo lavoro consiste al contrario nell’elaborare i propri fatti scientifici, attraverso una critica dei ‘fatti’ ideologici elaborati dalla pratica ideologica anteriore. Elaborare i propri ‘fatti’ specifici è, al tempo stesso, elaborare la propria ‘teoria’, dal momento che il fatto scientifico – e non il preteso fenomeno puro – si identifica soltanto nel campo di una pratica teorica (p. 161).
E aggiunge che
il semplice non esiste mai se non entro una struttura complessa; l’esistenza universale di una categoria semplice non è mai originaria, appare soltanto al termine di un lungo processo storico, come prodotto di una struttura sociale estremamente differenziata; non abbiamo dunque mai a che fare, nella realtà, con l’esistenza pura della semplicità, sia essa essenza o categoria, ma con l’esistenza di ‘concreti’, di esseri e di processi complessi e strutturati (p. 172).
È anche questa piena consapevolezza epistemologica a generare una lettura del tutto corretta e plausibile del marxismo come filosofia antiumanistica. Un antiumanesimo teorico che è condizione della conoscenza «del mondo umano stesso, e della sua trasformazione pratica. Si può conoscere qualcosa degli uomini soltanto alla condizione assoluta di ridurre in cenere il mito filosofico (teorico) dell’uomo» (p. 201).
Negli anni di Althusser tale antiumanesimo comportò il rifiuto di ogni riformismo, la consapevolezza della «sfida quotidiana che i comunisti lanciano a tutti i riformisti del mondo, che credono che si possa rovesciare l’ordine delle cose sulla sua stessa base, per esempio rovesciare l’ineguaglianza sociale in eguaglianza sociale, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in collaborazione tra gli uomini, sulla base stessa dei rapporti sociali esistenti» (p. 169). Nei nostri anni è sempre questo antiumanesimo a farci rifiutare il dominio dei ‘diritti universali dell’uomo’, la trasformazione interamente e soltanto liberale e borghese dei desideri in diritti, con proclami di guerra contro chi quei diritti borghesi continua a ritenere che siano in realtà soltanto legittimi desideri individuali e che non possono diventare un dispositivo politico. Il tramonto e fine della ‘sinistra’ in Occidente sta tutto qui, in questa ennesima metamorfosi dell’umanesimo dei dominatori:
Quando la ‘classe emergente’, borghese, sviluppa nel corso del XVIII secolo un’ideologia umanista dell’uguaglianza, della libertà e della ragione, essa conferisce alla propria rivendicazione la forma dell’universalità, come se volesse così arruolare al suo fianco, formandoli a un tal fine, gli uomini stessi che essa libera soltanto per sfruttarli in seguito. […] In verità, la borghesia deve credere al proprio mito prima di poter convincere gli altri. […] La sua ideologia consiste in questo gioco di parole sulla libertà, che rivela tanto la volontà borghese di mistificare i propri sfruttati (‘liberi!’) per tenerli al guinzaglio, attraverso il ricatto della libertà, quanto il bisogno della borghesia di vivere il proprio dominio di classe come libertà dei propri sfruttati (p. 205).
Direi che queste parole sono una fotografia del presente, in particolare dell’ideologia woke e della cancel culture.
Se la classe operaia, organizzata o meno, in gran parte non esiste più, se il movimento di emancipazione economica e politica si è dissolto, questo libro di Althusser rimane pervaso di una serietà della politica senza la quale la πόλις si riduce a puro spettacolo.