Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
È doveroso ringraziare il professor Mattia Flamigni per il prezioso contributo che ha portato, con il suo articolo (Concorso ordinario per la scuola: “flop” del test o dei candidati?), alla rubrica “Pensare la scuola”, introducendo un tema delicato come quello del concorso ordinario – ancora in corso di svolgimento – che tante polemiche ha portato con sé, donandoci un punto di vista diverso, in quanto non allineato. Però, pur apprezzando la strutturazione dell’articolo e condividendo, in linea generale, le conclusioni a cui arriva, le considerazioni in merito alla prova in sé mi hanno lasciato perplesso. Da qui, nasce questa risposta, volta a voler stimolare un più ampio dibattito sull’argomento.
Prima di cominciare, è doveroso puntualizzare che lo scrivente fa parte di quel basso numero percentuale che ha passato la prova scritta, dunque le considerazioni espresse non possono essere ricollegabili a un particolare risentimento o alla volontà personalistica di demolire la cosa che ci ha visto fallire. Ciò nonostante, non sento alcuna soddisfazione da un punto di vista di riconoscimento delle mie conoscenze, e cercherò di spiegare il perché.
La questione dirimente riguarda proprio il primo punto sollevato, ovvero il tipo di prova proposto ai candidati. Mi stupisce che Flamigni, di formazione umanistica, possa stimare adeguato un test a risposta multipla, che è forse il tipo di esame delle conoscenze più anti-umanistico che possa essere concepito.
Il criterio con cui questo tipo di prova è stato scelto, è abbastanza evidente: dato l’alto numero di candidati, proporre degli esami scritti, come quelli pensati dal precedente ministro, avrebbe obbligato il Miur ad istituire delle costose commissioni per la correzione delle prove. Un database di domande a risposta multipla, capace di correggere in automatico tutte le prove, è invece una soluzione meno dispendiosa e più rapida. Ora, per quanto efficiente da un punto di vista tecnico, questo tipo di provo si dimostra deleterio non tanto per la valutazione sull’insegnante – Flamigni fa notare, giustamente, che è prevista pure una prova orale – quanto proprio per la valutazione delle conoscenze.
Flamigni afferma che, chi insegna una determinata disciplina, deve averne una conoscenza approfondita in ogni sua parte, e che, per quanto non sia possibile essere onniscienti, allo stesso modo un insegnante deve evitare di settorializzarsi. Niente di più giusto e condivisibile, ma si deve pur tenere presente che l’approfondire parte dal problematizzare, dall’argomentare e dal controbattere, cosa impossibile in un test a domande chiuse, dove invece la risposta è una e secca. Per spiegarmi meglio, voglio porre due esempi: uno riguardante la grammatica, l’altro riguardante la matematica. Nel primo caso parlerò per esperienza diretta, nel secondo per testimonianze ricevute.
Ora, chiunque non fermi la sua conoscenza grammaticale alle reminescenze delle scuole medie – ohimé, una parte ben poco numerosa – sa che la riflessione sulla propria lingua parte anzitutto dall’interpretazione dei fenomeni linguistici, e non tanto da una serie di norme precostituite che si ergono al di sopra della stessa. In uno dei test per l’insegnamento dell’italiano, era presente questa domanda: «”Enzo ha provato a seguire un corso di cucina online e si è appassionato moltissimo”, quale tipo di subordinata è presente nel periodo?». Ora, la frase in questione presenta un’ambiguità non risolvibile con una risposta a scelta multipla, dato che, personalmente, non vi vedo subordinate, ma solo l’uso, tutto sommato comune, del costrutto verbale fraseologico “ha provato a seguire”. Chi ha concepito tale domanda, però, non vi ha riconosciuto quel fenomeno linguistico, considerando quel predicato non nella sua unità, ma spaccandolo in due. Il risultato? Che, per quanto mi riguardava, non solo la risposta esatta era assente, ma la domanda in sé priva di significato, mentre per il “concepitore” del quesito no – “concepitore” che probabilmente aveva interpretato “a seguire il corso di cucina online” come una subordinata oggettiva implicita. In questo caso, ci troviamo di fronte al classico caso di domanda a risposta multipla, oppure a qualcosa di più complesso e ambiguo?
Si badi bene, che non ho preso un caso isolato, ma la stessa ambiguità si riscontrava in molte domande anche di letteratura e di filosofia, materie che d’altronde fanno della riflessione e della complessità il loro punto forte. Domande come “Qual è il verso chiave di questa strofa?”, al di là del passo riportato o del testo, sono sin troppo interpretabili, per essere oggetto di un questionario chiuso. Lo stesso vale riguardo le domande sul pensiero dei grandi filosofi, che non possono essere ridotte a un «sì, no, forse», poiché è nella banalizzazione del concetto che si sedimenta il seme dell’equivoco. L’unico tipo di domande che poteva funzionare senza alcun tipo di ambiguità, erano quelle più strettamente nozionistiche, ma anche in quel caso si possono registrare eccessi, come alcuni casi (non tutti, a onor del vero) di attribuzione di passi o versi a determinati autori o a determinate opere; o come la datazione di un evento specifico con opzioni di date sin troppo vicine tra loro. Ora, non voglio, in questa sede, articolare una demonizzazione delle nozioni, poiché ritengo che abbiano una grande importanza nella formazione della conoscenza; ma, allo stesso tempo, le materie umanistiche non possono e non devono fermarsi a questo: promuovere un tipo di prova che può valutare adeguatamente solo la parte nozionistica, mentre inevitabilmente appiattisce la parte interpretativa, svilisce ulteriormente le già tanto svilite materie umanistiche, riducendole a una serie di concetti da impararsi a mente per poter segnare la risposta giusta in un test a risposta chiusa.
Ma, se Atene piange, Sparta non ride. Alcuni problemi di impostazione, infatti, sono stati ravvisati pure dai colleghi che hanno sostenuto le prove in abito scientifico. Il punto su cui la maggior parte ha battuto maggiormente, parlandomi di discipline come matematica e fisica, riguardava una scarsa proporzione tra la complessità dei quesiti e il tempo a disposizione: in molti casi, pare che il concorso si sia trasformato in una gara di velocità nell’esecuzione di calcoli. Ora, la domanda sorge spontanea: può essere la velocità di calcolo l’unico criterio per stabilire la conoscenza di queste discipline da parte di un docente? Per quanto non sia né un matematico, né un fisico, tenderei ad escluderlo.
Quanto detto fin ora, comunque, non deve essere equivocato: l’affermazione di Flamigni riguardo l’inadeguatezza di molti componenti della classe docente – forse anche del sottoscritto, non lo escludo – è vera. Molti di coloro che si sono presentati al concorso erano effettivamente inadeguati a ricoprire il ruolo; d’altronde, non è possibile che una nazione possa davvero generare 400.000 aspiranti docenti; per forza di cose, i numeri sono gonfiati da fattori sociali che poco hanno a che fare con la vocazione. Parimenti, è vero che molte università hanno le loro colpe, nella formazione frammentata e settoriale di molti laureati e dottorati. Tutto questo, però, non sta a giustificare un sistema di reclutamento della classe docente così casuale.
Come specificato all’inizio, faccio parte dell’esiguo numero dei “sopravvissuti”, ma tanti che, in termini di conoscenze, valevano quanto me – e forse di più – non hanno passato il test. Ciò che si evince, è che il punto fondamentale non era tanto alzare la qualità globale del corpo docente, quanto quella di “scremare” l’alto numero di iscritti al concorso. La questione non è secondaria, ma dirimente, poiché denota che il nostro ministero dell’istruzione non ha la minima idea di che tipo di insegnante voglia, nelle sue aule scolastiche, e dunque che non abbia alcuna idea effettiva di scuola. Tutto si riduce a un taglia-e-cuci di numeri, cattedre, classi coperte e classi scoperte; che è uno dei mali principali del istruzione italiana.
Per questo, in conclusione, ritengo che sia un errore considerare la prova proposta come “adeguata”. L’adeguatezza passerebbe da una prova realmente scritta, che possa mettere davvero “alla prova” le conoscenze del docente, sia per quanto riguarda i contenuti, sia per quanto riguarda la capacità di esposizione scritta. I numeri mastodontici di questo concorso diminuirebbero sensibilmente, poi, se, oltre a proporre una prova scritta come precedentemente descritta, finalmente ci si decidesse anche a dare una periodicità sistematica alle prove. Certo, tutto questo è forse utopico, poiché la prima cosa che manca, è la volontà di realizzare un progetto simile. Questo, però, non deve significare l’accettazione di questi modelli di concorso, ancillari, a mio modo di vedere, all’ideologia della non-scuola.