Anita Piscazzi, poeta, pianista e dottore di ricerca, si occupa di studi etnomusicologici e didattico-musicali. Ha pubblicato le raccolte poetiche: In lumen splendor (Oceano Ed., Sanremo 1999), Amal (Palomar, Bari 2007), Maremàje (Campanotto, Udine 2012), Alba che non so (CartaCanta, Forlì 2018) e diverse monografie, articoli e saggi scientifici su riviste specializzate. Sue poesie sono presenti in Ossigeno Nascente (Atlante dei poeti contemporanei italiani a cura del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), in diverse antologie tra cui Umana, troppo umana (Aragno, Torino 2016), in blog letterari e sulle piattaforme di registrazioni fonetiche di poeti contemporanei nel mondo come “PoetrySoundLibrary” di Londra e “Voices of Italian Poets” dell’Università di Torino. È stata tradotta in diverse lingue e collabora con riviste poetico-letterarie.
Recensione a
D. Breschi, Yukio Mishima. Enigma in cinque atti
Luni Editrice, Milano 2020, pp. 256, €20.00.
Nel paese del Sol Levante, dove i giardini splendono, la luna piange polvere d’argento, le case effondono una grazia malinconica, un uomo ne è affascinato, incantato. Di fronte a questa bellezza pura si sente piccolo e solo, come se una forza segreta lo divorasse, come se lo inghiottisse. Quest’uomo è Yukio Mishima, il più grande autore giapponese del Novecento ossessionato dalla bellezza fin da bambino. All’ombra dei ciliegi in fiore, scrive: «quando ci si concentra sulla bellezza, ci sovvengono, senza saperlo, i pensieri più oscuri». A soli sette anni si appassiona al teatro Nō che lo porterà a una convinzione intima: bellezza e crudeltà sono legate, eleganza e brutalità sono due facce della stessa medaglia. Da quel momento in poi, nulla sarà più come prima. Scriverà la sua prima poesia e sognerà di diventare scrittore, ma il Giappone in quegli anni entra in guerra. L’imperatore Hirohito capitola, gli americani controllano il paese. Mishima, animo puro e devoto alla figura sacra dell’imperatore, non si riconosce più in questa città occidentalizzata, violenta e capricciosa, affollata da prostitute e da pubblicità.
A cinquant’anni dalla sua morte, Danilo Breschi ha indagato con molto coraggio la complessità poetica e letteraria di questo autore, sfidando gli abissi della sua anima e della sua immensa arte, cercando di cogliere il mistero artistico-esistenziale, e lo ha fatto con la sua ultima fatica letteraria: Yukio Mishima. Enigma in cinque atti, pubblicato per i tipi della Luni Editrice di Milano. Breschi compie un’analisi attenta della vita e di alcune importanti opere dello scrittore e drammaturgo giapponese, da lui amato profondamente sin da giovanissimo, attraversandolo in cinque atti, come fosse a teatro dentro una delle sue più importanti scene, dialogando con lui attraverso scrittori che più gli sono stati affini: da Dostoevskij a Rilke, da Nietzsche a Kundera, da Pirandello a Camus, da Proust a Cioran, da Baudelaire a D’Annunzio. L’intento si legge nell’avvertenza iniziale al libro: «Rendere giustizia ad un autore sovente vittima dell’immagine stereotipata che egli stesso ha contribuito a costruire, tramutando un’opera letteraria di altissima levatura in un’icona pop tutta immagine e nessuna o poca sostanza», perché la vita e le opere di Mishima sono state per Breschi una sfinge che lo ha catturato sin dall’adolescenza tenendolo tuttora come «un Edipo sottoposto ad una interminabile interrogazione», pur sapendo che, nonostante l’indagine letteraria così approfondita, mai riuscirà a sciogliere completamente l’enigma Mishima. Questi è un prisma dalle mille facce che sfuggono, enigma di se stesso, fusione inimitabile di arte e di vita, tant’è che «cinquant’anni dopo, il mite e sorridente volto di Mishima resta una maschera che non ci ha ancora confessato tutti i suoi segreti».
Il merito di Breschi va soprattutto alla riflessione critica ed estetica delle opere dello scrittore giapponese candidato per ben tre volte al Nobel, riuscendo a restituirgli quella bellezza magnetica che solo la poesia incorporata in una prosa o in una narrazione potrebbe tanto ammaliare. Così scrive «il bello incontra il vero là dove l’artista sopprime se stesso diventando tutt’uno con la propria opera». In questa attenta analisi emerge l’anima del giovane esteta giapponese, ossessionato dalla bellezza e dal concetto di kalokagathìa, del buono e del bello, l’ideale greco antico di perfezione fisica e morale dell’uomo. Da sempre fiume carsico nelle vene di Mishima, questo ideale nell’aprile del 1952, di ritorno dalle coste dell’Egeo, gli farà dire: «la Grecia è la terra che amo», proprio perché il concetto ellenico di bello troverà terreno fertile nella visione estetica dello scrittore giapponese, il quale scriverà, tra l’altro, La leonessa, novella tragica basata su Medea di Euripide, trasposizione in chiave moderna di quella che è la più atroce delle tragedie antiche. Anni dopo, come sostiene Breschi, la ricerca di Mishima andrà ben oltre. Questa volta metterà in atto il tentativo di riconciliare il sublime inteso come «l’orrendo che affascina», cioè a dire il pathos che si prova tra lo spaventoso della natura, il finito dell’umano e la contemplazione del bello armonico e rassicurante.
Proseguendo nella sua analisi critica, Breschi compara l’assioma del dandysmo baudelairiano, secondo cui «grandi tra gli uomini sono solo il poeta, il prete, e il soldato, l’uomo che canta, l’uomo che benedice, l’uomo che sacrifica e si sacrifica»,con l’etica estetico-spirituale del samurai propugnata da Mishima, per la quale si affermano «la via della spada, suicidio rituale, religiosa venerazione della figura dell’imperatore, antichi riti, i kamikaze e altre forme culturali». C’è qualcosa di antico, anzi di nuovo, di sospeso tra la regola e l’eccesso, proprio come in Mishima: entusiasmo per la vita e forte desiderio verso la morte, l’annichilimento.
Mishima, monaco e guerriero, Mishima sole e acciaio, Mishima l’ultimo san Sebastiano incatenato alla colonna. E ancora: Mishima il samurai, Mishima il multiforme, miscela di antico e di nuovo. Questo è stato. Ritroviamo il senso del suo rapidissimo e vertiginoso volo dopo quindici anni dal viaggio in Grecia, quando proprio al mito di Icaro dedicherà una poesia dettatagli dalla inebriante esperienza provata alla guida di un aereo da caccia F-104: «Appartengo, fin dal principio, al cielo? / Se non v’appartengo; perché / mi ha fissato così, per un attimo, / con il suo sguardo infinitamente azzurro, / e mi ha attirato lassù, con la mia mente, / in alto, sempre più in alto, / e senza tregua mi seduce e mi trascina / verso altezze remote all’umano?». Il «kamikaze alla caccia del bello» ridisegna la propria anatomia. La bellezza lo tormenta, vuole trasformarsi in un’opera d’arte per quell’ideale antico di kalokagathìa. Scolpisce i propri muscoli con il bodybuilding, scopre le arti marziali e il kendo, tutte pratiche insieme di sensuale carnalità e di incoroporea purificazione. Maneggiando la sciabola e sentendo la morte, capisce che la bellezza e la morte sono inseparabili. Prova sensazioni che le parole non potrebbero mai suscitare, trovando una comunione dei corpi che nemmeno l’amplesso riesce a raggiungere. Fugge in tal modo l’insopportabile vuoto spirituale che lo assedia. O almeno ci prova, caparbiamente. Si immerge totalmente nella sua opera. Tutte le notti scrive fino all’alba, alla luce della luna. Il Giappone è sempre più materialista e lo stile di Mishima si arricchisce di bellezza e crudeltà. Esplora i propri demoni, ingaggia con loro una lotta angelica, mette in scena samurai e personaggi incipriati di bianco, di ambigua sessualità. In un’estetica solenne e sensuale, si stacca dal suo tempo. Prova delle emozioni che lo trascendono, gioie terrificanti e dolori effimeri.
In Confessioni di una maschera, come osserva Breschi, «la maschera è figura chiave in tal senso, perché al tempo stesso cela il volto e crea un doppio, ma a forza di indossarla può quasi aderirvi e diventare un tutt’uno, tanto da deformare quel volto e non sapere più distinguere cos’è maschera e cosa no». Niente è più melanconico di un clown. Del sorriso di un clown velato da un’ombra nascosta sotto la maschera, ma grazie ad essa, egli riesce a leggere la vita, senza filtri e senza ipocrisie tipiche del perbenismo della società borghese. A ventotto anni Mishima è famoso in tutto il mondo. Cambia modo di vestire. Scrive: «la maschera più efficace è ostentare sicurezza». Con il tempo, però, perde la sua sicurezza, la bellezza lo ossessiona. Teme di diventare brutto, non sopporta che il suo corpo possa deteriorarsi. Sogna l’eterna giovinezza. Cerca di scacciare le paure scolpendo appunto il suo corpo, diventa un bodybuilder, si sfinisce in un delirio di sforzo e di sudore per la perfezione del corpo. Breschi ha cercato di sfatare l’icona più consueta costruita attorno allo scrittore giapponese, di cui egli stesso è stato artefice: «Pochi, o nessuno, erano in sintonia con il proprio tempo, come lo era Mishima fino almeno alle Olimpiadi celebrate in patria, anche se altre facce del prisma della sua multiforme personalità, prima latenti, stavano da qualche anno sempre più illuminandosi». Ma Breschi ha condotto anche un’attenta analisi dei filmati in cui appare Mishima che parla e si spiega, arrivando a questa conclusione: «Un alieno, Mishima, un fuori posto che smania ed eccede per soffocare un disagio piuttosto che per adagiarsi sopra un tempo che smania ed eccesso chiede e concede alle nuove generazioni degli anni Sessanta».
Mishima, come l’ultimo Pasolini, disprezzava la perdita di coraggio degli studenti del Sessantotto giapponese: «La parola samurai evoca immediatamente, per associazioni d’idee, il termine “coraggio”. La perdita di coraggio e di sprezzo del pericolo è ciò che più amareggiava e indisponeva Mishima nei confronti della gioventù studentesca che protestava nel Sessantotto giapponese».
Negli anni Cinquanta la critica aveva consacrato Mishima per il romanzo Colori proibiti, definendolo più spinto ed esplicito sul versante della trasgressione. Verso il finale di questo romanzo troviamo scritto: «la bellezza è di questo mondo, eppure è irraggiungibile. Non è forse così? […] La bellezza, al contrario, è sempre di questo mondo. Si trova in questo mondo, esiste di fronte a noi, può essere toccata con mano. Che i nostri sensi riescano ad assaporarla è il requisito preliminare della bellezza. I sensi, dunque, sono fondamentali». Molti personaggi di Mishima sono stati paragonati da Breschi a figure uscite da un sottosuolo di memoria dostoevskiana, come il protagonista del Padiglione d’oro, al quale, però, mancano il senso del peccato e l’ossessione di doverlo espiare. Nella tetralogia del Mare della fertilità il tempo procede a sbalzi e qui s’intravede Proust. Con questa sua ultima fatica letteraria Mishima riteneva di aver scritto la propria opera-mondo, di aver svelato, o almeno saputo evocare, l’enigma del tempo: «Le quattro stagioni di Honda sono la giovinezza, la maturità, la mezza età e la vecchiaia della sua esistenza, che corrono parallele alle stazioni della travagliata parabola del Giappone moderno-contemporaneo. L’arco temporale complessivo abbracciato dai quattro romanzi va dall’autunno 1912 all’estate del 1975».
A quarant’anni Mishima inizia a scrivere il romanzo La decomposizione dell’angelo, forse il suo romanzo migliore, ultimo atto della tetralogia. Già in Colori proibiti aveva scritto: «La vecchiaia è di per sé una malattia della carne e dello spirito, e il fatto che sia incurabile significa che l’esistenza stessa è una malattia incurabile […]. Se la causa della decadenza è la malattia, allora la causa fondamentale di essa, la carne, è una malattia. L’essenza della carne è la decadenza». Mishima è convinto che il suo tempo sia finito. Nell’ombra e nel silenzio per cinque anni, quasi fosse la sua ultima opera, Mishima si prepara a morire. La mattina del 25 novembre del 1970, a quarantacinque anni, si alza prima del solito. Termina l’ultima frase del suo ultimo libro. Poi, si reca alla sede dell’esercito di Tokio. Sale le scale dell’edificio, esce sul balcone e, come un antico samurai, inneggia alla rivolta. Estrae il pugnale dal fodero e, di fronte ai testimoni attoniti, incide le proprie viscere. Il suo ultimo grido rompe il silenzio di Tokio. Il suo viso è pieno di luce, come il disco solare del Levante. Sulla scrivania, prima di uscire per l’ultima volta da casa, aveva lasciato un appunto: «la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre». Una sorte che, ancora a pochi mesi dal suicidio, chiedeva a se stesso e sperava di incarnare: «Penso che alla fine penna e spada non possono essere divise». Danilo Breschi ha voluto raccogliere l’anima fuoriuscita dal taglio che Mishima si è procurato e donarcela con la sensibilità e la passione che lo contraddistinguono.