Anita Piscazzi, poeta, pianista e dottore di ricerca, si occupa di studi etnomusicologici e didattico-musicali. Ha pubblicato le raccolte poetiche: In lumen splendor (Oceano Ed., Sanremo 1999), Amal (Palomar, Bari 2007), Maremàje (Campanotto, Udine 2012), Alba che non so (CartaCanta, Forlì 2018) e diverse monografie, articoli e saggi scientifici su riviste specializzate. Sue poesie sono presenti in Ossigeno Nascente (Atlante dei poeti contemporanei italiani a cura del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), in diverse antologie tra cui Umana, troppo umana (Aragno, Torino 2016), in blog letterari e sulle piattaforme di registrazioni fonetiche di poeti contemporanei nel mondo come “PoetrySoundLibrary” di Londra e “Voices of Italian Poets” dell’Università di Torino. È stata tradotta in diverse lingue e collabora con riviste poetico-letterarie.

Recensione a
F. Celeghin, Sulla terra scalzo
Edizioni Ensemble, Roma 2021, pp. 114, €12.00.

È come partire dall’anno zero ed essere uno e tre, venire fuori piano piano in un mondo di consolazione «che ha dato scacco matto al sole». Affondare il corpo nudo nelle radici della terra, per non dimenticare il contatto di quel ventre da dove veniamo: «La terra qui non mi respira. / Ciò rende giustizia, /a tutti i miei sensi assetati».

È una scrittura forte, una rasoiata quella di Sulla terra scalzo, prima raccolta poetica di Fausto Celeghin per i tipi di Ensemble. Il libro è diviso in cinque atti: zero uno enter, zero due me, zero tre non me, zero quattro mondo 2050, zero cinque consolazione, che sono anche le fasi della malattia di Parkinson, «figlio degenere o Parkin & Son, zio Morby o il mostro appoggiato al muro», come ama definirla il poeta stesso, un po’ per esorcizzare un po’ per farsi amico di questo Moloch che tutto divora.

Il libro è corredato dalla prefazione di Ernesto Siciliano, dalla postfazione dell’AAPP (Associazione Amici Parkinsoniani Piemonte) e dalle illustrazioni di Carlo Salandin. La raccolta è dedicata alla madre Norma che l’autore definisce danza primordiale, genesi, dunque Gaia-Terra: «prepotente entrai nel tuo corpo,/giaciglio e giardino, /[…] mi feci scorrere negli alvei del fiume. / […] al perpetuo ondeggiare / di madre che culla da sempre /i vagiti del mondo».

Celeghin è una supernova che esplode con il suo fascio luminoso da una terra malsana, calpestata a piedi nudi, che improvvisamente diventa fertile e maledetta. Quasi un farmaco che avvelena e cura nello stesso tempo e che gli restituisce quell’andamento umorale tipico dell’humus della terra:

Tutti questi anni passati a tradire,
seguendo le acque di un fiume melmoso.
Per pietà annaspate Santi
dalle barbare promesse,
per decenza affogate,
coi vostri simulacri di vita eterna.
Qui su terra dalle mani alle mani,
e sui tetti da cielo a cielo,
ogni teatrante finga di ingoiare le proprie menzogne,
e vomiti una briciola di verità.

L’autore è consapevole che il tempo non esiste e che è solo un’invenzione umana. Ci accompagna nel suo delirio visionario impastandolo di cadenze bibliche che ci riportano all’Ecclesiaste, alla lingua di Walt Whitman e di Ernest Hemingway, ai migranti dell’Oklahoma raffigurati dall’ampia tavolozza espressiva del romanzo Furore di John Steinbeck, da lui molto amato, al quale dedica The Ghost of Tom Joad. Una  ballata che ha lo stesso titolo di quella più famosa di Bruce Springsteen, abitata da trentamila miliardi di anime, da vecchie carrette della Ford T, dalla Gran Torino, da  prostitute scambiate per sante, da inquisitori aragonesi e da Caronte che ulula perché è consapevole che ormai l’inferno è da un’altra parte:

Oggi è il giorno del perdono.
Su questa terra,
di trentamila miliardi di solchi d’aratro
di tappeti di capelli tessuti da puttane, immolate sante.
Angeli scavano e soffiano e sbuffano,
spiumandosi le ali,
e un rovescio di medaglia diventa uno spicchio d’inferno.

Ma Celeghin si sente un gigante, al di sopra di questo gran teatro, così ogni mattina guarda immobile dalla finestra il cielo su di lui:

Non fluttuo nel vento
leggere e suadenti parole,
che accompagnano baci,
[…]
Percepisco cinque vasti laghi,
dimorano nel mio petto.
Permetto all’acqua di irrorarmi,
prosciugandomi infallibilmente,
[…]
Mi rendo preda,
in una vulnerabile tana.
[…]
Tu non rimani
che un gigante immobile
lungo la via.

Se la California è la terra promessa dei Joad del romanzo di Steinbeck, per il poeta è più una terra dell’anima che germoglia dentro di noi è: «La terra del sentire, / senza confini. / La terra del vedere, / senza paura. / La terra del proliferare, / senza semi del futuro». È quell’antica alchimia che abita solo il deserto del suo cuore.

Leggendo la raccolta ci si ritrova su un cammino di purificazione, di spoliazione, di svuotamento materiale di se stessi come un ritorno all’essenziale, necessario per arrivare sulla terra scalzo, come l’ultimo Francesco ricoperto solo di stracci:

Iniziai a perdere le piume,
poi altri peccati.
Mi feci guardingo.
Lasciai tutte le cose inutili.
Sono un mucchio di stracci,
lungo il corso della storia.
Poi persi il cappello,
rubato dal falco.
Poi il mantello
con cui coprii un lupo
La corrosione dell’animo mi lasciò svilito.
[…]
Mi rinfrescarono d’acqua sorgiva,
mi diedero una veste.
Sono un mucchio di stracci,
[…]
Sono quel fiore di campo,
che non sai cogliere.
Alla volta celeste mi chiesero: «Ora sei implume, cosa vuoi essere?».

Ma Celeghin, vuole essere solo un fiotto di acqua fresca, un virgulto che con lentezza e a fatica sboccia come un fiore «che non hai mai annaffiato».

Quello dell’Autore è un percorso poetico doloroso ed essenziale per ritornare dalla notte orfica dove i suoi piedi sono scivolati per calzare poi delle scarpe più leggere, capaci quasi di sollevarsi dal suolo terreno:

Se vedete le mie scarpe fracide,
ditele di ritornare.
[…]
Me l’han detto che se ne andavano,
dato che le mie gambe,
non vogliono saperne di camminare.
[…] Se le vedete sulla strada di Kerouac,
in una foto di Chatwin,
o nel film Into the Wild,
ditele di tornare: la felicità va condivisa.
[…]
Ero sceso agli inferi,
e tornato
e laggiù mi dissero,
in accordo con Dio: «Orfeo, puoi finalmente guardare in volto Euridice».

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