Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

L’amore nel distacco:

Lo giglio, quand’è colto, tost’è passo,

da poi la sua natura lui no è giunta:

ed io, dacunque son partuto un passo

da voi, mia donna, dolemi ogni giunta,

 

perché d’amare ogne amadore passo,

in tanta alteze lo mio core giunta:

così mi fere Amor, la’ ‘vunque passo,

com’aghila quand’a la caccia è giunta.

 

Oi lasso me, che nato fui in tal punto,

c’unque no amasse se non voi, Chiù gente!

Questo saccio, madonna, da mia parte:

 

in prima che vi vidi ne fui punto,

serviivi ed inoraivi a tutta gente,

da voi, bella, lo mio core non parte.

Il codice “Vaticano 3793”, conservato nella Biblioteca Vaticana Apostolica, è il più ampio canzoniere contenente poesie italiane del periodo pre-stilnovista che sia arrivato fino a noi. Aprendo questo codice, il primo autore in cui il lettore si imbatterebbe, sarebbe Giacomo da Lentini, poeta della famosa Scuola Siciliana, passato agli onori dei libri di scuola in qualità di probabile inventore del sonetto e del verso endecasillabo. Le liriche del “Notaro” (come si soprannominava esso stesso) sono divise in sezioni: v’è quella delle “canzoni”, quella delle “tenzoni” e quella, appunto, dei “sonetti”. Il componimento qua riportato è proprio il primo a comparire in quest’ultima sezione. Questo, però, non significa che sia il primo sonetto della storia della letteratura: chiunque abbia “assemblato” questo enorme canzoniere, infatti, non pare aver dato troppo peso all’ordine cronologico, o un qualsiasi tipo di ordine rigido, per orror dei filologi!

 L’alta raffinatezza stilistica del componimento farebbe pensare a un uso già sicuro e disinvolto del sonetto. La cosa che più salta all’occhio del lettore, infatti, è lo stravagante gioco delle rime fatto dal poeta: Giacomo da Lentini costruisce tutto il componimento con rime equivoche, dallo schema ABAB ABAB CDE CDE, ripetendo quasi ossessivamente le parole “passo”, “giunta”, “punto”, “gente” e “parte”. Non pare credibile che il Notaro abbia pensato di cimentarsi in un esercizio formale così difficile come prima prova metrica sperimentale. È anche vero, però, che in nessuno dei sonetti scritti da Lentini o da altri autori pre-stilnovisti è possibile trovare un qualcosa che assomigli a un “prototipo” o a una “prima prova”; è preferibile, dunque, soprassedere a tale argomento e concentrarsi sui contenuti testuali.

La prima strofa si sviluppa su una similitudine simmetrica: nei primi due versi, il poeta parla di un giglio, che, appena colto, comincia ad appassire, poiché si è separato dalla terra, che dà ad esso nutrimento e vita; nei due versi successivi, l’autore afferma che ciò che accade al giglio similmente accade a lui, una volta divisosi dalla sua amata. La seconda strofa attacca spiegando come mai il distacco provochi un tale trauma in lui: egli, infatti, supera di gran lunga gli altri uomini in capacità di amare, poiché il suo cuore può arrivare ad altezze considerevoli. Negli ultimi due versi, v’è un’altra similitudine simmetrica: sfruttando l’immagine precedentemente data, del cuore che vola, il poeta afferma che Amore lo ferisce più e più volte, come un’aquila fa con la sua preda quando è a caccia. Nella terza strofa il poeta afferma che sarebbe stato estremamente sfortunato ad essere nato in un’epoca come la sua, se non avesse avuto da amare una donna nobilissima come lei. L’ultimo verso si collega all’ultima strofa – altro virtuosismo che denuncia un uso già sicuro della forma del sonetto – e l’autore afferma di voler far sapere una cosa alla sua donna, ovvero che rimase colpito da lei sin dal primo sguardo, che sempre l’ha onorata e servita davanti a tutti, che il suo cuore, al contrario del suo corpo, da lei non si divide mai.

Il tema principale del sonetto è quello dell’amore lontano ed ha discendenza occitana. L’ amor de loing, infatti, ha come suo “inventore” il misterioso poeta provenzale Jaufre Rudel, famoso più per la sua vida (una sorta di biografia romanzata) che per le poche canzoni pervenuteci. In questo breve scritto anonimo, si afferma che Rudel, nobile di Blaye, si innamorò della Contessa di Tripoli, senza averla però mai vista davvero, in virtù dei racconti che i pellegrini facevano sulla sua bellezza. Dopo aver scritto alcune canzoni su questo amore lontano – a noi ne sono arrivate sei – decise di partire per il Medio Oriente, arruolandosi come volontario nella crociata. Purtroppo, si ammalò durante il viaggio e fu portato, morente, fino a Malta. La contessa di Tripoli fu avvertita di tutta la storia e, impressionata, decise di raggiungere Rudel, per consolarlo prima della dipartita. Così, il giovane poeta vide la sua amata per la prima volta, e poté morire con il cuore colmo di felicità.

Ora, questa storia ebbe molto successo tra poeti e letterati, e fu creduta vera fino almeno alla fine dell’Ottocento – Carducci stesso congetturò su chi potesse essere, in effetti, la misteriosa Contessa di Tripoli. Questo fece la fortuna del tema dell’amor de loing, che portava con sé un’astrazione estrema del sentimento amoroso e un trionfo totale della dimensione onirica rispetto a quella carnale. In un passo della prima delle sei canzoni pervenuteci, Rudel scrive:

Ben so che mai ho goduto di lei

e che di me ella già non godrà,

né mi farà promessa di se stessa

né per suo amico ella mi vorrà;

mai m’ha mentito e mai m’ha detto il vero

e io non so se giammai lo farà, a, a.

[traduzione di Giuseppe E. Sansone]

Giacomo da Lentini, però, non si limita a riproporre passivamente il tema dell’amore lontano così per come è stato presentato, bensì lo rielabora in maniera estremamente originale, ponendo allo stesso tempo le basi su cui si svilupperà la poesia amorosa italiana ed europea dei secoli successivi. Anzitutto, il Notaro parte da una preparazione culturale e filosofica più salda e coerente della maggior parte dei suoi “antenati” occitani, compreso Rudel. Tra le varie letture, spicca sicuramente quella del De amore di Andrea Cappellano, trattato latino in tre libri scritto verso la fine del XII secolo, probabilmente alla corte di Luigi VII e di Eleonora d’Aquitania. In quest’opera, l’autore si propone di parlare del sentimento amoroso in termini che noi, oggi, reputeremmo “scientifici”. Uno degli assunti principali di questo testo che più condiziona il pensiero di Giacomo da Lentini, è che l’amore nasca dalla vista diretta dell’amata. Insomma, non è possibile innamorarsi di qualcuno senza averlo mai visto, poiché è proprio dalle forme e dall’immagine dell’altro, che il sentimento amoroso nasce. Contrariamente a Rudel, Giacomo da Lentini restituisce una dimensione fisica all’amore.

Ovviamente, questo ha ripercussioni enormi sullo sviluppo del tema: l’Amore lontano non è più un vezzo onirico, un gioco intellettuale, ma un dolore vero suscitato dal distacco. La prima similitudine, in tal senso, è più che esplicativa, costruendo un parallelismo perfetto tra il giglio colto da terra, che comincia subito a deperire, e il poeta allontanatosi dall’amata, condannato a fare altrettanto. Il dolore dato da questo distacco non è solo sentimentale, ma anche fisico: alla fine della prima strofa, l’io lirico afferma di sentire dolori a ogni giuntura del corpo, così come nella seconda strofa si articola l’immagine violentissima dell’aquila-amore che ferisce con crudeltà predatoria il cuore dell’amante.

Con questo, però, non si pensi che Giacomo da Lentini abbia condotto il sentimento amoroso a una dimensione puramente fisica. Il poeta, infatti, non fa cadere il discorso in un trionfo della carnalità e dell’edonsimo – come si vede anche dal più famoso sonetto I’m’aggio posto in core a Dio servire. Se la vista dell’amata fa nascere l’amore, quest’ultimo colpisce l’uomo internamente, nel suo spirito, e nella lontananza solo il fattore immaginifico e onirico può alleviare il dolore dell’amante. Come il Notaro scrive nella canzone Maravigliosamente, l’innamorato si dipinge, nel cuore, un’immagine di lei, così da portarla sempre idealmente con sé; oppure, come afferma nel finale di questo sonetto, il poeta dona la sua figura incorporea all’amata, donandole il suo cuore e mostrando la sua dedizione a lei cantandola, servendola e onorandola anche da lontano.

Non ci troviamo, dunque, di fronte a un’opposizione serrata all’amor de loing di Rudel, bensì a un suo completamento: Giacomo da Lentini “butta” una provvidenziale ancora per non far prendere il volo a un amore che avrebbe rischiato di diventare troppo concettuale, troppo rarefatto per poter essere, nei suoi pregi e nei suoi difetti, umano.

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